"Non posso star qui senza far nulla per quelli che ho lasciato. Io sono cristiano"...
Forse è perché non sono nativo digitale. Forse è perché la tecnologia mi ha abbandonato in un paio di occasioni ghiotte. Come che sia, le storie che raccolgo le scrivo prevalentemente su un quaderno. A quadretti. I puristi direbbero che è inadeguato per vergare la prosa. Io lo ritengo invece specchio fedele della realtà. Un testo scritto su un foglio a righe può essere interpretato solo in due modi: leggendo le righe o tra le righe. I quadretti, viceversa, pur ammiccando ad un ordine spaziale non caotico, mi rammentano la libertà della vita che non può mai essere completamente contenuta da campi compilabili. Ne ho avuto la riprova di recente.
La mia parrocchia è a due passi da un CARA (centro accoglienza per richiedenti asilo). All'ora di cena mi citofona uno sconosciuto che parla solo inglese. "Vorrà soldi", giudico temerariamente. Spesso accade, soprattutto in queste settimane estive dove gli ordinari punti di riferimento dei questuanti chiudono per ferie.
Ascoltandolo resto però interdetto. Mi chiede notizie circa il cassonetto giallo, per la raccolta degli indumenti, parcheggiato vicino al mio cancello. Desidererebbe mandare al proprio Paese qualche abito. "Non posso star qui senza far nulla per quelli che ho lasciato. Io sono cristiano", scandisce con determinazione. È l'unico sussulto che svela il suo passato militare. Il resto del colloquio prosegue mesto, quasi sottovoce.
In Europa Brown (lo chiamerò così) non ha parenti o amici; quindi non ha neppure preferenze di destinazione finale per il suo viaggio. La moglie e le figlie sono in Africa. Sepolte. Sono state tutte uccise. Lui era un ufficiale superiore del precedente governo. Cambiato il presidente è iniziato lo spoil sistem, senza possibilità di ricollocamento in qualche azienda partecipata, come avviene in altre latitudini. Brown non ha carichi pendenti con la giustizia africana. Se anche li avesse, la legge democratica della sua nazione non prevede la pena di morte per alcun reato. La guerra è ufficialmente finita.
La veloce normativa evocata depone quindi a suo sfavore: non ci sono elementi giuridici per rilasciate lo status di rifugiato. Ma ecco emergere una incognita. Incognita che solo il suddetto quaderno a quadretti può registrare: la popolazione. Brown mi dice senza giri di parole: "Se torno in Africa il nuovo governo non mi fa niente; ma mi ammazza la gente, per il solo fatto che io rappresento il passato". Risolta una parentesi tonda, eccone una quadra. E se dietro l'angolo se ne nascondesse pure una graffa?
Oltre al passato ed al futuro, il mio interlocutore - solo dietro sollecitazione - risponde ad alcune domande sul suo presente. Non dà mai giudizi. Ma io mi interrogo ugualmente.
Apprendo che spesso egli resta nel campo perché "è difficile qui trovare qualcuno che parli una lingua oltre l'italiano e che ti dedichi un po' di tempo". In effetti - ragiono io, interpretando la sua sorpresa - ogni africano scolarizzato ne conosce almeno due: quella ufficiale e quella locale.
È accudito nel campo, ma Brown cerca anche relazioni e aborra l'ozio. È restato umano.
Pur grato per l'accoglienza, sul cibo servito nel CARA non si dilunga. Lo si può capire. Anche noi se mangiassimo l'ospitale zighinì africano - per lungo tempo - avremmo qualche difficoltà (non solo di gusto, ma anche di intestino...): carne di montone cotta in umido, accompagnata da un sugo ricco di paprika piccante e verdure, il tutto servito su uno strato di ingera.
Eh, sì. Perché oltre alle incognite ci sono pure le variabili. La questione "tempo" è una di queste. Molto si sopporta e tollera di fronte a scadenze certe. Più difficile è invece vivere in una bolla spaziotemporale, come i CARA. Brown è lì da più di sei mesi. Un numero che forse non sfigura su un quaderno a quadretti. Ma che sfigura in assoluto.
Massimo Pavanello
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