A 92 anni è morto il grande filosofo cristiano. Ha rifondato il pensiero sull'etica. Dalla critica dei «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche e Freud)alle questioni del male e della fallibilità umanaIl no allo scetticismo attuale che, dal dubbio cartesiano, ha esteso l'incertezza a ogni cosa, compresa la coscienza.
del 23 maggio 2005
È morto venerdì all’età di 92 anni il filosofo francese Paul Ricoeur. È morto durante il sonno nella propria casa a Chatenay Malabry. Con Gadamer e Pareyson, Ricoeur è stato fra i protagonisti dell’ermeneutica nel secondo Novecento, che ha saputo applicare dalla prospettiva cristiana. Era nato a Valence nel 1913, in una famiglia di tradizione protestante. Nei suoi studi giovanili approfondì il pensiero di san Tommaso, ma anche il filone kantiano, fino alla psicoanalisi di Freud. Aveva cominciato la sua carriera filosofica come allievo di Gabriel Marcel, e venne presto attirato dalla riflessione di Karl Jaspers, ma fu determinante per lui l’incontro con Emmanuel Mounier e la filosofia del «personalismo». Partecipò alla Seconda guerra mondiale e, fatto prigioniero, passò cinque anni nei lager tedeschi: conobbe Mikel Dufrenne e insieme iniziarono a tradurre «Ideen I» di Husserl. I suoi studi filosofici hanno interessato figure come Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Hegel, Nietzsche, Marx e Freud. Ha insegnato all’Università di Strasburgo, alla Sorbona, all’Università di Nanterre (dove fu rettore), all’Università di Lovanio e, dal 1970, in America nelle università di Chicago, Yale e Columbia. Su invito di Giovanni Paolo II partecipò ripetutamente ai colloqui filosofici promossi dal Papa a Castel Gandolfo durante l’estate. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: «La metafora viva» (1975), «La semantica dell’azione» (1977), «Tempo e racconto» (1983-85, tre voll.), «Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia» (1986), «La natura e la regola» (1998) «La memoria, la storia, l’oblio» (2000).
 
In pagine autobiografiche scritte nel 1991, Ricoeur ricorda: «Se rifletto, facendo un passo indietro di mezzo secolo (…), sugli influssi che riconosco di aver subito, sono grato di essere stato fin dall'inizio sollecitato da forze contrarie e fedeltà opposte: da una parte Gabriel Marcel, al quale aggiungo Emmanuel Mounier; dall'altra Edmund Huss erl». Dunque, Ricoeur si forma a contatto con idee tipiche dell'esistenzialismo, del personalismo e della fenomenologia. E sempre lui aggiunge: «Non solo non rimpiango di non essere stato spinto fin dall'inizio del mio itinerario da sollecitazioni distinte, se non divergenti, ma devo a questa polarità iniziale di influenze il dinamismo propulsore di tutta la mia opera. Rifiutando di scegliere tra i miei maestri, ero condannato a cercare una mia propria strada». «Io subisco questo corpo che governo»: è questa la tesi di fondo proposta nel 1950 da Ricoeur in Le volontaire et l'involontaire. Dieci anni più tardi ne L'homme faillible, passando dall'analisi del mondo delle 'essenze' a quello dell''esistenza', Ricoeur insiste sul fatto che l'idea di una volontà che erra e che pecca fa comprendere che il male morale è costitutivo dell'uomo. «Dire che l'uomo è fallibile - scrive Ricoeur - significa dire che il limite proprio di un essere che non coincide con se stesso è la debolezza originaria da cui origina il male». «Patetica della miseria» è l'espressione usata da Ricoeur per designare il sentimento che l'uomo prova di se stesso in quanto essere fragile, fallibile, 'sproporzionato' tra finitezza e infinità. L'uomo è limitato - come soprattutto testimonia la sua fragilità effettiva -; 'sinonimo della fallibilità', «questa limitazione è l'uomo stesso (…). L'uomo è la Gioia del Sì nella tristezza del finito». Il filo conduttore de L'homme faillible è, appunto, il concetto di fallibilità, che permette di proporre una antropologia da cui emerge un uomo fragile, 'sproporzionato' e continuamente sul baratro tra il Bene e il Male, capace di peccato e fallimenti. Ebbene, nel secondo volume di Finitude et culpabilité, e cioè ne La symbole du mal, Ricoeur guarda all'umanità dell'uomo come «allo spazio della manifestazione del male». Ma per capire il male e la colpa il filosofo deve rifarsi al linguaggio che li manifesta, deve ascoltare e interpretare quei simboli che rappresen tano la confessione che l'umanità ha fatto delle sue colpe, dei suoi peccati. E l'analisi della simbolica del male termina con l'affermazione: «il simbolo dà a pensare». È questa una formula la quale può sintetizzare il senso di tutta l'opera di Ricoeur, soprattutto così come essa si è configurata a partire dagli anni Sessanta. È a partire da quegli anni, infatti, che Ricoeur ha inteso la sua opera come un contributo a «una grande filosofia del linguaggio» in grado di rendere conto delle «molteplici funzioni del significare umano e delle loro reciproche relazioni». È sul linguaggio - egli scrive - che si «incrociano le indagini di Wittgenstein, la filosofia linguistica inglese, la fenomenologia derivata da Husserl, le ricerche di Heidegger, i lavori della scuola di Bultmann e delle altre scuole di esegesi neotestamentaria, la letteratura di storia comparata delle religioni e antropologica sul mito, il rito e la credenza - infine la psicoanalisi». E proprio una meditazione sull'opera di Freud è il volume Della interpretazione. Saggio su Freud, del 1965. Ricoeur torna a leggere Freud per la ragione che Freud ha reinterpretato «la totalità delle produzioni psichiche che competono alla cultura, dal sogno alla religione, compresa l'arte e la morale». La psicoanalisi - egli dice - appartiene alla cultura moderna: «interpretando la cultura, la modifica; dandole un strumento di riflessione, la segna durevolmente». E segna durevolmente l'idea stessa di coscienza, così come è stata pensata e ci è stata trasmessa da Cartesio: «il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa senso e coscienza del senso coincidono». Ebbene, questo - sottolinea Ricoeur - oggi non è più possibile. I «maestri della scuola del sospetto», e cioè Marx, Nietzsche e Freud, hanno devastato pure questa certezza: «dopo il dubbio sulla cosa è la volta per noi del dubbio sulla cos cienza». Il dubbio è entrato nel cuore stesso della fortezza cartesiana: la coscienza è 'falsa coscienza'. Per Marx non è la coscienza che determina l'essere ma è l'essere sociale che determina la coscienza; per Nietzsche è la volontà di potenza la chiave delle menzogne e delle maschere; per Freud, infine, l'Io è un infelice «sottomesso a tre padroni, l'Es, il Super-io e la realtà e la necessità». Le conflit des interprétations è del 1969. È questa l'opera in cui Ricoeur porta al punto più alto il suo progetto di una filosofia come ermeneutica. È nei simboli, nelle diverse forme simboliche, che l'uomo oggettiva i significati e i momenti più importanti della vita dei singoli e della storia dell'umanità. E se a questo punto si volesse tentare di cogliere il senso più profondo e più autentico del lavoro ermeneutico di Paul Ricoeur, potremmo dire che esso è 'la via lunga' della riconquista della persona umana attraverso un faticoso pellegrinaggio nella giungla delle produzioni simboliche dell'uomo, e dopo le devastazioni prodotte nell'idea di coscienza dai maestri della 'scuola del sospetto'. Disse Ricoeur nel 1983: «Se la persona ritorna, questo si dà perché esso resta il candidato migliore per sostenere battaglie giuridiche, politiche, economiche e sociali». Difatti, al confronto con la 'coscienza', il 'soggetto' o l''io', la persona è un concetto che è sopravvissuto e che oggi è tornato a vivere con forza».
 
Dario Antiseri
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