«Non sarebbe il caso di superare antichi pregiudizi dando finalmente attuazione, anche sul piano finanziario, a quel sistema pubblico fatto dalla gamba dello Stato e da quella delle scuole paritarie?».
Il premier Renzi lo ha solennemente promesso, il ministro per l’Istruzione Giannini l’ha più volte riconfermato: più investimenti per la scuola. Ma in tempi di spending review, i dubbi sono più che giustificati. In attesa di vedere qualcosa di concreto in questa direzione, è lecito interrogarsi sulla sostenibilità di un sistema dove il 98% delle risorse viene divorato dagli stipendi per il personale. «Non sarebbe il caso di ripensare dalle fondamenta l’intero edificio scolastico? E non sarebbe il caso di superare antichi pregiudizi dando finalmente attuazione, anche sul piano finanziario, a quel sistema pubblico fatto dalla gamba dello Stato e da quella delle scuole paritarie?». Ne è convinta la professoressa Luisa Ribolzi, che ha alle spalle molti anni di docenza universitaria come sociologa dell’educazione e ha esplorato a lungo i sistemi formativi italiani e stranieri.
Da dove si può ricominciare per un ripensamento che parta dalle fondamenta?
Mettendo al centro la realtà e non i preconcetti. Le pregiudiziali ideologiche, a quindici anni dalla legge Berlinguer che ha introdotto il sistema "a due gambe", sono ancora fortissime e rappresentano un tabù difficilmente estirpabile. Ma se trasferiamo la discussione dal piano ideologico a quello della sostenibilità finanziaria, la visione statalista evidenza molte crepe: costi altissimi per il personale, dislivelli notevoli nell’erogazione del servizio, penalizzazione dei ceti poveri. Insomma, a uno sguardo disincantato appare evidente che il monopolio statale è un tabù che ha fatto il suo tempo, anche solo per motivi squisitamente finanziari. Ci sono studi condotti negli Stati Uniti e in Svezia dove si certificano i risparmi che la libertà di scelta comporterebbe per i bilanci dello Stato diminuendo le spese pubbliche, dando più chance alle famiglie e non penalizzando (come avviene in Italia) coloro che non possono permettersi di pagare certe rette.
A quale modello ci si potrebbe ispirare in Italia?
Penso alla strada imboccata in alcune regioni per la sanità che, al netto di alcune distorsioni che vanno scongiurate ma non possono diventare un’obiezione di fondo, ha dimostrato di funzionare. Una strada all’insegna della sussidiarietà, con lo Stato che garantisce alcuni standard di base ma rinuncia alla gestione monopolistica diretta del servizio, valorizzando quello che di buono arriva dal privato sociale e nel contempo esigendo il rispetto di alcuni parametri essenziali. Come del resto già avviene nei confronti degli istituti che chiedono di essere riconosciuti come paritari.
In tempi di ritorno alla meritocrazia, c’è anche chi propone di abbandonare la strada dei finanziamenti a pioggia legandoli al livello di insegnamento offerto dalle singole scuole e ai risultati raggiunti dagli studenti. Lei che ne pensa?
È una prospettiva che costringerebbe i singoli istituti a rimettersi in gioco, a innovare, a migliorare i sistemi di insegnamento. I finanziamenti potrebbero essere erogati secondo un criterio che coniughi i livelli di apprendimento raggiunti in assoluto con quelli ottenuti rispetto ai livelli di partenza: una scuola che consegue miglioramenti notevoli magari in zone in cui è più difficile operare, può essere premiata più di un’altra che ha livelli assoluti più elevati ma non migliora da tempo, oppure opera in un contesto più favorevole. Ma bisognerebbe fare i conti con un altro tabù, quello legato alla valutazione dei singoli istituti. Ne sanno qualcosa quelli dell’Invalsi, che vengono bersagliati dalle critiche ogni volta che si fanno le prove nazionali.
Come dire che la scuola valuta ma non accetta di essere valutata?
Proprio così, anche se ovviamente non si può generalizzare. Inutile nascondere che esistono resistenze fortissime, sia a livello sindacale sia nel corpo docente. La valutazione dell’insegnamento secondo standard internazionali è accettata in un numero crescente di Paesi e sta producendo un miglioramento complessivo dei livelli di istruzione, anche in ragione della concorrenza virtuosa che si genera tra i singoli istituti. Del resto, questo non accade già? Pensiamo ai piani per l’offerta formativa che le scuole propongono ai genitori, agli open day per attirare iscrizioni, alle proposte formative che arricchiscono l’offerta. Le famiglie "premiano" le scuole migliori con l’iscrizione dei figli, lo Stato potrebbe fare altrettanto offrendo maggiori incentivi agli istituti che conseguono risultati migliori nei test di valutazione. Naturalmente, in parallelo è importante investire per migliorare le scuole deboli, non a pioggia ma in base a precisi progetti. E in questo caso, ci sarebbe una ulteriore concorrenza virtuosa tra statali e paritarie. Ma, come dicevamo, anche questo è un tabù difficile da abbattere. Peraltro ce n’è un terzo ancora più intoccabile…
Quale?
La vera padrona della scuola si chiama burocrazia, che nel succedersi di ministri di diverso colore politico continua a mantenere il controllo di questa gigantesca istituzione. Il potere che esercita le deriva dal monopolio statale, che continua a funzionare nella stessa maniera senza un vero rapporto con la qualità del servizio offerto. Gli utenti non possono fare nulla per migliorare, se non andarsene dalla scuola statale con conseguenti pesanti costi. Il che penalizza chi ne avrebbe più bisogno, cioè le famiglie povere. È questo il principale ostacolo alla crescita di politiche "di scelta".
Giorgio Paolucci
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