«Latenza. Viviamo in una fase di la¬≠tenza ». La sillaba lenta, la parola. Latenza: «È terminato un ciclo, ne comincerà un altro, ma non sappiamo come sarà, né che cosa ci porterà». La nostra psiche soffre almeno quan¬≠to il portafoglio.
«Latenza. Viviamo in una fase di latenza ». La sillaba lenta, la parola. Latenza: «È terminato un ciclo, ne comincerà un altro, ma non sappiamo come sarà, né che cosa ci porterà». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, descrive così il nostro tempo. È – ma queste sono parole nostre – un’unica indistinta distesa di grigio priva di sfumature. Immersi nella quale non è bello né comodo stare. La nostra psiche soffre almeno quanto il portafoglio. Che cos’è successo nella capitale, e in altre città italiane? Ancora guerriglia?
Non amo rincorrere le cronache. Non mi appassionano. Fiammate, emotive e logistiche. Comunque, a me è sembrata una cosa organizzata in modo maldestro. Doveva essere il primo «sciopero europeo» e si è ridotto a piccole scaramucce, e per giunta non attorno ai palazzi del potere ma all’isola Tiberina e addirittura alla Sinagoga, che a Roma non si deve toccare, mai e poi mai, per ciò che è per gli ebrei e ricorda ai romani.
Però i manifestanti c’erano. Che cosa li teneva assieme? Quale idea, o quale disagio? Erano tutti giovani?
Non mi sembra di aver visto professori, neanche qualche reduce sessantottino. Sì, la grande massa era costituita da giovani, con i cento-duecento in testa a far cagnara. La vera cosa sorprendete, per Roma, è stata la «rabbia» degli agenti, di solito ben più tranquilli e tendenti a sdrammatizzare.
E questo cosa deve indurrci a pensare?
Per gli agenti, che una certa stanchezza, oltre alla carenza di mezzi, si è insinuata anche tra loro. Per i manifestanti, perché il disagio attanaglia soprattutto i padri ma in piazza scendono i figli? Già, perché?
Una parentesi autobiografica. Ho partecipato a poche manifestazioni, ma la prima la ricorda bene, ero studente: 1953, in piazza per Trieste italiana! A noi ventenni sembrava una cosa fondamentale ma sarebbe dovuta importare assai più agli adulti. Però in corteo c’eravamo noi. E oggi, nel 2012?
Il disagio primo è quello del cinquantenne che vede allontanarsi la pensione e sfumare i suoi progetti, rischia la disoccupazione, ha ancora i figli a carico e magari qualche parente anziano infermo a cui badare. È il disagio di tre milioni di precari. Un disagio diffuso e adulto. Eppure in piazza scendono i giovani, e non credo per tutelare lo zio esodato... Forse intendono dimostrare sfiducia e sfogare la rabbia verso un potere che non esiste. Un potere assente?
Se ci fosse, reazionario e repressivo, proteso a controllare e affamare, si farebbe sentire. Ma non è così. E allora dietro la rabbia, e perfino il disprezzo dei giovani, c’è l’implicito desiderio di provocare il «potere adulto» chiedendogli: ci sei? Sei un padre o no? Loro, i giovani, probabilmente lo negherebbero. Ma per me siamo in presenza di un rapporto conflittuale non con uno Stato che ti sovrasta e reprime, ma che non c’è. Paradossalmente, vien da pensare che certe reazioni degli agenti vogliano dire, appunto: ecco qua che ci siamo. Ma i giovani in piazza rappresentano solo se stessi o sono la metafora, in certo modo, dell’intera società?
Noi tutti siamo come alcuni di questi ragazzi. Viviamo in una fase di latenza. È terminato un ciclo e il prossimo deve ancora cominciare. Abbiamo cavalcato 40 anni di sviluppo pieno, ora siamo fermi. Che cosa verrà dopo, quali nuove energie sono in arrivo? Un’altra cavalcata di 40 anni? Che cosa, dopo la terza casa e l’ennesimo telefonino? Che cosa, dopo quello che abbiamo conquistato o ci hanno regalato? Siamo una pagina bianca. Latenza, sospensione, assenza. Una condizione economica e sociale, ma anche psichica...
Inevitabile, per il cinquantenne che si ritrova in stand-by. Bisognerebbe accorciare questi periodi insulsi di «adolescenza prolungata». Invece li stiamo prolungando. E anche nei provvedimenti del governo Monti c’è ben poco che ci aiuti a venirne fuori. Almeno per ora, purtroppo.
Umberto Folena
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