Due persone camminano insieme. Si può vedere dal modo in cui camminano che non sono felici. I loro corpi sono ripiegati, il volto è triste, i movimenti lenti. Non si guardano in faccia. Ogni tanto pronunciano qualche parola, ma che non è diretta all'altro; Le parole svaniscono nell'aria come suoni vani.
del 01 gennaio 2002
«Signore, pietà»
Due persone camminano insieme. Si può vedere dal modo in cui camminano che non sono felici. I loro corpi sono ripiegati, il volto è triste, i movimenti lenti. Non si guardano in faccia. Ogni tanto pronunciano qualche parola, ma che non è diretta all’altro; Le parole svaniscono nell’aria come suoni vani. Anche se seguono il sentiero lungo il quale camminano, sembrano non aver alcuna meta. Ritornano a casa, ma la loro casa non è più casa. Semplicemente non hanno un altro luogo dove andare. La casa è diventata vuoto, disillusione, disperazione.
Riescono a malapena a immaginare che è stato soltanto pochissimi anni prima che incontrarono qualcuno che aveva cambiato la loro vita, qualcuno che aveva interrotto radicalmente la loro routine quotidiana portando una vitalità nuova in ogni parte della loro esistenza.
Avevano lasciato il loro paese, avevano seguito quel forestiero con i suoi amici e avevano scoperto tutta una nuova realtà nascosta dietro il velo delle loro ordinarie attività -una realtà in cui il perdono, la guarigione e l’amore non erano più delle mere parole, ma delle forze che toccavano la vera essenza della loro umanità. Il forestiero di Nazareth aveva reso tutto nuovo.
Li aveva trasformati in persone per le quali il mondo non era più un peso, ma una sfida, non più una terra piena di insidie, ma un luogo con infinite opportunità. Egli aveva portato gioia e pace nella loro esperienza quotidiana. Aveva trasformato la loro vita in una danza !
Ora è morto, il suo corpo che aveva irradiato luce è stato distrutto sotto le mani dei suoi torturatori. Le sue membra erano state solcate dagli strumenti della violenza e dell’odio, i suoi occhi erano diventati dei buchi vuoti, le sue mani avevano perduto la loro presa, i piedi la stabilità.
Egli era diventato un nessuno in mezzo a tanti nessuno. Tutto era diventato nullità. Essi lo avevano perduto. Non soltanto lui, ma, con lui, anche se stessi. L’energia che li aveva pervasi di giorno e di notte li aveva lasciati completamente. Erano diventati due esseri umani perduti che camminavano verso casa senza avere una casa, ritornando a ciò che era diventato un ricordo triste.
Per molti aspetti noi siamo come loro. Lo capiamo quando osiamo guardare dentro il centro del nostro essere e là incontriamo il nostro smarrimento. Non siamo sperduti anche noi? Se c’è una parola che riassume bene il nostro dolore questa è ‘perdita’. Abbiamo perduto così tanto! Alle volte sembra persino che la vita sia soltanto una lunga serie di perdite.
Quando siamo nati abbiamo perso la protezione del grembo materno, quando siamo andati a scuola abbiamo perso la sicurezza della nostra vita familiare, quando abbiamo ottenuto il nostro primo lavoro abbiamo perso la libertà della giovinezza, quando ci siamo sposati o siamo stati ordinati abbiamo perso la gioia di molte altre opzioni e quando siamo invecchiati abbiamo perso la bellezza, i nostri vecchi amici o la nostra fama. Quando ci siamo indeboliti o ammalati abbiamo perso l’indipendenza fisica e quando moriremo perderemo tutto! E queste perdite fanno parte della vita ordinaria! Ma la vita di chi è ordinaria?
Le perdite che si sistemano in profondità nel nostro cuore e nella nostra mente sono la perdita di intimità a causa delle separazioni, la perdita di sicurezza a causa della violenza, la perdita dell’innocenza a causa di maltrattamenti, la perdita di amici a causa del tradimento, la perdita dell’amore a causa dell’abbandono, la perdita della casa a causa della guerra, la perdita del benessere a causa della fame, del caldo, del freddo, la perdita dei bambini a causa delle malattie o di incidenti, la perdita del proprio paese a causa di cambiamenti politici e la perdita della vita a causa di terremoti, alluvioni, incidenti aerei, bombardamenti e malattie.
Forse molte di queste perdite terribili sono lontane dalla maggior parte di noi; forse appartengono al mondo dei giornali e agli schermi televisivi, ma nessuno può sfuggire alle dolorose perdite che fanno parte della nostra esistenza quotidiana -la perdita dei nostri sogni.
Avevamo pensato così a lungo di noi stessi come persone di successo che piacciono e che sono profondamente amate. Avevamo sperato una vita di generosità, di servizio e di abnegazione. Avevamo progettato di diventare persone pronte al perdono, disponibili e sempre gentili. Avevamo una visione di noi stessi come di persone che portano la riconciliazione e la pace.
Ma in qualche modo -non siamo nemmeno certi di quello che sia successo -abbiamo perduto il nostro sogno. Siamo diventati persone inquiete e ansiose e ci aggrappiamo alle poche cose che avevamo raccolto e ci scambiamo notizie di scandali politici, sociali ed ecclesiastici del giorno. È questa perdita di spirito ad essere spesso la più dura da riconoscere e la più difficile da confessare.
Ma al di là di tutte queste cose c’ è la perdita di fede -la perdita della convinzione che la nostra vita abbia significato. Per un certo tempo siamo stati capaci di sopportare le nostre perdite e di viverle persino con forza d’animo e con perseveranza perché le abbiamo vissute come perdite che ci avrebbero portato più vicino a Dio.
Le pene e la sofferenza della vita erano sopportabili perché le vivevamo come sistemi per mettere alla prova la nostra forza di volontà e per rendere più profonda la nostra convinzione. Ma andando avanti con l’età scopriamo che quello che ci ha sorretto per molti anni -preghiera, devozione, sacramenti, vita di comunità e una chiara conoscenza dell’amore di Dio che guida -ha allentato la sua presa su di noi.
Idee a lungo serbate, discipline a lungo r praticate e abitudini a lungo mantenute di celebrare la vita non riescono più a riscaldare il nostro cuore e non comprendiamo più perché e come fossimo così motivati. Ricordiamo il tempo in cui Gesù era così reale per noi da non esserci alcun dubbio circa la sua presenza nella nostra vita.
Era il nostro amico più intimo, nostro consigliere e nostra guida. Ci dava conforto, coraggio e fiducia in noi stessi. Potevamo sentirlo, sì, gustarlo e toccarlo. E ora? Non pensiamo più a lui molto a lungo, non desideriamo più passare molte ore alla sua presenza. Non abbiamo più quella speciale sensazione su di lui. Ci chiediamo persino se egli sia qualcosa di più che semplicemente un personaggio di un libro di racconti. Molti dei nostri amici ridono di lui, dileggiano il suo nome o semplicemente lo ignorano. Gradualmente siamo arrivati a renderci conto che anche per noi è diventato un estraneo -in qualche modo lo abbiamo perso.
Non sto cercando di dire che tutte queste perdite toccheranno la vita di ognuno di noi. Ma mentre camminiamo insieme e ci ascoltiamo l’un l’altro possiamo ben presto scoprire che molte, se non la maggior parte di queste perdite fanno parte del viaggio, del nostro viaggio o del viaggio dei nostri compagni.
Che cosa fare di fronte alle nostre perdite? Questa è la prima domanda che ci troviamo ad affrontare. Le nascondiamo? Dobbiamo vivere come se non fossero reali? Le dobbiamo tenere lontane dai nostri compagni di viaggio? Dobbiamo convincere noi stessi o gli altri che le nostre perdite sono minime rispetto a quanto abbiamo acquisito? Dobbiamo biasimare qualcuno
Facciamo tutto ciò la maggior parte delle volte, ma c’è un’altra possibilità: la possibilità di piangere. Sì! Dobbiamo piangere le nostre perdite. Non possiamo dire o fingere che non ci siano, ma possiamo versare lacrime su di loro e permettere a noi stessi di affliggerci profondamente.
Affliggersi significa permettere alle nostre perdite di lacerare i sentimenti di sicurezza e protezione e di condurci alla dolorosa verità della nostra rottura, della nostra prostrazione. Il nostro dolore ci fa sperimentare l’abisso della nostra vita in cui nulla c’è di sistemato, chiaro, ovvio e tutto è in costante movimento e cambiamento.
E mentre sentiamo il dolore per le nostre perdite, il nostro cuore afflitto apre il nostro occhio interiore ad un mondo in cui le perdite sono sofferte molto al di là del nostro piccolo mondo della famiglia, degli amici e dei colleghi.
È il mondo dei carcerati, dei rifugiati, dei malati di AIDS, dei bambini che muoio- no di fame e degli innumerevoli esseri umani che vivono in costante paura. Allora il dolore del nostro cuore affranto ci collega al pianto e all’afflizione di un’umanità sofferente. Allora il nostro pianto diventa più grande di noi. Ma in mezzo a tutto questo dolore c’è una voce strana, scioccante e tuttavia sorprendente. È la voce di colui che dice: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati». È la notizia inaspettata: c’è una benedizione nascosta nella nostra sofferenza. Non coloro che consolano sono beati, ma coloro che sono afflitti! In qualche modo, in mezzo alle nostre lacrime è nascosto un dono. In qualche modo, in mezzo alla nostra afflizione hanno luogo i primi passi della danza. In qualche modo, il pianto che sgorga dalle nostre perdite appartiene ai nostri canti di gratitudine.
Arriviamo all’eucaristia con il cuore spezzato da molte perdite, le nostre ed anche quelle del mondo. Come i due discepoli che tornavano a casa alloro villaggio diciamo: «Noi speravamo... ma abbiamo perso la speranza. Tortura e morte sono invece venute». La nostra testa non è più eretta, guardando in avanti, ma triste e rivolta a terra.
È così che comincia il viaggio. La questione è se le nostre perdite ci conducono al risentimento o alla gratitudine. Il risentimento è un’opzione reale. Molti lo scelgono. Quando siamo colpiti da una perdita dietro l’altra, è molto facile diventare disillusi, arrabbiati, amareggiati e sempre più pieni di risentimento. Più avanzano gli anni, più è grande la tentazione di dire:
«La vita mi ha ingannato. Non c’è futuro per me, niente per cui sperare. L’unica cosa da fare è di difendere il poco che mi è rimasto, in modo da non perdere proprio tutto». Il risentimento è una delle forze più distruttive della nostra vita. È la rabbia fredda che si è sistemata al centro del nostro essere indurendo il nostro cuore. Il risentimento può diventare un modo di vita che pervade a tal punto le nostre parole e azioni da non riconoscerlo più come tale.
Spesso mi chiedo come potrei vivere se non ci fosse per niente del risentimento nel mio cuore. Sono così abituato a parlare delle persone che non mi piacciono, a nutrire i ricordi degli eventi che mi hanno causato tanto dolore o ad agire con sospetto e paura tanto che non so come sarebbe se non ci fosse nulla di cui lamentarsi e nessuno di cui brontolare!
Il mio cuore ha ancora molti angoli che nascondono i miei risentimenti e mi chiedo se voglio veramente esserne privo. Che cosa farei senza questi risentimenti? Ci sono molti momenti nella vita in cui ho l’opportunità di alimentarli. Prima di colazione ho già avuto molti sentimenti di sospetto e gelosia, molti pensieri riguardo a persone che preferisco evitare e molti piccoli progetti per vivere la mia giornata con varie difese.
Mi chiedo se ci siano delle persone senza risentimenti. Il risentimento è una risposta così spontanea alle nostre molte perdite. La tragedia è che c’è molto risentimento nascosto all’interno della chiesa. È uno degli aspetti più paralizzanti della comunità cristiana. Eppure, l’eucaristia presenta un’altra opzione. È la possibilità di scegliere non risentimento, ma gratitudine. Piangere le nostre perdite è il primo passo dal risentimento verso la gratitudine. Le lacrime del nostro dolore possono ammorbidire il nostro cuore indurito e aprirci alla possibilità di dire ‘grazie’.
La parola ‘eucaristia’ significa letteralmente “azione di rendimento di grazie”. Celebrare l’eucaristia e vivere una vita eucaristica ha tutto a che fare con la gratitudine. Vivere eucaristicamente significa. vivere la vita come un dono, un dono per il quale si è grati. Ma la gratitudine non è la risposta più spontanea alla vita, certamente non quando sperimentiamo la vita come una serie di perdite!
Tuttavia, il grande mistero che celebriamo nell’eucaristia e che viviamo in una vita eucaristica è precisamente questo: attraverso il pianto per le nostre perdite giungiamo a conoscere la vita come un dono
La bellezza e la preziosità della vita sono intimamente connesse alla sua fragilità e mortalità. Possiamo farne esperienza ogni giorno - quando prendiamo in mano un fiore, quando vediamo una farfalla danzare nell’aria, quando accarezziamo un bambino piccolo. Fragilità e doti ci sono entrambe e la nostra gioia è connessa ad entrambe. Ogni eucaristia inizia con una forte richiesta di misericordia a Dio. Probabilmente non c’è preghiera nella storia del cristianesimo che sia stata pregata così frequentemente e intimamente come l’invocazione «Signore, pietà». È la preghiera che non solo sta all’inizio di tutte le liturgie eucaristiche occidentali, ma che risuona anche come un grido continuo in tutte le liturgie orientali. «Signore, pietà», «Kyrie eleison», «Gospody Pomiloe». È il grido del popolo di Dio, il grido del popolo dal cuore contrito. Questa accorata richiesta di misericordia è possibile soltanto quando siamo disposti a confessare che in qualche modo, da qualche parte, noi stessi abbiamo qualcosa a che fare con le nostre perdite.
Chiedere pietà è riconoscere che prendersela con Dio, con il mondo o con gli altri per le nostre perdite non rende piena giustizia alla verità di chi noi siamo. Al momento siamo disposti ad assumerci la responsabilità anche del dolore che non abbiamo causato diretta- mente; il biasimo viene allora convertito in un riconoscimento del nostro ruolo nella rottura e nella prostrazione umane.
La preghiera per la misericordia di Dio procede da un cuore che sa che questa rottura e questa prostrazione umane non sono una condizione fatale della quale siamo diventati le tristi vittime, ma il frutto amaro della scelta umana di dire ‘no’ all’amore.
I discepoli che tornavano a casa a Emmaus erano tristi perché avevano perduto colui nel quale avevano riposto tutte le loro speranze, ma erano anche del tutto consapevoli che erano stati i loro capi a crocifiggerlo. In qualche modo sapevano che il loro dolore era collegato al male, un male che essi potevano riconoscere nel loro stesso cuore.
Celebrare l’eucaristia richiede che noi, stando in questo mondo, accettiamo la nostra corresponsabilità per il male che ci circonda e ci pervade. Finche rimaniamo attaccati al lamentarci dei tempi terribili in cui viviamo, alle terribili situazioni che dobbiamo sopportare e al destino terribile che dobbiamo soffrire, non possiamo giungere alla contrizione.
La contrizione può svilupparsi soltanto da un cuore contrito. Quando le nostre perdite sono semplicemente destino, i nostri miglioramenti sono pura fortuna! Il destino non conduce alla contrizione, ne la fortuna alla gratitudine. In realtà, i conflitti nella nostra vita personale come pure i conflitti su scala regionale, nazionale o mondiale sono i nostri conflitti e soltanto assumendoci la responsabilità per essi possiamo andare al di là di essi scegliendo una vita di perdono, pace e amore. Il Kyrie eleison - Signore, pietà - deve emergere da un cuore pentito. A differenza di un cuore indurito, un cuore pentito è un cuore che non biasima, ma riconosce la propria parte nella colpevolezza del mondo, venendo così preparato a ricevere la misericordia di Dio.
Ricordo ancora una meditazione serale alla televisione olandese durante la quale il presentatore versava dell’acqua su della terra indurita e inaridita, dicendo: «Guardate: questo terreno non può ricevere l’acqua e in esso non può crescere nessun seme». Poi, dopo aver frantumato il terreno con le sue mani e avervi versato di nuovo dell’acqua, disse: «È soltanto il terreno frantumato che riesce a ricevere l’acqua e a far crescere e fruttificare il seme». Dopo aver visto questo, compresi cosa significasse iniziare l’eucaristia con un cuore pentito, un cuore frantumato e aperto a ricevere l’acqua della grazia di Dio. Ma come è possibile iniziare una celebrazione di ringraziamento con un cuore spezzato? Il riconoscimento del nostro stato di peccato e la consapevolezza della nostra co-responsabilità nel male del mondo non ci paralizzano? Una vera ammissione di peccati non è troppo debilitante? Sì; lo è! Ma nessun peccato può essere affrontato senza una qualche conoscenza della grazia. Nessuna perdita può essere rimpianta senza una qualche intuizione che troveremo nuova vita.
Quando i discepoli sulla via di Emmaus raccontarono la loro storia riguardante la loro grande perdita, essi raccontarono anche quella strana storia delle donne che avevano trovato la tomba vuota e che avevano visto degli angeli. Ma essi erano scettici e dubbiosi. Non era stato crocifisso alcuni giorni prima? Non era finito tutto? Alla fine non aveva vinto il male? Allora che cosa erano queste storie di donne, secondo le quali egli era vivo ? Chi poteva crederci sul serio? Ma poi hanno dovuto aggiungere ancora: «Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Questo è in genere il nostro approccio all’eucaristia. Con uno strano miscuglio di disperazione e speranza. Una parte di noi, guardando la nostra vita e quella di chi ci circonda, vuol dire: «Dimentichiamo tutto. È tutto finito. Oh! Sicuro che pensavamo a un mondo migliore, che immaginavamo una nuova comunità d’amore e che sognavamo un tempo in cui tutta la gente sarebbe vissuta insieme in pace.
Ma ora sappiamo tutta la verità. Ora noi sappiamo che tutto questo era poco più che un’illusione. Il nostro carattere immutabile e le persistenti cattive abitudini, le nostre gelosie e i risentimenti, i nostri momenti di rabbia e di vendetta, la nostra violenza incontrollabile, gli innumerevoli sintomi di crudeltà umana, i crimini, la tortura, le guerre, gli sfruttamenti -tutto ciò ci ha sicuramente risvegliato all’amara verità che la nostra giovanile speranza è stata crocifissa».
Tuttavia, le altre storie rimangono e continuano a fare la loro comparsa. Storie di alcune persone che l’hanno vista diversamente, storie di gesti di perdono e guarigione, storie di bontà, di bellezza e di verità. E mentre ascoltiamo attentamente le voci più profonde nel nostro cuore, ci rendiamo conto che sotto al nostro scetticismo e cinismo c’è un desiderio ardente di amore, unità e comunione che non scompare nemmeno quando ci rimangono così tanti argomenti per abbandonarlo tra i ricordi sentimentali .dell’infanzia. «Signore, pietà; Signore, pietà; Signore, pietà». È la preghiera che continua ad emergere dalla profondità del nostro essere e a sfondare le pareti del nostro cinismo. Sì! Siamo peccatori, peccatori senza speranza; tutto è perduto e non rimane niente delle nostre speranze e dei nostri sogni. Eppure c’è una voce: «Ti basta la mia grazia» e noi chiediamo di nuovo la guarigione del nostro cuore cinico e osiamo credere che veramente, in mezzo al nostro pianto, possiamo trovare un dono di cui essere grati. Ma per questa scoperta abbiamo bisogno di un compagno speciale!
Henri Jozef Machiel Nouwen
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