Sei milioni di disoccupati, “inattivi” e “scoraggiati”. Quasi cinque milioni di poveri. Un prodotto interno lordo che si contrae di 1,8 punti percentuali, peggio del previsto. Questo è il “treno” che ha investito il Paese, fotografato dalle tabelle Istat.
“Vedo una luce in fondo al tunnel” diceva Mario Monti nel 2012. Un anno dopo abbiamo la conferma: quella luce erano i fari del treno che ci arrivava addosso. Sei milioni di disoccupati, “inattivi” e “scoraggiati”. Quasi cinque milioni di poveri. Un prodotto interno lordo che si contrae di 1,8 punti percentuali, peggio del previsto. Questo è il “treno” che ha investito il Paese, fotografato dalle tabelle Istat, l’istituto nazionale di statistica, riguardanti il secondo trimestre 2013. Li ha presentati ieri il presidente facente funzioni dell'Istat Antonio Golini durante un'audizione al Senato sulla legge di Stabilità. “Sta finendo la fase recessiva” titolano i quotidiani dopo questa relazione. Sì, forse perché sta finendo il Paese.
L’esercito di disoccupati, in tutte le accezioni del termine, è il numero più inquietante. Solitamente lo si scompone in dati anagrafici e territoriali: quanti senza-lavoro al Sud, quanti giovani. Le nuove statistiche confermano la solita realtà: i disoccupati sono soprattutto al Sud (1 milione e 458mila) e fra i giovani compresi fra i 15 e i 34 anni di età (1 milione 538mila). Ma il quadro peggiora ulteriormente se si guarda alla “motivazione”, cioè se si cerca di rispondere alla domanda “perché non lavori?”. Fra quei 6 milioni di non lavoratori, ci sono 3,07 milioni di italiani disoccupati propriamente detti, iscritti nelle liste della disoccupazione e alla ricerca attiva di lavoro. Ma gli altri 2 milioni e 990mila sono persone inattive, che non cercano. In questo vero e proprio popolo (pari, all’incirca, alla popolazione di tutta Roma e dintorni) figurano gli “scoraggiati”, stimati in circa 1 milione e 300mila persone. Sono coloro che non cercano o hanno smesso di farlo perché convinte di non trovare lavoro. Anche qui parliamo di una cifra immensa, una popolazione di una grande città come Milano. Dentro l’Italia c’è dunque l’equivalente di una metropoli che ha perso speranza, che non ha fiducia nel futuro, che non cerca perché sa, in cuor suo, che non troverà.
I “viziati”, o “choosy” come li chiamava l’ex ministro Fornero, sono solo una piccola minoranza, quasi irrilevante. Sono fotografati dall’Istat in quei 99mila individui che, pur cercando impiego, non erano immediatamente disponibili ad accettare un’offerta. Bisogna anche vedere quale offerta e a che condizioni, oltre alle motivazioni del rifiuto. Ma si parla sempre di meno di 100mila persone, che quasi scompaiono nella massa di 6 milioni di senza-lavoro.
L’Istat, inoltre, individua anche il gruppo di persone sotto-occupate (lavorano con un orario inferiore al normale e guadagnano meno): nel secondo trimestre 2013 sono circa 650mila. Oltre 2,5 milioni di persone sono occupate con un “part time involontario”, in crescita di oltre 200mila unità rispetto allo stesso periodo del 2012.
Direttamente e indirettamente legato alla disoccupazione, c’è il fenomeno dei nuovi poveri, di quei 4,8 milioni di italiani in povertà assoluta. Va sottolineato: assoluta. Si intende quella condizione nella quale non si dispone (o si dispone con grande difficoltà o intermittenza) delle primarie necessità per il sostentamento umano, come l’acqua, il cibo, il vestiario e l’abitazione. Stando alle tabelle Istat, il fenomeno della povertà assoluta non era rilevato fino al 2008. Vediamo comparire questo dato solo nella tabella dell’anno successivo: “Nel 2009 l’incidenza della povertà relativa è pari al 10,8%, mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%”. Nel 2010, leggiamo: “…la povertà assoluta (coinvolge, ndr) il 4,6% delle famiglie”. Nel 2011: “…quella assoluta il 5,2%”. Nel 2012: “…e la povertà assoluta il 6,8%”. Stando ai dati pubblicati ieri, dal 2007 al 2012 il numero di persone realmente povere è raddoppiato da 2,4 a 4,8 milioni. Quasi la metà (2,3 milioni) sono al Sud e di questi poco più di 1 milione sono minori.
Ai disoccupati, ai poveri e ai senza speranza, si dovrebbe aggiungere anche l’esercito di chi va a cercare fortuna all’estero. Il numero degli emigrati è passato dai 60.635 cittadini del 2011 ai 78.941 del 2012. Si conferma la preponderanza di giovani: gli emigrati della fascia di età 20-40 anni sono aumentati in un anno del 28,3%. La fuga dei cervelli ha costituito, nel 2012, il 44,8% del flusso totale di espatrio. Non hanno smarrito la speranza in loro stessi, ma l’hanno persa nel Paese.
L’assenza della speranza è ben fotografata dalle “statistiche immorali” sul calo delle nascite esposte, lo scorso settembre, dal professor Gian Carlo Blangiardo: benché il numero degli stranieri che nascono nei nostri ospedali sia «destinato a raddoppiarsi» nei prossimi cinquant’anni, questo dato «non sarà sufficiente a compensare il forte calo delle nascite italiane: -127mila tra il 2012 e il 2064 (-27%)», e già oggi il nostro tasso di natalità è il più basso del mondo.
Un dato incoraggiante, almeno c’è, anche se l’Istat non lo rileva. O meglio, lo rileva e lo interpreta in modo critico, mentre dovrebbe essere letto come un incentivo. Nell'audizione in Senato sulla Legge di Stabilità, Golini dichiara che saranno le famiglie più ricche a beneficiare maggiormente degli sconti sul cuneo fiscale. Famiglie più ricche? In che senso una riduzione delle tasse sui salari avvantaggerebbe i nuclei familiari con un patrimonio più cospicuo? Leggendo fra le righe di questa analisi, vediamo che si parla di “ricchezza” di persone: «Dato il maggior numero di occupati per famiglia - spiega - sono le famiglie dei due quinti più alti a trarre maggiori vantaggi monetari in valore assoluto». Non si tratta, dunque, di ricchezza ereditata, ma di quella guadagnata col lavoro. Le famiglie più numerose e quelle che sgobbano di più saranno avvantaggiate dal taglio fiscale. E allora… forza!
Stefano Magni
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