a quando mi hai chiesto di scrivere per te e i tuoi amici, sulla vita spirituale, mi sono chiesto se potesse esserci una parola che, alla fine della tua lettura, riassumesse tutto ciò che desidero dirti. Nel corso di quest'ultimo anno, la parola speciale, che io cercavo, si è fatta lentamente strada dal profondo del mio cuore. La parola è "Amato". Sono sicuro che questa parola mi è stata data per amore tuo e dei tuoi amici. Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.
del 01 gennaio 2002 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js=d.createElement(s);js.id= id; js.src = "//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1"; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs); }(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
Ringraziamenti.
Questo libro è stato scritto e pubblicato grazie al sostegno di molti amici. Desidero ringraziare innanzi tutto Connie Ellis per il suo aiuto come segretaria e per i suoi molteplici incoraggiamenti a perseverare in questo mio lavoro, nonostante le altre mie attività. A lei dedico con profonda gratitudine questo libro, per la sua fedele amicizia e per il suo generoso sostegno. Sono altresì grato a Conrad Wieczorek per l'assistenza editoriale data a Connie e a me nel corso della stesura finale di questo manoscritto.
Un ringraziamento particolare va a Patricia Beali, Diana Chambers, Gordon Cosby, Bart Gavigan, Steve Jenkinson, Sue Mosteller, Dolly Reisman, Susan Zimmerman e al mio editore di Crossroad, Bob Heller, per le tante parole di incoraggiamento e i suggerimenti pratici che mi sono stati preziosi per portare a termine questo testo.
Infine desidero esprimere i miei ringraziamenti a Peggy McDonnel, alla sua famiglia e ai suoi amici, per l'amicizia dimostratami e per il generoso contributo economico e alla Comunità francescana di Friburgo (Germania), che mi ha offerto, per scrivere, un luogo tranquillo e votato alla preghiera.
Introduzione.
NASCE UNA AMICIZIA.
Questo libro è il frutto di una lunga e solida amicizia. Credo che trarrai maggior profitto dalla sua lettura, se inizio raccontandotene la storia. Poco più di dieci anni fa, quando insegnavo alla Yale Divinity School, un giovane entrò nel mio studio per intervistarmi per l'edizione domenicale del «New York Times», per la zona del Connecticut. Si presentò come Fred Bratman. Appena seduti, mi sentii prendere da un misto di irritazione e attrazione. Ero irritato perché percepivo chiaramente che quel giornalista non era poi così interessato a fare ciò che stava facendo. Qualcuno gli aveva suggerito che potevo essere un buon soggetto per un "profilo" ed egli aveva seguito il consiglio. Non riuscivo però a vedere in lui alcun interesse specifico nei miei riguardi o un vivo desiderio di scrivere su di me. Insomma un lavoro da giornalista che, se doveva essere fatto, non era poi indispensabile. C'era tuttavia in me anche un elemento diattrazione poiché avvertivo, sotto la sua maschera di indifferenza, uno spirito particolarmente sensibile — desideroso di imparare e di creare. In qualche modo, mi rendevo conto di essere davanti a un uomo ricco di grandi doti personali, nell'ansiosa ricerca di come farne uso.
Dopo una mezz'ora di domande alle quali nessuno dei due partecipò con grande interesse, era ormai scontato che l'intervista volgeva al termine. Un articolo sarebbe stato scritto, pochi l'avrebbero letto, e tutto, o quasi, sarebbe finito lì. Entrambi lo sapevamo e intuivamo che avremmo potuto usare meglio il nostro tempo.
Ma proprio mentre Fred stava riponendo i suoi appunti nella cartella, e ringraziava, come si usa, il suo ospite, lo guardai diritto negli occhi e gli chiesi: «Mi dica, le piace il suo lavoro?» Con mia sorpresa e senza pensarci troppo, rispose: «No, non proprio, ma è un lavoro». Un po' ingenuamente dissi: «Se non le piace, perché lo fa?» «Per i soldi, naturalmente» rispose, e prima che io potessi fare un'altra domanda, aggiunse: «Sebbene scrivere mi piaccia veramente, trovo frustrante abbozzare "profili" per dei giornali, poiché non ho sufficiente spazio per rendere giustizia al soggetto di cui parlo. Per esempio, come posso esprimere qualcosa di profondo su di lei e sulle sue idee quando posso usare non più di 750 parole? Ma che scelta ho? Bisogna pur vivere. Dovrei essere felice d'avere almeno questo da fare!». Sentii nella sua voce rabbia e rassegnazione insieme.
Mi colpì improvvisamente l'idea che Fred stesse per abbandonare i suoi sogni. Mi guardava come un prigioniero guarda da dietro le sbarre una società che lo costringe a lavorare per qualcosa in cui non crede. Osservandolo meglio, provai per lui una profonda simpatia, oserei dire di più, un profondo amore. Intuivo che sotto il sarcasmo e il cinismo c'era un bel cuore, un cuore desideroso di dare, creare, vivere una vita feconda. La sua mente acuta, la franchezza con se stesso e la semplice fiducia che egli riponeva in me, mi fece sentire che il nostro incontro non poteva essere soltanto casuale. Quel che stava accadendo tra noi mi sembrò del tutto simile a ciò che accadde quando Gesù guardò il giovane ricco diritto negli occhi e "lo amò" (Marco 10,21).
Sentii forte e spontaneo nascere in me il desiderio di liberare quell'uomo dalla sua prigione e di aiutarlo a scoprire come appagare le sue più intime aspirazioni.
«Cosa vuoi veramente?» gli chiesi.
«Voglio scrivere un romanzo, ma non sarò mai all'altezza di farlo».
«Lo vuoi veramente?» chiesi ancora. Fred mi guardò sorpreso e mi disse sorridendo: «Sì, ma ne sono anche spaventato, perché non ho mai scritto romanzi, e può anche darsi che non ne abbia la stoffa». «Come potrai accertartene?» domandai. «Beh, probabilmente non potrò. Ci vuole tempo, denaro, e soprattutto talento, e io non possiedo nulla di tutto ciò».
In quel momento provai una sorta di sdegno nei suoi confronti, nei confronti della società e in qualche modo anche di me stesso perché lasciavo le cose come erano. Sentii l'urgenza di abbattere tutti questi muri di paure, convenzioni, aspettative sociali e frustrazioni personali e mi sfuggì dalle labbra: «Ma perché non molli il lavoro e scrivi il tuo romanzo?» «Non posso» disse. Intanto io continuavo ad insistere: «Se lo vuoi veramente, puoi farlo. Non devi essere vittima del tempo e del denaro». A quel punto mi resi conto d'essermi lasciato coinvolgere in una battaglia che ero ben determinato a vincere. Fred sentì questo intenso mio coinvolgimento e disse: «Sono solo un giornalista ed immagino che dovrei anche esserne contento». «No, non dovresti» risposi. «Dovresti rivendicare i tuoi desideri più profondi e fare ciò che veramente vuoi, il tempo e il denaro non sono il vero motivo». «E qual è?» mi chiese Fred. «Sei tu» dissi. «Tu non hai niente da perdere, sei giovane, pieno di energia, con una buona formazione. Ogni cosa ti è possibile. Perché lasci che il mondo ti sprema? Perché ne diventi vittima? Sei libero di fare ciò che vuoi — se è quello che veramente vuoi!»
Fred mi guardava con crescente sorpresa, domandandosi che cosa lo avesse portato a questa strana conversazione. «Beh, dovrei andare un giorno o l'altro forse scriverò il mio romanzo».
Lo fermai, non volevo che se ne andasse via così facilmente. «Aspetta, Fred, so quel che dico. Segui il tuo desiderio». Con un tocco di sarcasmo nella voce, mi rispose: «Suona bene!». Non volevo lasciarlo andare, compresi che le mie convinzioni erano in gioco. Io credo che gli uomini possano fare le loro scelte in armonia con le loro aspirazioni, ma sono anche convinto che, raramente facciano tali scelte. Anzi, essi se la prendono con il mondo e con la società per il loro "destino" e sprecano la loro vita in continui lamenti. Dopo la nostra breve schermaglia verbale, sentivo che Fred era capace di andare oltre le proprie paure e di assumersi il rischio di fidarsi di se stesso. Sapevo anche che dovevo essere io il primo a fidarmi di lui e così gli proposi: «Fred, lascia il tuo lavoro, vieni qui per un anno e scrivi il tuo romanzo. In qualche modo ti procurerò il denaro».
Molti anni dopo Fred mi disse che in quel momento cominciò a sentirsi nervoso e a porsi domande sulle mie motivazioni. Pensava: «Ma cosa vuole veramente da me quest'uomo? E perché mi offre tempo e denaro per scrivere? Non mi fido. Ci deve essere qualcosa sotto!». Ma, invece di far presente questi pensieri, si limitò a obiettare: «Io sono un ebreo, mentre questo è un seminario cristiano». Io rintuzzai le sue obiezioni: «Noi avremo un letterato tra noi. Puoi fare quello che vuoi. A tutti qui piacerà avere un romanziere tra loro e, nel frattempo, potrai imparare qualcosa sia sul Cristianesimo che sull'Ebraismo».
Qualche mese dopo Fred venne alla Yale University School e vi passò un anno cercando di scrivere il suo romanzo. Il romanzo non venne mai scritto, ma noi diventammo veri amici. Oggi, a diversi anni di distanza, sono io che scrivo questo libro, che è come il frutto di quella amicizia.
Durante i dieci anni e più che seguirono il periodo trascorso insieme alla Yale, sia Fred che io abbiamo vissuto vite molto diverse da quelle che erano prevedibili al nostro primo incontro. Fred è passato attraverso un divorzio terribile, si è risposato ed ora lui e sua moglie, Robin, aspettano il loro primo bambino. Nel frattempo, ha fatto diversi lavori, inizialmente non molto gratificanti, finché non ha trovato una posizione che gli offrisse ampio margine per esercitare le sue doti creative. Anche il mio itinerario non era certo prevedibile. Ho lasciato il mondo accademico e sono andato in America Latina, sono rientrato nel mondo accademico ed infine mi sono stabilito in una comunità che ospita persone con handicap mentali, e i loro assistenti. Nelle nostre vite ci sono state molte lotte, molto dolore e molta gioia e abbiamo condiviso a lungo le nostre esperienze nei momenti di incontro. Con il passar del tempo, la nostra amicizia è cresciuta e siamo diventati sempre più consapevoli di quanto essa fosse per noi importante, anche se gli affari, la distanza e i diversi stili di vita, ci impedivano di vederci tutte le volte che desideravamo.
Fin dall'inizio della nostra amicizia eravamo coscienti delle radicali diversità delle nostre esperienze religiose. Sembrava difficile che, all'inizio, potessimo sostenerci l'un l'altro spiritualmente. Fred mi rispettava come prete cattolico e mostrava un sincero interesse per la mia vita e il mio lavoro, ma il Cristianesimo, in generale, e la Chiesa cattolica, in particolare, erano solamente alcuni dei suoi molteplici interessi. Per quel che mi riguarda, potevo facilmente comprendere l'ebraismo secolarizzato di Fred, malgrado pensassi che egli avrebbe tratto maggior vantaggio se avesse coltivato di più la sua eredità spirituale. Ricordo benissimo quando una volta dissi a Fred che sarebbe stato bene per lui leggere la Bibbia ebraica. Egli rispose protestando: «Non mi dice niente. Ha parole lontane e strane». «Beh, leggi almeno il Libro di Qoelet (Ecclesiaste), quello che inizia con le parole: «Vanità delle vanità. Tutto è vanità».
Il giorno seguente Fred mi disse: «L'ho letto non mi ero mai reso conto che la Bibbia desse spazio alla figura dello scettico uno come me È davvero rassicurante!». Ricordo d'aver pensato: «C'è molto di più che uno scettico in te».
Invecchiando diventavamo meno interessati al successo, alla carriera, alla fama, al denaro e al tempo, e le domande sul significato e gli scopi delle nostre vite erano sempre più al centro del nostro rapporto.
In mezzo ai molti cambiamenti delle nostre vite, Fred e io eravamo più sensibili ai nostri più profondi desideri. Sebbene le situazioni delle nostre esistenze fossero differenti, entrambi dovevamo confrontarci con il dolore del rifiuto e della separazione, ed entrambi ci rendevamo conto del nostro crescente desiderio di intimità e di amicizia. Per evitare di essere sommersi dall'amarezza e dal risentimento, entrambi abbiamo dovuto attingere alle nostre più profonde risorse spirituali. Le differenze diventavano meno importanti e le somiglianze più evidenti. Mentre la nostra amicizia si faceva più profonda e forte, il nostro desiderio di una comune base spirituale diventava più esplicito.
Un giorno, mentre passeggiavamo nella Columbus Avenue a New York City, Fred si girò verso di me e disse: «Perché non scrivi qualcosa sulla vita spirituale, per me e i miei amici?» Fred conosceva bene la maggior parte dei miei scritti. Mi aveva dato spesso validi consigli sulla forma e sullo stile, ma raramente si sentiva coinvolto dal contenuto. Come ebreo che viveva nel mondo secolare di New York City, non poteva trovare molto conforto o sostegno in parole che avevano una esplicita matrice cristiana ed erano chiaramente basate su una lunga vita nella Chiesa. «Cose sostanzialmente buone» diceva spesso «ma che non fanno per me». Egli sentiva fortemente che la sua esperienza e quella dei suoi amici esigevano un'altra intonazione, un altro linguaggio, una diversa lunghezza d'onda spirituale.
A mano a mano che conoscevo gli amici di Fred, i loro interessi e ciò che stava loro a cuore, comprendevo meglio le obiezioni di Fred sulla necessità di una spiritualità che parlasse a uomini e donne di una società secolarizzata. Molti dei miei pensieri e scritti presupponevano una familiarità con concetti ed immagini che per molti secoli avevano nutrito la vita spirituale di cristiani ed ebrei, ma per molte persone questi concetti ed immagini avevano perso il potere di toccarli nel vivo delle loro fondamentali esigenze spirituali.
L'idea suggeritami da Fred di dire qualcosa che egli stesso e i suoi amici "potessero ascoltare" non mi abbandonò più. Mi stava chiedendo di rispondere alla grande fame e sete spirituale che esiste in moltissime persone che percorrono le strade delle grandi città. Mi stava supplicando di dire parole di speranza a persone che non frequentavano più le chiese o le sinagoghe, e per le quali preti e rabbini non erano più i naturali consiglieri.
«Tu hai qualcosa da dire» insisteva Fred, «ma devi dirlo alle persone che meno sentono il bisogno di ascoltarlo. Cosa hai da dire a noi giovani, ambiziosi, uomini e donne secolari che si chiedono cos'è, in fin dei conti, la vita? Puoi parlarci con la stessa convinzione di quando parli a coloro con i quali condividi la tua tradizione, il tuo linguaggio e la tua visione della vita?
Fred non fu l'unico a pormi tali domande. Ciò che Fred aveva espresso con tanta chiarezza mi era giunto anche da molte altre direzioni. Lo avevo sentito da persone della mia comunità che non avevano un retroterra religioso e per le quali la Bibbia era un libro strano e nebuloso. Lo avevo sentito da membri della mia famiglia che avevano lasciato da tempo la Chiesa e non desideravano tornarci. Lo avevo sentito da avvocati, dottori, uomini d'affari che vivevano un'esistenza che aveva assorbito ogni loro energia e per i quali il sabato o la domenica erano poco più di una breve pausa per riprendere sufficiente forza per rientrare nell'arena del lunedì mattina. Lo avevo sentito anche da giovani uomini e donne che cominciavano ad avvertire le molte richieste di una società che esigeva la loro attenzione, ma che temevano nello stesso tempo che ciò che questa società offriva loro, non era una "vera" vita.
La domanda di Fred diventò molto più dell'intrigante suggerimento di un giovane intellettuale di New York. Divenne la richiesta che si alzava da ogni parte, ovunque fossi disposto ad ascoltarla. Alla fine, divenne per me la più pertinente, la più urgente di tutte le domande: «Parlaci delle più profonde brame del nostro cuore, dei tanti desideri, della speranza; non parlarci delle tante strategie per sopravvivere, ma parlaci della fiducia; non parlarci dei nuovi metodi per soddisfare i nostri bisogni emotivi, ma parlaci dell'amore. Parlaci di una visione più grande delle nostre mutevoli prospettive. Parlaci di una voce più profonda del clamore dei nostri mass-media. Sì, parlaci di qualcosa o di qualcuno più grande di noi. Parlaci di Dio.»
«Chi sono io per parlare di tali cose?» rispondevo. «La mia vita è talmente piccola per farlo. Non ho esperienza, conoscenza o linguaggio adatti per fare ciò che mi chiedete. Tu e i tuoi amici vivete in un mondo così diverso dal mio».
Henri. J.M. Nouwen.
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