Per non abituarsi al terrore

Quali sono questi valori su cui oggi fondiamo il nostro stare insieme? E di chi parliamo quando diciamo "insieme"? In questi giorni ripensavo a Dietrich Bonhoeffer e ai suoi anni nel buio della Germania nazista...

Per non abituarsi al terrore

del 21 agosto 2017

Quali sono questi valori su cui oggi fondiamo il nostro stare insieme? E di chi parliamo quando diciamo "insieme"? In questi giorni ripensavo a Dietrich Bonhoeffer e ai suoi anni nel buio della Germania nazista...

 

Non abituarsi al terrorismo. Di fronte alle nuove stragi islamiste di Barcellona e della Finlandia (e a quella di Ouagadougu in Burkina Faso di cui probabilmente nemmeno ci siamo accorti) ascoltiamo l'ondata di parole che segue sempre questi tragici avvenimenti. E ci chiediamo: come non lasciarci paralizzare dal ripetersi di un copione già visto? Come non cedere alla sensazione che - con buona pace dei lumini e delle manifestazioni - qualsiasi cosa diciamo o facciamo appare inutile?

Non è facile provare a dare una risposta convincente a questa domanda. Personalmente trovo stucchevoli i commenti che iniziano con il perentorio "Adesso basta...". Fosse così semplice. Il terrorismo jihadista è frutto di decenni di contraddizioni, tra le quali c'è anche il lungo e scellerato flirt tra i nostri affari e l'ascesa di quei regimi che foraggiavano (e tuttora foraggiano) le scuole di pensiero più retrive all'interno del mondo islamico; le stesse che hanno posto le premesse dottrinali per questa cultura di morte. "Adesso basta..." probabilmente avremmo dovuto dirlo venti o trent'anni fa. E - peraltro - anche oggi farlo sul serio significherebbe essere disposti a mettere in discussione ricche commesse o investimenti finanziari provenienti da alcune aree del mondo. Cosa che i governi occidentali, invece, continuano a mostrare di non essere capaci di fare.

Detto questo, però, il rischio contrario, quello del fatalismo, rimane ugualmente serio. Il rischio di rassegnarsi alla violenza e al terrore come a una sorta di male ineliminabile che ciclicamente torna a fare irruzione nei luoghi che conosciamo bene e sentiamo vicini. Come provare, allora, a reagire davvero, senza ripetere slogan vuoti, ma nemmeno lasciando che - passata l'emozione o l'immagine del momento - tutto scorra via fino al prossimo attentato?

Balbetto mezza idea, sapendo che qui sotto non mancherà chi vorrà aggiungere la sua. E la prima cosa che mi viene da dire è: non fermiamoci alle risposte politiche. Certo che ci vogliono servizi di intelligence più accorti e sistemi di sicurezza efficaci. Ma non nascondiamoci dietro a un dito: la storia recente di tanti Paesi (Israele, ad esempio) dice che una risposta "tecnica" al terrorismo cambia solo le modalità di azione di chi vuole uccidere. Le stesse nuove "armi" utilizzate negli attentati più recenti lo dimostrano: se l'azione omicida è quella di un auto scagliata volontariamente su un gruppo di persone scelte a caso, si potranno proteggere meglio le zone più simboliche delle nostre città; ma chi vuole seminare morte e terrore un marciapiede affollato facile da colpire lo troverà sempre e comunque.

Se vogliamo reagire sul serio occorre il coraggio di portare il discorso su un altro piano; tornare a chiederci che cosa abbiamo da contrapporre a quest'odio ammantato di motivazioni religiose. Perché è troppo facile ripetere per qualche ora in piazza che noi siamo più forti, che non abbiamo paura, che questi gesti non cambieranno il nostro modo di vivere e che non ci faranno retrocedere dai valori in cui crediamo. Ma è davvero così? Quali sono questi valori su cui oggi fondiamo il nostro stare insieme? E di chi parliamo quando diciamo "insieme"?

Non ci abitueremo al terrore solo se non rinunceremo a ragionare su di noi. Perché farlo non è una resa al ricatto dei violenti, ma - al contrario - l'unico modo per tornare a guardare più lontano di loro. Chi educa all'odio i giovani musulmani cresciuti nelle nostre periferie, infatti, lo fa proprio puntando il dito contro di noi. Lo fa dicendo a questi ragazzi che - sotto i nostri slogan altisonanti - non abbiamo un'idea in grado di tenere insieme il mondo. Dicono che non abbiamo speranze da offrire loro, ma solo qualche briciola in più da consumare. Non usano formule magiche, ma parlano di noi. E davanti a questi stessi giovani, oggi, noi che cosa siamo in grado di ribattere?

In questi giorni ripensavo a Dietrich Bonhoeffer e ai suoi anni nel buio della Germania nazista. Anche lì la follia, la menzogna, le violenze mostruose continuavano a ripetersi, apparentemente uguali e invincibili. E quale fu la sua strada per non abituarsi? Bonhoeffer non rinunciò a interrogarsi sulle responsabilità politiche in quella Germania in corsa verso il baratro. Però coltivò anche un'altra domanda, più profonda; l'interrogativo che sarebbe diventato centrale nel tempo della prigionia e nelle pagine di Resistenza e resa. Il teologo in carcere per aver detto no al nazismo si chiedeva: in un mondo dove Dio non è più percepito (o è del tutto idolatrato, come nella violenza jihadista di oggi), come parleremo ancora di Lui? E concludeva: "Viene il giorno in cui sarà forse impossibile parlare apertamente, ma noi pregheremo, faremo ciò che è giusto e il tempo di Dio verrà".

E' questa perseveranza l'antidoto vero all'abitudine. Una perseveranza alimentata dalla preghiera, ma anche dalla domanda su ciò che è giusto. Giusto qui per noi. Ma anche per tutti i nostri giovani fratelli che non vogliamo lasciar trasformare in carne da macello nelle mani dei maestri dell'odio.

 

Giorgio Bernardelli

http://www.vinonuovo.it

 

 

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