Espressioni come: “toccare con mano l'esperienza di chi dona la propria vita”, sono all'ordine del giorno... confesso di esserne, personalmente, un po' stanco: l'abuso di un termine porta anche, invitabilmente, alla svalutazione della realtà che veicola.Uccidetemi pure, ma ho sentito il bisogno di risignificare quella parola e quella realtà. Scusatemi se l'ho fatto con delle pagine di non così facile approccio...
del 11 novembre 2003
 
 
 
 
“Comprendere” e “sapere”
Queste ultime riflessioni lasciano intravedere una distinzione che è molto cara al nostro autore: quella tra comprendere e sapere. Comprendere esprime il momento logico-discorsivo propriamente intellettuale della conoscenza della verità. Sapere-la-verità dice invece un conoscere che supera il livello teoretico proprio del comprendere. Non è infatti la stessa cosa il comprendere che Gesù è la verità, rispetto all’entrare in rapporto con questa verità. Solo il coinvolgimento totale e personale costituisce il sapere-la-verità che, proprio in quanto integrale, non solo non esclude la dimensione concettuale del comprendere, ma la contiene ritenendola in sé essenziale ed imprevaricabile.
D’altra parte lo sforzo teoretico critico, se non vuole essere fine a se stesso e quindi infecondo, non deve restare estraneo a quel processo più ampio che è il sapere-la-verità cui esso appartiene di diritto.
“Il comprendere è dunque momento interno di un movimento più vasto e profondo, quello che porta l’uomo intero che comprende-la-verità a collocarsi in essa, a dimorarvi, a verificarsi in essa e su di essa”.
Solo allora l’uomo potrà dire di sapere-la-verità, altrimenti egli si trova nell’illusione della riduzione intelletualistica del rapporto con essa, e un uomo che vive tale illusione non giungerà mai a sapere propriamente e pienamente la verità.
Quel sapere-la-verità che è sapere-Gesù e che non rinuncia a comprendere, ma va oltre il comprendere stesso, si identifica in ultima istanza con la fede. Infatti proprio la fede è quel sapere veritativo, ma non oggettivante perchè “in definitiva è il sapere-la-verità, in forza del venirsi a collocare nella verità”.
 
“Fede-agape”
Fede e sapere-la-verità nella forma cristiana sono dunque sinonimi, tant’è che Moioli può affermare esplicitamente che il sapere tipico del cristiano è la fede. Dove, precisa lo stesso autore, la
“fede equivale a quel complesso atteggiamento teorico-pratico che conosce e riconosce la manifestazione dell’agape divina come radicale provocazione alla libertà e appello al consenso nella direzione del dono di sé come Cristo”.
 
Fede e agape sono perciò realtà tra loro correlate anzi, come rivela l’atteggiamento biblico della fede che è già in se stesso agapico, sono grandezze coestensive sia in quanto la fede è un consegnarsi all’agape manifestata che è il Figlio Gesù Cristo, sia in quanto essa ubbidisce e si associa a quel movimento di donazione illimitata ed universale che è ancora l’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo.
In questo senso Moioli parla della fede come di un atteggiamento complesso “che solo violentemente potrebbe essere confinato al puro piano cognitivo”. Perciò se non si vuole cadere in quel riduzionismo che fa della fede un atto di adesione puramente intellettuale, la si deve comprendere all’interno del più ampio rapporto uomo-verità. La fede-agape risulterebbe allora come quella forma propria del sapere-la-verità determinata dalla “dimensione teorico-pratica, cognitivo-amante del rapporto tra l’uomo e la verità assoluta”.
Per quanto evidente non è inutile sottolineare l’importanza che questa prospettiva ha per il discorso morale. Ci basti ora rilevare che il tema della fede ci conduce a delle conclusioni convergenti rispetto a quelle raggiunte attraverso la riflessione sui temi della verità cristiana e sulla distinzione comprendere-sapere che abbiamo evidenziato. Infatti se da una parte la fede non potrebbe essere confinata al piano esclusivamente teorico, dall’altra questo non significa neppure che la fede-intelligenza scompaia o perda la sua funzione di fronte alla fede-agape. La prima è inclusa nella seconda in quanto è la dimensione propriamente intellettiva della fede, è il comprendere della fede che si fonda sul fatto che il credere è correlato al manifestarsi della verità. Sarebbe perciò scorretto immaginare un atto di fede che chieda all’uomo di rinunciare all’intelligenza, per quanto questa non sia il criterio esclusivo.
Moioli, usando l’espressione fede-agape, afferma inoltre l’inadeguatezza di quell’interpretazione antropologica che definisce rispettivamente la fede come atto della facoltà dell’intelligenza e l’agape come atto della facoltà della volontà. E’ questa interpretazione che si presta a quella visione della fede-intelligenza e dell’agape-volontà (libertà) che le pone in concorrenza tra loro, quasi che l’una possa escludere o avere il sopravvento sull’altra. La fede sa l’economia dell’Alleanza, il cui centro è Gesù, “non come saprebbe un oggetto esterno a sé, ma radicalmente perchè vi è coinvolta nella libertà”.
In questa prospettiva e tenute presenti le precedenti riflessioni, il nostro autore ritiene di poter recuperare la più classica terminologia che distingue fides quae da fides qua, dove fides quae non è innanzittutto l’insieme delle verità cristiane, ma è l’automanifestazione di Dio in Cristo, mentre la fides qua indica “quel complesso atteggiamento di riconoscimento-accoglimento-consenso che è già in se stesso agapico e che perciò precontiene un’esistenza che si svolga come agape”. Il primato spetta comunque alla fides quae, perchè è questa che fonda e determina la fides qua.
Le riflessioni fatte ci conducono ad una prima interessante conclusione: fede, sapere cristiano, sapere-della-fede, sapere-Gesù dicono sempre la medesima realtà, quella della possibilità di rapporto tra il soggetto umano e la Verità assoluta. Questa conclusione, tutt’altro che di valenza puramente linguistica, ci dice che la fede va intesa come figura specifica del sapere-la-verità e ancora che il sapere cristiano non solo non può accadere fuori della fede, ma è sapere nella forma della fede.
 
Il sapere cristiano come sapere “sapere esperienziale”
Il guadagno che ricaviamo dalle osservazioni critiche di Moioli sul sapere cristiano non è solo quello raccolto alla fine del precedente paragrafo. Tali osservazioni si aprono infatti alla ricerca della fisionomia e della fondazione epistemologica di suddetto sapere.
La chiave di comprensione ci è ancora offerta dal nostro autore laddove egli afferma che, data la struttura del credere-sapere, è plausibile comprenderlo ed esprimerlo attraverso la categoria di esperienza. L’accoglienza di questo tema, per quanto ormai consolidata nell’ambito teologico, avviene in modo tutt’altro che acritico da parte di Moioli.
 
a. Concezioni riduzionistiche dell’esperienza
All’origine di questa riflessione critica sta una triplica concezione riduzionistica dell’esperienza.
   Innanzitutto quella proveniente dal pensiero empirico che si regge sulla convinzione che è vero solo ciò che è verificabile o, in negativo, solo ciò che è falsificabile. Secondo questa prospettiva l’esperienza si identifica con la sperimentazione. Se questo può valere per il sapere fisico, non vale però per altri livelli di sapere che sono invece possibili soltanto rifiutando proprio la possibilità della verifica empirica: la sperimentazione infatti non è adeguata né per esprimere il nostro rapporto con i valori, perchè nessun valore può essere portato in laboratorio e sottoposto a sperimentazione, né per i rapporti interpersonali, perchè nessun rapporto tra persone si può fondare sulla base di una continua verifica. Tanto meno dunque questa accezione di esperienza è in grado di rispettare la tipologia del rapporto dell’uomo con l’Assoluto.
Anche quando i mistici, come per esempio s. Bonaventura, esprimono il vertice della loro esperienza con la categoria del tactus, questa non va intesa come un immediatismo empirico, ma come una immediatezza di amore che raggiunge Dio nell’oscurità. L’esperienza come sperimentazione ed immediatismo non esprime dunque l’ampiezza della esperienza umana, e neppure soddisfa l’esperienza cristiana che è sempre rapporto con un Altro, quale è il Tu di Gesù Cristo.
   Una seconda riduzione è quella che interpreta l’esperienza come emozione, come ciò che immediatamente si avverte. Questa prospettiva considera lo stato emotivo in cui si trova il soggetto umano, ma esclude la dimensione della libertà e della volontà. L’uomo è coinvolto solo a livello emotivo, per cui finisce per essere ciò che emotivamente prova, mentre si misconosce la sua capacità di decisione responsabile. Di qui un’evidente ulteriore grave conseguenza: ciò che si offre al soggetto umano come realtà-data verrebbe da lui ridotta a ciò che egli percepisce tramite le dimensioni soggettive della propria emotività, in altre parole alla “propria soggettiva evidenza”. Rispetto all’esperienza di fede, Cristo perderebbe allora il suo carattere di verità normativa per assumere la fisionomia del sentire umano. Parlare di esperienza in questi termini, afferma Moioli, significa sminuire la rivelazione in quanto essa diventa un fatto relativo e soggettivo e conduce alla fine a “svuotare il cristianesimo”.
   L’ultima riduzione del concetto d’esperienza è quella di cui abbiamo già fatto ampio riferimento nel paragrafo precedente: l’esperienza come rapporto teoretico-concettuale con l’oggetto, che farebbe della conoscenza di Dio una questione puramente intellettuale di tipo logico-dimostrativo.
Né sperimentazione, né emozionalità, né intelletualismo-teoretico esauriscono la profondità e la complessità della valenza che la categoria dell’esperienza acquista qualora venga assunta per esprimere la realtà della fede cristiana. Possiamo dunque concludere che nessuna delle precedenti accezioni, pur avendo più o meno diritto di appartenenza al dato dell’esperienza cristiana quale dimensione particolare di essa, riesce ad esprimere il senso più pieno.
 
b. Esperienza come “sapere-la-verità”
Liberato da dannosi riduzionismi si può ricomprendere, come osserva Moioli, il tema dell’esperienza, considerando i risultati criticamente raggiunti dall’analisi dell’esperienza-sapere, delle sue condizioni e della sua natura che, soprattutto dopo Kant, ha impegnato la riflessione filosofica moderna. Ne abbiamo fatto una rapida ricostruzione nel primo paragrafo del presente studio, ed in questa sede non intendiamo impegnarci oltre consapevoli che il nostro autore, sebbene criticamente attento ai risultati raggiunti, non ha mai ritenuto che gli fosse richiesto un discorso critico di carattere propriamente filosofico.
“In maniera certo più immediata e descrittiva basterà, invece, richiamare che “esperienza” in quanto semplicemente “sapere la realtà” può senz’altro essere assunta come sinonimo del modo più completo, adeguato, totalizzante con cui il soggetto, o l’esistente come soggetto, giunge a  codesto “sapere”, e quindi accede alla realtà” (G. Moioli, Esperienza cristiana, NDS, 536).
Non ancora fondativa questa affermazione chiede di essere spiegata e giustificata, per cui si apre la domanda fondamentale: “per quale ragione il ‘sapere la verità’ è fenomenologicamente, l’esperienza?”.
Dal punto di vista del soggetto due elementi vanno tenuti in seria considerazione: l’intenzionalità del soggetto umano che, nell’accezione datagli dal nostro autore, esprime la capacità che l’uomo ha di trascendersi, di uscire da sé per entrare in rapporto con il reale; ed il coinvolgimento reale e integrale della persona, da noi più volte sottolineato, nello stesso processo che conduce al sapere-la-verità. Ora è proprio nell’esperienza che la persona soddisfa queste due condizioni e quindi perviene a sapere la realtà come verità, cioè come ciò che “va provocando l’adeguazione ad essa del soggetto perchè vi si collochi, perchè esca dall’apparenza e si realizzi”.
Dunque Moioli tratteggia l’esperienza come la possibilità di giungere alla realtà-verità attraverso quell’adeguamento ad essa che è il collocarsi, con tutto se stessi, nella medesima realtà-verità. Questa possibilità da una parte presuppone il riconoscimento della forza provocatrice della realtà che, in quanto autentica, chiede di essere accolta affinchè se ne riconosca la verità. Presupposto che si fonda sulla consapevolezza che l’uomo può conoscere solo in quanto c’è qualcosa che si manifesta in maniera libera e altrimenti indisponibile alle sue possibilità e, facendolo, svela con sé un senso intenzionale, che è la risposta alla domanda di verità dell’uomo. Dall’altra parte si riconosce il ruolo tutt’altro che passivo del soggetto umano, cui è chiesto di lasciarsi provocare dal reale per coinvolgersi in esso facendo esperienza della sua verità.
Di qui un’importante conclusione: la verità che viene saputa tramite questo processo non si presenta più come un oggetto separato dal soggetto raggiungibile per via puramente concettuale (su un piano descrittivo) o sperimentale (su un piano empirico), ma solo nel relazionarsi del soggetto stesso in ogni sua dimensione con essa. Si supera così, in forza dell’intenzionalità che conduce all’esperienza, l’ingenuo schema che pone soggetto-oggetto in opposizione tra loro. Inoltre si verifica nel soggetto un’”unificazione originale tra conoscenza e amore; tra contemplazione e azione; tra teoria e prassi”. Si tratta dell’”unità originale della libertà: che appare pertanto come il correlato adeguato, nel soggetto, della realtà-verità nella quale esso è provocato a collocarsi”. Tale unificazione non sminuisce l’oggettività-verità del reale che non è mai una creazione della soggettività, ma resta appunto un suo imprescindibile correlato”.
Quanto fin qui detto ci consente di affermare con Moioli che l’esperienza criticamente compresa è lo statuto proprio del rapporto tra l’uomo e la verità. Siamo così condotti ad un’ulteriore evidente conclusione: non è possibile sapere-la-verità e quindi neppure sapere-Gesù quale sapere tipo del più ampio sapere-la-verità, se non nella forma dell’esperienza. Questa dovrà essere precisata e definita in modo critico secondo la natura della verità cui essa è riferita; è infatti diverso il sapere esperienziale di natura fisica, che potrà avvalersi anche della sperimentazione, rispetto a quello morale o a quello della fede. La struttura di fondo, che abbiamo definito come esperienza quale modalità del sapere teorico-pratico che implica anche la libertà, rimane sempre la stessa, perchè unico e medesimo è il soggetto del sapere; ma questa si qualificherà in forza del termine di relazione.
Il nostro autore ci offre in particolare la tipologia di tale sapere esperienziale nella forma della fede cristiana.
 
c) “Sapere-la-verità” nella forma cristiana
Riferendoci più direttamente alla fede cristiana, che abbiamo già delineato nella sua forma specifica di sapere-la-verità che coincide in ultima istanza con il sapere-Gesù, siamo condotti  a trarre con Moioli alcune osservazioni di sintesi: il cristiano sa-Gesù non come un’informazione o un semplice riflettere su un oggetto ritenuto vero nello sforzo di essergli coerente, ma “come colui che vive o cerca di vivere o riconosce di non vivere secondo il riferimento radicale a Gesù di Nazaret”. Questi, nella sua vicenda storica, si offre come avvenimento reale la cui forza di provocazione chiede una presa di posizione: accogliere o rifiutare la sua persona e quindi la Verità che egli incarna. L’accoglienza positiva si struttura in quel sapere-la-verità che ha la stessa forma del vissuto cristiano; per cui sapere cristiano in quanto sapere-Gesù e vivere cristiano coincidono perfettamente. Le stesse linee costitutive dell’essere cristiano, afferma Moioli, non sono separate dal loro essere vissute e in questo senso sapute. Così la figura reale del credente cristiano e quella del suo credere o del suo sapere non possono essere disgiunte.
Possiamo quindi parlare con Mouroux di un sapere esperienziale, che per il nostro autore si identifica con il vissuto; intendendo per vissuto “la totalità e la globalità del soggetto-in-rapporto”. Secondo questa ulteriore precisazione gli atti, le situazioni, gli oggetti, le relazioni personali che la persona vive sono esperienza. Inoltre proprio in quanto il vissuto dice la globalità del soggetto in relazione, nulla di questa persona rimane escluso: né la riflessione, né la libertà, né l’affettività e neppure l’atto del decidere: “anche la vita del comprendere, del pensare, del decidere è vissuto”.
Questo significa, come abbiamo già precisato, che non si può pensare ad un rapporto del soggetto-oggetto che consideri l’oggetto indipendentemente dal soggetto, che sia cioè pura osservazione neutrale senza il coinvolgimento dell’integrità personale del soggetto stesso. Di fatto questi è in grado di cogliere la verità dell’oggetto solo in quanto sa se stesso in relazione e in riferimento a tale verità, per cui la coglie nella propria interiorità. L’esperienza o vissuto cristiano “non è un sapere oggettivo, se questo significa prescindere dal sapere il proprio essere in rapporto”: l’Altro non è saputo se non nel senso che “io so il mio essere-in-rapporto-con-lui, il mio muovermi nella direzione di lui, del rapporto con lui”.
In questo senso il sapere esperienziale nella forma del vissuto cristiano emerge e risuona nell’interiorità del soggetto. Si tratta più esattamente di quell’esperienza di comunione nella quale il termine del rapporto (il Dio di Gesù Cristo) misura la verità del soggetto, che Gli si rapporta (cioè Gli si adegua), lasciandosi determinare da Lui.
Di qui la determinazione del sapere tipico del cristiano come un sapere se stessi nella misura in cui la propria personalità si va strutturando e determinando in riferimento all’Assoluto concreto che è Gesù Cristo. Contemporaneamente e in stretta correlazione al sapere se stessi secondo Gesù Cristo, il credente sa-Gesù come colui dal quale la propria personalità e il proprio vivere esistenziale traggono determinazione. La Verità viene adeguatamente saputa proprio tramite questo “processo ricchissimo e sintetico”, che coincide in ultima istanza con la comunione vissuta. In essa “la verità del termine della comunione”, che è Dio stesso sempre distinto dal soggetto, diviene “forma di verità del soggetto stesso”: perciò “verità del termine, verità del soggetto e verità del rapporto vengono con-sapute simultaneamente”.
In definitiva l’esperienza cristiana si qualifica come processo di personalizzazione della verità di fede e coincide con lo stesso sapere cristiano. Percirrendo l’itinerario di comunione con il Dio di Gesù Cristo si fa esperienza e quindi si progredisce nel sapere-Gesù: l’esperienza del diventare cristiano determina la nostra attuale possibilità di fare esperienza di Dio.
(Tratto da Paolo Mirabella, Esperienza cristiana: vita nello Spirito e decisione morale. Un confronto con il contributo di don Giovanni Moioli, pp. 37-48, Milano 1997, Glossa Editrice)
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