Il cristianesimo del XXI secolo non sarà più, non si presenterà più come una “religione” omologabile alle altre (tranne che in alcuni ghetti integristi, veri e propri “fossili viventi”). Esso si svelerà, si affermerà come la religione dello Spirito e della libertà nello spazio dell'umanità di Cristo...
del 01 gennaio 2002
“Poeti e suonatori dicono: tutte le sorgenti sono in te” canta il Salmo 87. Sentiamo che comincia a sciogliersi la neve che ricopre le cose che appaiono e che queste apparenze, in realtà, sono delle epifanie. In questa prospettiva, evocherò dapprima la nuova situazione del cristianesimo che, sempre di più, mi sembra si stia delineando. Poi gli itinerari da tracciare. Per poter infine mostrare che, nella luce di Cristo che scende agli inferi perché gli inferi stessi divengano luogo della pentecoste, i veri poeti sono dei profeti.
Ri-collocare il cristianesimo
Il cristianesimo del XXI secolo non sarà più, non si presenterà più come una “religione” omologabile alle altre (tranne che in alcuni ghetti integristi, veri e propri “fossili viventi”). Esso si svelerà, si affermerà come la religione dello Spirito e della libertà nello spazio dell’umanità di Cristo che i filosofi religiosi russi - quei profeti - chiamavano, a partire da Vladimir Soloviev, la “divino-umanità”. La divino-umanità è la meta stessa della creazione. Il divenire del cosmo che la abbozza - come sottolineano oggi alcuni astro fisici -, e poi il dinamismo della storia: tutto si ricapitola e si apre sull’avvenire con l’incarnazione, la croce nuovo albero di vita, la risurrezione e la pentecoste. In Cristo, sotto il soffio e i fuochi dello Spirito, l’uomo trova pienamente la sua vocazione di “creatore creato”. La divino-umanità riguarda l’umanità intera. La chiesa è la parte emersa dell’iceberg, un popolo di re, di sacerdoti e di profeti che testimoniano e pregano perché nel Cristo veniente risplendano le fiammelle ovunque presenti dello Spirito santo, Soffio che sorregge i mondi, le culture, le religioni. Noi sappiamo dov’è il cuore della chiesa, nell’evangelo e nell’eucaristia, ma non ne conosciamo i confini: essa costituisce la profondità di ogni esistenza umana ed è in essa che le costellazioni descrivono le loro orbite e i mandorli fioriscono alla fine dell’inverno.
Il cristianesimo del XXI secolo non sarà né un moralismo, né un pietismo, ma l’annuncio - che chiama a una santità creatrice - della vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno. Non potremo più evitare quella che Léon Bloy chiamava “la pericolosa pedagogia dell’abisso”. È forse la sola via che ormai possa essere insegnata agli innumerevoli eredi (anche se inconsapevoli) di Dostoevskij e di Nietzsche, agli insofferenti sempre delusi che si inoltrano nell’inferno della droga, dell’erotismo, del terrorismo, della follia. Questi uomini e queste donne, che sono discesi nelle regioni più tenebrose dell’abisso, lacerati nella carne viva, saranno raggiunti, rianimati dai gemiti dello Spirito, dalle sue grida di gioia pasquale. Lo Spirito li farà entrare non nel mondo della “salvezza” e della morale, ma nel mondo della risurrezione e della trasfigurazione - una trasfigurazione totale dell’uomo e dell’universo -.
Perciò saranno chiamati non a quella mistica che s’immerge nel divino come una mosca nel miele, ma a una profezia creatrice, quella del regno che, dice Gesù, è nel contempo tra di voi e in voi. Regno la cui forza, luce, parresia possono fecondare nei loro fondamenti autentici la storia e la cultura dell’umanità. Che importanza ha qui contarsi? Come ha detto Kazantzakis, in questa prospettiva, “un uomo può salvare l’intero universo”. Lo studio dei movimenti del sottosuolo c’insegna che uno spostamento di alcuni millimetri negli strati profondi della scorza terrestre provoca un terremoto in superficie! Una spiritualità creatrice - in base alla quale più ci si immerge in Dio, più si diventa responsabili degli uomini - costituisce la vera infrastruttura della storia (per riprendere, capovolgendolo, il vocabolario marxista).
Nella divino-umanità, il divino non assorbe e non schiaccia l’umano, così come anche l’umano, per affermare se stesso, non ha bisogno di eliminare il divino. Per riprendere la grande affermazione dei padri greci, “Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio” , cioè uomo in pienezza, capace di amare e di creare in pienezza. Dio si è rivelato in un volto di uomo, affinché ogni volto d’uomo possa trovare il proprio compimento in Dio. Nella divino-umanità si incontreranno l’occidente e l’oriente cristiani, il primo contraddistinto da un’accentuazione dell’amore attivo, del servizio al prossimo, il secondo dalla “deificazione” come autentico fine della “salvezza”. Nella divino-umanità soprattutto si incontreranno gli umanesimi, gli anti-umanesimi, le ribellioni e le scoperte che caratterizzano la modernità, così come le forme di meditazione, le teofanie, il grande appello all’interiorità dell’oriente non cristiano, dell’oriente tradizionale. Le negazioni tipiche dell’ateismo saranno integrate nell’approccio negativo e antinomico al mistero. In antropologia, come in economia politica, il fattore “residuale” svelerà il carattere irriducibile della persona, il suo enigma, e infine l’uomo come “microcosmo e mikrotheos” (come diceva Gregorio di Nissa), cioè l’uomo “immagine di Dio”. I sapienti dell’oriente che a occhi chiusi s’immergono in un’insondabile interiorità potranno, senza che questa si dissolva, aprire gli occhi per scoprire, irriducibile anch’ essa, l’alterità dell’altro.
A poco a poco capiremo che un cristianesimo del genere non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello stato: è invece la rivelazione della persona - in comunione -, e dell’essere come qualcosa che sgorga dall”‘abisso senza fondo” della persona e della comunione. La laicità come libertà dello spirito è nata dal movimento messo in atto dall’evangelo stesso. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo. Questo sarà sempre di più un fermento, una luce, un esempio, che non impone nulla, che si presenta nell’umiltà; una profezia capace nel contempo di contestare gli idoli e di aprire delle vie all’avvenire, testimoniando del senso, offrendo all’uomo la capacità di padroneggiare, nello Spirito, il suo stesso potere.
Perciò nella divino-umanità, si comunicherà agli uomini il mistero della divinità che è l’amore - unità totale e diversità totale, inseparabilmente -. Dio è Mistero e Amore, diceva Dionigi l’Areopagita, quindi ogni uomo è mistero e amore, tanto più misterioso quanto più lo si conosce. Lacerati senza sosta dal nostro accecamento, unificati senza sosta da Cristo, noi uomini siamo in realtà un solo Uomo in una moltitudine di persone e quindi, poiché queste sono altrettante dimensioni delle persone, in una moltitudine di lingue, di culture, di tradizioni umanistiche o religiose. La spiritualità dell’avvenire non sarà solo divino-umana, sarà trinitaria, e continuerà a trasformare Babele in una pentecoste. Al di là dell’opposizione attuale a un’unificazione tecnica del pianeta e delle inevitabili reazioni “identitarie”, la rivelazione dell’Uni-Trinità profetizza l’unità diversificata degli uomini... e noi potremo dire, come Hadewijch di Anversa: “Allora io compresi tutte le lingue che si parlano in settantadue modi”.
Itinerari
È necessario tornare a interrogarsi sull’uomo - e dirgli che si può rispondere a quest’interrogativo! -. Un interrogativo, molti interrogativi.
Perché la bellezza? Se il rosaio fosse solo una macchina efficiente, non avrebbe bisogno di tanti fiori. La bellezza è una profusione inutile, la gratuità d’essere, un sentimento trascendente della gioia di esistere. La macchia purpurea della rosa buca lo spazio, buca la luce a volte grigia e piatta, verso quale altrove?
Perché la morte? O piuttosto perché siamo consapevoli del fatto che moriremo? Gli animali non lo sanno, la scimmia più intelligente si trascina il figlio morto, cerca di nutrirlo, fino a che questa” cosa” non le si affloscia tra le braccia. Solo l’uomo sa che morirà e intuisce la morte come qualcosa contro natura. Se la morte, per lui, non è “naturale”, è perché non ne è completamente prigioniero, perché intuisce un altro stato, una vita più forte della morte. La sua nostalgia, il suo desiderio, e persino il suo furore trasgressivo e parossistico cercano un altrove, quale altrove?
E perché l’amore, e non solamente il sesso? Perché la passione tragica o l’umile e buona fedeltà e non soltanto, come diceva un philosophe del XVIII secolo, “l’incontro di due fantasie e il contatto di due epidermidi”? Perché la tenerezza, ogni tanto, al di là del desiderio, o le metamorfosi del desiderio nel linguaggio della tenerezza? Quale altrove paradisiaco si lascia intuire quando l’incontro dei corpi prolunga solo la comunione tremante degli sguardi? Scriveva John Donne:
Ai corpi dunque ci volgiamo, che i deboli
possano contemplare rivelato l’amore:
i misteri d’amore crescono nelle anime
ma il nostro corpo è il libro dell’amore.
Tuttavia non ci sono soltanto domande, ci sono anche risposte. L’altrove viene a noi, si rivela. L’amore al di là del desiderio, la bellezza al di là dell’utile, il carattere innaturale della morte ci aprono alle rivelazioni dell’altrove.
Sarà dunque importante approfondire, alla luce dello Spirito santo, il significato dell’eros, del cosmo, della morte.
Di fronte alla miserevole banalizzazione dell’eros, alla smania di mostrare tutto e di vedere tutto, ricorderemo che l’eros può diventare il linguaggio di un vero incontro tra due persone.
Forgeremo una poetica rinnovata per l’amore e per la donna. Scriveva Rilke:
Un giorno, la donna sarà. E questa parola “la donna” non significa più soltanto il contrario dell’uomo, ma qualche cosa di particolare, che ha valore in sé. Non più un semplice complemento, ma una forma completa della vita, la donna nella sua autentica umanità. (Allora, aggiunge il poeta, l’amore diventerà) due solitudini ... che s’inchineranno l’una davanti all’altra.
Per quel che concerne il cosmo, svilupperemo le intuizioni di san Francesco d’Assisi e della “contemplazione della natura” nell’ascesi dell’oriente cristiano, contemplazione, dice Isacco il Siro, “dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose”. Nella divino-umanità, lo Spirito ci permetterà di scoprire l’essenza spirituale delle cose, non per appropriarcene, ma per offrirle gli uni agli altri e, insieme, offrirle al Dio della vita, dopo averle “chiamate per nome”, cioè dopo aver lasciato su di esse l’impronta del nostro genio creatore.
Infine diremo, testimonieremo la vittoria pasquale sulla morte, vittoria sempre presente, sempre rinnovata. Ormai la morte biologica è una “pasqua”, un “passaggio” verso una luce molto dolce e nel contempo molto penetrante nella quale noi discerniamo, nella quale noi entriamo mediante la grazia della croce - che, dice Massimo il Confessore, è il “discernimento della giustizia” - in un processo di guarigione, di cicatrizzazione, nella comunione dei santi che combattono e pregano per la salvezza universale. Dio infatti non è né l’autore della morte, né il responsabile del male, egli è il crocifisso dal male che soffre con noi per aprirci le vie della risurrezione.
Poeti e profeti
È compito del poeta - e attraverso questo indubbiamente egli profetizza - provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se cosi frequenti, di Dio.
Allora interviene il poeta, e citerò per primo il grande, il tragico Pier Paolo Pasolini:
Per me c’è un vuoto nel cosmo
un vuoto nel cosmo
e da là tu canti.
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca - la cui forza
è nella sua degradante diversità.
O ancora, in modo più pacificato (apparentemente), Stéphane Mallarmé:
Balbetto, ferito: la Poesia è l’espressione, attraverso il linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Essa conferisce quindi autenticità al nostro soggiorno sulla terra e costituisce l’unico compito spirituale.
Perciò la poesia - più in generale l’arte - ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia.
La poesia profetica di domani, nell’irradiante luce della croce pasquale, non sarà più quella volontà di auto-deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica del Wonderland (Paese delle meraviglie) che ha segnato l’«alchimia della parola» in occidente dal romanticismo tedesco fino al surrealismo: “Il vero poeta è onnisciente” diceva Novalis, “il filosofo poetico è nelle condizioni di un creatore assoluto... la poesia è il reale assoluto”. E Rimbaud: “Svelerò tutti i misteri: ... morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonie, nulla. Sono maestro in fantasmagorie”. E Nietzsche: “Da quando l’uomo si è perfettamente identificato con l’umanità, esso mette in movimento la natura intera... sono io stesso il fato e, dall’eternità, sono io che determino l’esistenza”. Ma il mito del Wonderland si è dissolto nelle camere a gas di Bitler, nelle nevi della Siberia dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una targhetta di legno alla caviglia. Un filosofo tedesco ha potuto dire che dopo Auschwitz non avrebbe potuto più esserci poesia. Eppure ora noi sappiamo che molti scampati alla shoah hanno resistito recitando a se stessi dei poemi, recitandoli ai loro amici: poemi del Wonderland, di tanto in tanto, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi anche di quei “traghettatori”, di quegli stalkers (nel senso che Tarkovskij ha dato a questa parola) tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’altra. Penso per esempio a Baudelaire, Eliot, Mandel’stam, Pasternak e la Achmatova.
Echi della liturgia in Pasternak:
Ma ogni carne dopo mezzanotte
improvvisamente farà silenzio.
La primavera diffonderà la notizia
che dalla prima schiarita
la morte sarà alla mercé
del grande grido di Pasqua.
Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova:
Signore, tu vedi quanto sono stanco
di risuscitare, di morire e di vivere.
Prendi tutto, ma di questa rosa rossa
possa sentire ancora la freschezza.
In seconda istanza, spero che in futuro si sviluppi una poesia liturgica illuminante che, pur attingendo alla grande tradizione d’oriente e d’occidente quale viene conservata nei monasteri benedettini o esicasti, ricorderà che Cristo continua a scendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, planetario nel prossimo futuro (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non ne sono che lo specchio), sì, che proprio il nichilismo è certamente oggi l’unico luogo possibile della risurrezione. Una poesia liturgica di questo tipo si staglierà come un’alta montagna dove l’azzurro si condensa nella neve, che fa nascere i ruscelli, i torrenti, le praterie, i frutteti.
Perciò sta nascendo, al di là del Wonderland, al di là anche del sarcasmo e dell’ironia contemporanei, una poetica umile e austera delle cose, delle sostanze, che parte dalla concretezza del loro apparire per scoprirvi la trans-apparizione della Sapienza, quella Sapienza, dice la Bibbia, che continuamente gioca con Dio nella creazione. Ogni cosa contemplata con l’occhio del cuore, si apre allora su orizzonti infiniti. Semplicità così profonda di un Giorgio Mazzanti, ne Il canto della Madre:
- Oh il vento
sulle foglie degli olivi,
oh la luce dei mattini
terreni –
lo splendore dei tramonti.
Poetica delle cose, avvenire dei volti, giacché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo di Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nello spazio dell’incontro tra gli sguardi, della comunione tra i volti. L’arte astratta di Kandinskij ha permesso al suo amico Alexej von J awlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua potenziale icona (per distinguerlo da licina, che significa maschera):
Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo compreso che la grande pittura è possibile solo se si ha un sentimento religioso, e questo potevo esprimerlo solo attraverso il volto umano.
Tanti accenni in un Berdjaev, un Athenagoras, più recentemente in Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica dei volti e ogni tanto, anche alla televisione, in mezzo a tante facce, raffinate o bestiali, s’impone un volto di verità, di santità, come Veronica nella scena della passione di Hieronymus Bosch... Allora l’essere profondo dell’uomo si mette in movimento, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.
Una poesia di questo tipo è profetica. Non che essa indovini o predica l’avvenire. Nella sua umiltà, nella sua spoliazione, nella sua gloria segreta, essa non decifra l’avvenire, lo rende possibile. Pro-feta significa “colui che parla a favore di”. Colui che parla a favore di ciò che più è segreto, più inosservato, più disprezzato, più debole - quel Dio che Elia intuisce non nella tempesta, né nel terremoto, ma in un mormorio “al confine con il silenzio” -.
Dobbiamo allora perseverare. Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della natività, come la grotta del cuore. Bisogna che lo sia. Bisogna che il Dio della libertà e della gioia s’incontri con l’uomo “postmoderno”, che è adulto e nel contempo non accetta di esserlo, che è potente e insieme disperato, nel punto più segreto della sua angoscia e del suo desiderio.
È il grido profetico di Dmitrij Karamazov condannato al bagno penale, a lavorare nei sotterranei, anche quelli dell’anima, condannato per un crimine che ha consumato senza commetterlo, come tutti noi:
Se si scaccia Dio dalla terra, lo incontreremo sotto la terra... Allora noi, gli uomini sotterranei, intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io lo amo!
Olivier Clément
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