La crisi migratoria non è un invenzione, esiste ed è una questione molto delicata che non si può risolvere chiudendo la porta. E' assurdo pensare che l'Unione Europea al momento stia seriamente valutando la costruzione di un muro per "difendersi" dall'ennesima ondata migratoria ma è la reltà dei fatti, sembra di tornare ai tempi del muro di Berlino. E, mentre discutiamo su quali mattoni utilizzare e quanto filo spinato posizionare, innalziamo dentro di noi muri sempre più solidi e invalicabili mentre ci dimentichiamo delle vere vittime.
la Redazione
E poi ci sono i muri invisibili. Quelli che non puoi toccare, ma che a volte sono invalicabili al pari di quelli di cemento, di acciaio e di filo spinato che segnano i confini tra Stati. Sono i muri dell’egoismo che si cela, ad esempio, dietro alle parole formali della diplomazia, la quale, di fronte all’ennesima emergenza — vedi quella dei profughi afghani — si riempie la bocca evocando il dovere della solidarietà, per poi sostenere che è meglio se i migranti li ospitano i Paesi vicini. Aiutiamo loro, così non vengono da noi. Ed eccolo lì il muro che non si vede, l’ennesimo accordo sulla pelle dei disgraziati di turno, costretti in qualche squallido campo profughi, in balia — è già accaduto — di funzionari corrotti, se va bene, o del clan che controlla la zona. Merce di scambio.
Ci sono poi i muri dell’indifferenza, del disprezzo e del razzismo, i più diffusi, alzati da singole persone e da gruppi che spesso si riconoscono nei movimenti sovranisti. Sono le barriere che fanno sentire gli stranieri fuori posto, anzi nel posto sbagliato; corpi estranei, da rigettare, ma sempre più spesso utili proprio alla propaganda del fanatismo identitario, perché vengono presentati come il nemico perfetto da additare e combattere. Sono i muri tenuti in piedi dagli stereotipi, dai pregiudizi: gli immigrati rubano, spacciano, stuprano, sono terroristi, portano malattie. Narrazioni distorte che alimentano forme di xenofobia più o meno latenti, ma sempre pronte ad emergere alla prima occasione.
E che dire dei muri celati nelle leggi e nella burocrazia, che, quando si tratta di stranieri pongono limiti e ostacoli non di rado assurdi? Come mostra l’incredibile vicenda di una donna albanese di 41 anni, da 23 in Italia, sposata con un italiano, due figli di 11 e 18 anni, che di recente si è vista negare la cittadinanza per aver causato un banalissimo tamponamento 16 anni prima. Un incidente per il quale era stata condannata per lesioni colpose a una multa di 600 euro; ammenda che venne persino condonata per legge, dunque priva di effetti giuridici. E invece qualcuno l’ha ripescata, facendola diventare il pretesto — pretestuosissimo in verità — per una decisione insensata: «La Signoria Vostra — si legge a motivazione del diniego — non sembrerebbe aver dato prova di aver raggiunto un grado sufficiente di integrazione nella comunità nazionale, desumibile in primis dal rispetto delle regole di civile convivenza, che si evince anzitutto dalla rigorosa e sicura osservanza della legge penale vigente nell’ordinamento giuridico italiano».
Quanta discrezionalità c’è dietro una simile motivazione? Quanta certezza di diritto c’è se basta così poco — un banale e lontano incidente stradale — per interrompere un processo già complicato?
Quello della cittadinanza agli stranieri è da sempre un tema scottante. In Italia — ma non solo — è terreno di scontro tra destra e sinistra, con la prima arroccata su posizioni di chiusura care a un elettorato sensibile a populismi e sovranismi, la seconda che, pur favorevole a una normativa più semplice e permissiva, non riesce, per esempio, ad andare oltre le enunciazioni di principio riguardo a una legge sullo ius soli.
E così continua a permanere l’idea, ma di fatto anche la prassi, che la cittadinanza non sia un legittimo diritto da esigere, ma piuttosto un premio, qualcosa da conquistare. Anzi, da meritare. Come sembra emergere allorquando viene conferita — a volte con ostentazione — al ragazzino, al giovane, all’uomo di origini straniere resisi protagonisti di gesti eccezionali o eroici e non certo perché quel ragazzino è nato in Italia, o perché quel giovane vi è arrivato da piccolo e vi è cresciuto, oppure perché quell’uomo ci lavora ormai da molti anni.
Infine ci sono i muri che, seppure anch’essi invisibili, hanno le fondamenta più profonde e sono quindi più difficili da scardinare. Sono i muri dell’oblio, della negazione della storia. In questo caso della storia coloniale, impregnata di razzismo, di tanti Paesi, soprattutto occidentali; quegli imperi — di nome o di fatto — che in passato, per secoli, hanno occupato e depredato impunemente popoli e territori, ma che oggi, decisamente ridimensionati ma pur sempre ricchi e con la maggior parte dei cittadini ignari di tale retaggio, si meravigliano che i discendenti di quei popoli facciano i viaggi inversi, presentandosi alle loro frontiere per esigere un risarcimento, se così si può dire.
Sono subdoli i muri che non si vedono, perché ci si va a sbattere all’improvviso. Nessuno lo sa meglio degli immigrati, che pure li conoscono, perché ci fanno i conti da sempre. Ma sono lì, in agguato. Sono quelli dei diritti non riconosciuti, calpestati o negati. Non bisognerebbe ignorarli. Sarebbero da abbattere tanto quanto gli altri, quelli fisici, che in realtà non separano solo gli Stati, ma dividono il mondo tra chi ha anche più di quanto gli occorre e chi, la stragrande maggioranza, non dispone neppure del necessario per vivere.
di Gaetano Vallini
tratto da osservatoreromano.va
Versione app: 3.25.0 (f932362)