siamo sicuri che il referendum sia il modo migliore per sciogliere nodi complicati e delicati come questo? Ci permettiamo, civilmente, di avanzare qualche dubbio. Il referendum è lo strumento principe di una democrazia che si fonda sulle opinioni. O meglio, che è in balia delle opinioni. E le opinioni in una società condizionata in modo così radicale dalle mode e dagli input mediatici...
del 20 maggio 2005
Che cosa andremo a votare - se andremo a votare - il 12 giugno? Con quanta consapevolezza metteremo una croce su quel Sì o su quel No? Quanto realmente conosciamo della materia, delicata e sofisticatissima, sulla quale siamo chiamati a essere giudici inappellabili? Quanto peseranno sulla nostra decisione le tante bugie che una parte e l'altra hanno messo in campo a scopo di fisiologica propaganda? Tante domande, che portano in realtà ad una sola: siamo sicuri che il referendum sia il modo migliore per sciogliere nodi complicati e delicati come questo? Ci permettiamo, civilmente, di avanzare qualche dubbio.
 
Il referendum è lo strumento principe di una democrazia che si fonda sulle opinioni. O meglio, che è in balia delle opinioni. E le opinioni in una società condizionata in modo così radicale dalle mode e dagli input mediatici e dalle lobby del mercato costituiscono, alla prova dei fatti, un qualcosa di aleatorio, di volatile. Oggi sono di qua, domani di là. Un esempio: se oggi in Italia si votasse per il nucleare, ci sono buone probabilità che il risultato risulti rovesciato rispetto a quello del famoso referendum del 1987. E che cosa pensa oggi l'Italia del bipolarismo voluto a furor di popolo?
 
In realtà il referendum rappresenta spesso una comoda scorciatoia della politica, che finisce con il delegare alla pubblica opinione il suo duro e affascinante compito di darsi una visione, di saper immaginare il futuro. E di scegliere per il bene di tutti.
 
In più, il referendum fomenta un'altra illusione: quella di poter dar luogo a una legislazione positiva con un meccanismo abrogativo. Prendiamo la partita del 12 giugno: se vincesse il Sì, ci sarebbe la necessità, come ha evidenziato Giuliano Amato, di riprendere in mano la legge per ovviare al vuoto che il referendum ha aperto (abolito, per esempio, il limite dei tre embrioni, bisognerà mettere nella legge un nuovo numero).
 
Ma quale politica sarà in grado di arrivare a una soluzione decente, sotto la pressione della scelta che il corpo elettorale ha indicato con il voto? Il referendum infatti ha in sé il potenziale ricattatorio proprio degli strumenti plebiscitari. Chi ha vinto non ammette ragioni. O quanto meno lascia poco spazio alla ragionevolezza e al compromesso, che sono gli strumenti propri della politica. Impone una logica da aut aut, nella quale chi ha perso si sente come un corpo sociale mortalmente ferito, impossibilitato in alcun modo a far sentire la sua voce e i suoi valori.
 
Per questo, al di là delle “opinioni” che ci siamo fatti sulla materia in gioco, il 12 giugno sarebbe una fortuna per tutti che vincesse il partito dell'astensione: perché lascerebbe lo spazio alla politica per mettere mano alla legge 40, che ha margini di miglioramento e che deve rispecchiare con più coerenza un mutato sistema di valori che sembrerebbe essere maggioritario nel Paese. Se poi la politica non dovesse svolgere bene questo suo compito, saremo noi elettori a punirla, secondo i meccanismi propri di una democrazia.
 
Quanto al resto, la democrazia più che con un Sì o con un No, si nutre costruendo spazi di aggregazione sociale. Si nutre di libertà economica, di meccanismi di rappresentanza sani e trasparenti. Si nutre di riflessioni e di vivacità creativa e culturale. Tutti beni che nessun referendum ci potrà mai garantire.
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