Ricorre in questi giorni il 19.mo anniversario. L'inizio di uno dei più drammatici genocidi della storia recente: quello del 1994 in Rwanda contro i Tutsi, perpetrato dagli Hutu. Un milione di morti circa in soli tre mesi.
Lo si ricorda come uno degli stermini più sanguinosi della storia recente: il genocidio in Rwanda, un milione di morti circa tra il 6 aprile e il 19 luglio del 1994. Le vittime furono soprattutto membri dell’etnia Tutsi, uccise dagli estremisti Interahamwe, della maggioranza Hutu. Anche tra questi ultimi però si contarono morti, puniti perché più moderati o perché imparentati con i Tutsi. La persecuzione dei Tutsi in Rwanda si registrava sin dal 1959, ma prese la forma del genocidio nel 1994, appunto, dopo la morte del presidente hutu Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale. Il 6 aprile, l’aereo sul quale viaggiava con il presidente del Burundi fu centrato da un missile. Ignota ancora oggi la mano dell’assassino: negli anni fu incriminata la moglie, ma allora questo omicidio servì per scatenare la furia contro i Tutsi. Il 7 aprile, a Kigali, la capitale, e nelle zone controllate dai governativi, iniziarono i massacri perpetrati per lo più a colpi di machete. George Gatera, di Butare, è un sopravvissuto, da dieci anni vive in Italia.
R. – Io ero in Rwanda nel mese di aprile e ho vissuto tutto quello che è successo. Sono cresciuto in quella atmosfera per cui le persone erano classificate e divise secondo le etnie. Chi stava al potere era etichettato dall’altra parte come nemico del Paese. La parte dei Tutsi era considerata di seconda categoria… In Rwanda, c’erano gli Hutu che erano la maggioranza, l'80-85%, e i Tutsi che erano la minoranza, il 14%. La vita sociale era basata su queste cifre. Si viveva in questo modo e questo valeva per i posti a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, finché nel ’94 il governo ha deciso di eliminare socialmente la parte dei Tutsi nel Paese.
D. – Che cosa le successe in quel periodo, come viveva?
R. – C’era un odio tale contro i Tutsi che la mattina stessa del 7 aprile non si poteva circolare, non si poteva uscire di casa, non si poteva fare niente.. Ad esempio, dove io abitavo, c’erano tanti militari che entravano nelle case, prendevano le persone… Con l’andare del tempo è scoppiata una caccia alle persone, dal più anziano al più piccolo venivano uccisi, bruciavano tutto… La situazione era terribile. In quel periodo, quasi tutte le persone che conoscevo e con cui ho vissuto sono state uccise.
D. – Si riesce a perdonare a superare tutto questo?
R. – Chi ha perso i propri cari vive questo stato di dolore, di ricordi, ma questo non impedisce che la vita continui. E’ difficile provare odio per qualcuno che non conosci esattamente… Non è che io conosca personalmente chi ha ucciso i miei.
D. – Lei vorrebbe rientrare ora nel suo Paese?
R. – Ogni tanto ci vado. Trovo un Paese che sta ricostruendo, che ha voglia di riprendersi, di vivere, di superare tutto anche tutto quello che ha subito.
Oggi, il Rwanda è un Paese che sta facendo i conti con la sua memoria. I rwandesi non si sono tirati indietro rispetto alle loro colpe, e questa assunzione di responsabilità ha fatto sì che si arrivasse ad una sorta di riconciliazione nazionale. "Bene-Rwanda" è una Associazione no profit con sede a Roma, fondata e diretta da rwandesi che risiedono e lavorano da anni in Italia, come la presidente Francoise Kankindi:
R. – Il Rwanda ha dovuto fare i conti con se stesso per capire come rendere di nuovo il tessuto sociale un minimo vivibile. I massimi esperti avevano detto che ci sarebbero voluti 100 anni per giudicare tutti i colpevoli del genocidio e visto che bisognava continuare a vivere e ricostituire un tessuto sociale il Rwanda ha dovuto ricorrere ai tribunali tradizionali che si chiamano gacaca, che vuol dire "prato": sono tribunali che avvengono sul prato, il prato del villaggio, dove tutti partecipano spontaneamente e tutti confessano davanti ai vicini, quindi è difficile anche mentire. Dopodiché, viene anche istituita una pena sociale sostenibile per poi reintegrare i colpevoli nella vita di tutti i giorni. Il Rwanda ha dovuto ricorrere alla sua propria tradizione di una giustizia ricostituente, cioè che ricostruisce successivamente per poter riprendersi. A oggi, il Rwanda ha potuto ricostituirsi grazie a questi tribunali sociali locali che hanno documentato, collina per collina, comune per comune, villaggio per villaggio, quello che è successo. Oggi, abbiamo la memoria di tutto il genocidio del Rwanda documentato da questi tribunali "Gacaca". La macchina era stata organizzata in modo che tutti dovessero partecipare perché, se non partecipavi ti uccidevano. Si è partiti da questo per dare anche un perdono sociale a chi aveva dovuto comunque partecipare a quell’uccisione collettiva, malgrado se stesso.
D. – Voi temete qualcosa di simile ancora oggi, nel Rwanda di oggi?
R. – Nel Rwanda di oggi non lo temiamo più, perché dal ’94 il Rwanda ha acquisito una maturità intellettuale, una presa di coscienza della gravità di ciò che era successo. Il Rwanda si è dotato di leggi a livello costituzionale che puniscono severamente chi tenta di nuovo di dividere e di creare di nuovo le premesse per un genocidio. I Gacaca allestiti anche collettivamente nei villaggi hanno permesso a tutti di capire cosa vuol dire un genocidio. Nessuno aveva detto a molti degli hutu che avevano partecipato all’uccisione di massa che stavano commettendo un genocidio. La nostra radio diceva: andate a lavorare - questa era la parola che si usava - voi hutu siete bravi lavoratori, siete bravi agricoltori, sapete usare bene il machete, andate a sradicare l’erba cattiva, andate a sradicare gli "scarafaggi" - che eravamo noi tutsi - e questa volta non fate l’errore di lasciare i bambini e le donne. Questo insegnava la radio dei nostri governanti.
D. – Cosa ne è oggi dei sopravvissuti e di quei ragazzi che allora hanno visto uccidere i loro familiari?
R. – Hanno bisogno di aiuto, perché molti di loro hanno perso tutta la famiglia. Però, oggi c’è una Commissione nazionale di lotta contro il genocidio e subito dopo il genocidio c’è stato anche un fondo per permettere a questi ragazzi di studiare. Ma questo non basta. Il Rwanda è povero, non va lasciato a se stesso. I sopravvissuti sono soli, non hanno avuto una riparazione. Tutti noi rwandesi facciamo tutto il possibile per stare vicino nel nostro piccolo… Una minima riparazione è contemplabile? Questa è la domanda che ci facciamo tutti.
D. – Per quello che vi consta, ci sono segnali in altri Paesi africani che vi fanno pensare che potrebbe esserci qualcosa di drammatico come ciò che accadde da voi nel ’94.
R. - Sì, non c’è bisogno di andare lontano. Nel vicino Congo, i genocidari del ’94 si sono rifugiati e hanno formato anche forze militari che stanno destabilizzando il Paese, violentano le donne… Il Congo stesso si sta dimostrando incapace di fermarli. Purtroppo, ci si rifiuta di vedere gli stessi segnali premonitori. Alla vigilia del 20.mo anniversario, l’anno prossimo, noi vorremmo che il Rwanda avesse insegnato e ci avesse spronato tutti a rifiutare il fatto che un genocidio possa succedere ancora da qualche parte.
Principale obiettivo di Bene-Rwanda è quello di conservare la memoria del genocidio, per questo si propone di fondare il Centro Memoria 1994 che possa raccogliere i documenti più importanti sulla tragedia dei Tutsi. In occasione di questo 19.mo anniversario, organizza per il domenica 14 aprile, presso il Teatro Piccolo Eliseo di Roma, una manifestazione pubblica per raccontare ciò che accadde in Rwanda e per riflettere sulle attuali emergenze nel continente africano.
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