Correre in extremis a votare 'no' potrebbe avere l'effetto di farlo traboccare, con una paradossale frittata, se l'estremo soccorso alla validazione dei 'sì' venisse proprio dalla frazione di 'no' del last-minute. Non cadremo in questa trappola.
del 09 giugno 2005
Nei giorni di vigilia del referendum sulla fecondazione assistita il dibattito si è molto inasprito, e forse anche un poco impoverito per quel suo concentrarsi sul quorum, nevralgico punto finale di scontro tra il fronte del 'sì' e il fronte del non-voto, dove il 'no' si è chiaramente incanalato. Le discussioni sul metodo hanno messo in secondo piano il merito: abbiamo sentito di tutto sui meccanismi giuridici dell’adesione o del rifiuto, fino al lambicco, e quasi più nulla sulla vita.
 
Eppure la vita sta là sullo sfondo, ad attendere sorte da questo referendum di tutela o di sfregio. La vita d’un figlio, perché è il figlio ciò che la fecondazione assistita ricerca pur dentro l’artificio della provetta. E che cosa c’entri, col desiderio di un figlio invocato e amato, la sperimentazione letale, la clonazione, il saccheggio delle sue cellule (ma il figlio si vuole procreare o predare?), non meno che il congelamento delle vite 'avanzate', la cancellazione studiata delle parole che parlano dei diritti del concepito, l’identità del figlio manipolata dall’eterologa, è un quadro che non può uscire dall’orizzonte.
 
Noi oggi torniamo un’ultima volta a leggere la vita, a guardare questa legge n. 40 – costata otto anni di lavoro al nostro Parlamento in due legislature di diverso colore, varata da un voto trasversale ai partiti, alle coalizioni e alle alternanze, e dunque singolarmente coerente col modello della democrazia parlamentare – come punto d’equilibrio che protegge almeno un po’ la vita dagli incursori spregiudicati del vecchio 'Far West'. E intendiamo la provocazione referendaria come una sfida di alcuni riluttanti (i firmatari dei quesiti abrogativi) che noi tutti abbiamo il diritto, e in questo caso la fierezza civile, di rifiutare.
 
Provocazione è una precisa parola giuridica, diversa da 'convocazione'. Nelle elezioni, noi siamo convocati, ed è un dovere rispondere; è la legge che ci chiama. Nel referendum, invece, se per voglia di alcuni (50.000 in origine, 500.000 oggi) di distruggere una legge che noi ci siamo dati per mezzo dei nostri rappresentanti, ci vien chiesto di starci o no – il referendum è solo abrogativo – noi siamo provocati; e possiamo davvero distruggerla, la legge, come vogliono loro, dicendo sì in maggioranza; oppure possiamo fare scudo e blindarla, contro di loro, dicendo no; ma possiamo anche lasciare che i 50 o 500.000 restino isolati, rifiutando noi la loro provocazione.
 
La Costituzione ce ne dà il diritto. Oggi, sulla fecondazione assistita, al punto in cui sono le cose a bandiere schierate, sappiamo tutti che se la gente che vuol conservare la legge non va a votare, il tentativo di abrogarla fallirà.
 
Ma poiché il non andarci è per noi il segnale più forte di civico dissenso, questo dissenso vuole coerenza fino all’ultimo, quand’anche le notizie intermedie sulla partecipazione dicessero che il quorum si sta approssimando, domenica sera o lunedì mattina.
 
Correre in extremis a votare 'no' potrebbe avere l’effetto di farlo traboccare, con una paradossale frittata, se l’estremo soccorso alla validazione dei 'sì' venisse proprio dalla frazione di 'no' del last-minute. Non cadremo in questa trappola.
 
Terremo ferma questa scelta civica fino all’ultimo. Da dieci anni il popolo sta rifiutando la provocazione su quesiti inaccettabili. Nell’ultimo referendum del 2003, che voleva mutilare lo Statuto dei lavoratori, l’enorme 'NO' dei manifesti di un partito di massa portò il quorum a un crollo storico.
 
Era chiaro il perché: perché il diritto al lavoro non può essere messo ai voti. Neanche la vita, diciamo noi, può essere messa ai voti. Per questo non andremo a votare.
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