Sono testimoni della loro fede in Cristo. Approdati dallo sport, dal professionismo, dai viaggi e dai jet-lag, dalle tensione, dall'agonismo esasperato, dalle rivalità, alla fede.
Sono belli e famosi. Se si impegnassero come “testimonial” di un profumo, di una schiuma da barba, di un aperitivo, di un caffè o di quant’altro, nessuno si prenderebbe la briga di discutere della loro scelta sui più disparati blog, invece basta immettere il loro nome in un motore di ricerca per accorgersi che, nel bene e nel male, sono in molti sul web a commentare le loro azioni e spesso non lesinano sarcasmo.
Perché sono “testimonial” nel senso più vero della parola: sono testimoni della loro fede in Cristo. Approdati dallo sport, dal professionismo, dai viaggi e dai jet-lag, dalle tensione, dall’agonismo esasperato, dalle rivalità, alla fede.
Mara Santangelo cercando inutilmente, dopo la morte della madre, di mantenere attraverso il tennis una promessa fatta a lei da piccola. Tremmell Darden dopo il parto difficile della moglie che gli ha fatto temere per lei e il suo bambino. Lionel Messi e Carlo Ancelotti da sempre ancorati alla famiglia tradizionale come porto sicuro nella vita e impegnati verso i più deboli. Pierrick Gunther domandandosi, dopo la morte di un caro amico compagno nel rugby, chi avrebbe potuto donargli la pace del cuore. Juan Del Potro sempre fedele alla sua coscienza in un mondo spesso pieno di tentazioni e strade sbagliate, tanto da essere definito da un quotidiano londinese “un santo nello sport”. Wayne Rooney, che, pur bacchettato spesso dai “media “inglesi per la sua tenacia nella testimonianza religiosa, non demorde dal parlare del suo riavvicinamento alla fede dopo un’adolescenza sbandata, del suo matrimonio cattolico, dell’importanza della famiglia tradizionale e dei figli.
Quello che più colpisce in questi itinerari così diversi è l’identica “meta” a cui i vari protagonisti sono arrivati dopo multiformi e variegati cammini: una meta di pace, di preghiera, di pienezza di vita, con l’incontro con Gesù e Sua Madre.
Quando il 23 novembre di quest’anno il Pontefice ha ricevuto i delegati dei Comitati olimpici europei, che erano a Roma per la 43ª assemblea generale ha individuato nel rugby in particolare e nello sport in generale una metafora della vita: “Ci sono le azioni individuali, le corse agili verso la ‘meta’. Ecco, nel rugby si corre verso la ‘meta’! Questa parola così bella, così importante, ci fa pensare alla vita, perché tutta la nostra vita tende a una meta. E questa ricerca è faticosa, richiede lotta, impegno, ma l’importante è non correre da soli. Per arrivare bisogna correre insieme, e la palla viene passata di mano in mano, e si avanza insieme, finché si arriva alla meta. E allora si festeggia”.
Forse è per questo che lo sport è terreno fertile per le conversioni e il ritorno alla fede: il senso della “meta” di uno scopo preciso fa degli sportivi persone sensibili a un richiamo più alto e definitivo. Del resto lo ricorda anche san Paolo con una famosa metafora (1Corinzi 9, 24-27): “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato”.
Ma quello che più colpisce, al di là del fenomeno della vicinanza sport-religione, è la reazione spesso ostile dei media, specialmente europei, che vorrebbero rendere invisibile questo fenomeno che è invece in continua crescita. Non piace, non va, al politically correct, che gente bella, famosa, spesso baciata dalla fortuna e dai soldi, abbia il coraggio di parlare pubblicamente di valori più profondi del successo, del denaro e del potere. Speriamo che anche in questo siano un riferimento per i tanti loro ammiratori.
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