Se la verità non è un'ideale astratto, ma una persona, allora la virtù non consisterà più nell'adeguarsi ad una regola, ma nel seguire una persona...
del 04 luglio 2017
Se la verità non è un’ideale astratto, ma una persona, allora la virtù non consisterà più nell’adeguarsi ad una regola, ma nel seguire una persona...
In uno dei canti più emozionanti dell’Inferno, Dante mette in bocca ad Ulisse queste parole:
“Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”.
Sembrano parole bellissime, che d’istinto ci viene da approvare, parole che raccoglierebbero migliaia di like su Facebook, perché descrivono una sapienza purissima e un ideale di uomo straordinariamente alto, questo infatti è la sapienza: l’arte del buon vivere, la via per diventare uomini veri. Ma allora perché Dante pone Ulisse all’inferno?
Cosa ci sarà mai di diabolico nel voler essere uomini migliori? Perché vivere inseguendo la virtù e la conoscenza dovrebbe precipitarci all’inferno? Virtù e conoscenza sono gli ideali dell’uomo antico, dei migliori tra i filosofi greci e romani: Platone e Seneca, Aristotele e Cicerone. Sono i pilastri su cui è edificata la nostra stessa concezione di civiltà e storia, l’ideale di ogni uomo ragionevole, l’architrave di ogni sapienza umana.
Almeno finché non arriva Gesù.
L’arrivo di Gesù spariglia completamente le carte e presenta al mondo un ideale di uomo totalmente diverso. Il primo ad accorgersene è stato S. Agostino, che in una sua opera emette una sentenza folgorante: “Le virtù dei pagani sono splendidi vizi”, l’uomo perfetto infatti, il vero saggio, non è né il giusto né il sapiente, ma piuttosto il discepolo, colui che umilmente mette da parte se stesso e la propria pretesa virtù per disporsi ad accogliere una verità che non può scoprire da solo, perché gli viene rivelata.
“Se sarete miei discepoli – dice il Signore – conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, come a dire che non troviamo la verità al termine di una ricerca personale, in fondo a un complesso e tormentato ragionamento, ma diventando discepoli, cioè nell’esperienza dell’incontro con un tu vivente. La vera conoscenza non è quella intellettuale, ma quella della vita, non nasce dalla lettura di molti libri, ma dalla frequentazione amorosa. Potrei leggere migliaia di pagine che descrivano un uomo, ma non ne saprei mai di più di quanto non possa scoprire con una bella chiacchierata davanti al caminetto, magari con un bicchiere di porto in mano.
E perché la verità, quella con la V maiuscola, si trova nell’incontro con Cristo? Perché Lui è il perché di ogni cosa, il centro del mondo, l’origine e il fine di tutto, il prototipo sul quale ogni uomo è misurato, l’ideale a cui tutti noi tendiamo. Nessuno sa niente sull’uomo se prescinde da Gesù; se lo togliamo dall’equazione umana essa diventa incomprensibile. Prescindendo da Gesù non sei più in grado di dire nulla sull’inizio e sul fine della tua vita, che quindi affonda nella nebbia a parte il piccolissimo tratto che ne puoi vedere ora.
E che dire della virtù? Per i filosofi pagani la rettitudine, il giusto vivere, erano un ideale altissimo, la guida delle scelte e delle decisioni quotidiane. Essere giusto è ciò che più di tutto desidera l’uomo antico, ma non è ciò che più di tutto desidera il Cristiano. Se la verità non è un’ideale astratto, ma una persona, allora la virtù non consisterà più nell’adeguarsi ad una regola, ma nel seguire una persona. Virtù non è conformarsi a un ideale, ma imitare il modello unico, cosa che è impossibile alle nostre forze, ma è resa possibile solo da un grande amore, ed ecco allora che alla fine dei conti la sola e vera virtù è l’amore.
Riassumendo: la sola e vera conoscenza è la conoscenza di Cristo, la sola e vera virtù è l’amore donato da Lui. Si capisce allora la sentenza di Agostino, si capisce perché Ulisse è all’inferno, perché chi senza Cristo vuole rivestirsi di virtù finisce solo con il cadere in un peccato ben più grave: nell’orgoglio di presumere di bastare a se stesso, di potersi salvare con le proprie forze.
Dopo questa introduzione, un po’ lunga per la verità, siamo in grado di capire la frase di Paolo: «Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo». Paolo rivolgendosi ai Corinzi, che da bravi Greci erano affascinati dalla cultura e dal sapere, spiega loro che noi cristiani non siamo né ignoranti né sentimentaloni, esiste senza dubbio una sapienza cristiana, ma essa è del tutto differente da quella dei filosofi, perché «la scienza gonfia, mentre la carità edifica». Intendiamoci, non sto dicendo una sola parola contro lo studio, chi scrive è uno che studia notte e giorno, ma ho anche imparato che se lo studio non nasce dall’amore e non termina nella vita non fa crescere l’uomo interiore ed anzi lo gonfia di orgoglio. Si tratta allora di comprendere cosa è questa sapienza donata dall’alto, fondata su quelle cose che «occhio non vide né orecchio mai udì».
Nel Vangelo di Giovanni Gesù è molto chiaro: «Se uno non nasce dall’alto non può vedere il Regno di Dio». Significa che all’inizio della sapienza c’è una rinascita, un battesimo, e poiché non ci può essere alcuna rinascita dove prima non ci sia stata una morte significa che per conoscere questa sapienza dall’alto bisogna prima morire. Morire innanzitutto alla presunzione di sapere, alla falsa ideologia che ci induce a credere che tutto sia spiegabile in termini logico-matematici, che tutto il mondo sia riconducibile alla materia, al qui-e-ora. L’inizio della sapienza sta nella consapevolezza del mistero.
Ma allora cosa dobbiamo dire, che tutta la sapienza del mondo è falsa? I grandi filosofi pagani, i grandi artisti che il mondo ha conosciuto, molti dei quali hanno anche combattuto contro la Chiesa, hanno detto solo sciocchezze? Sarebbe in realtà da stolti pensare una cosa del genere e non è mai stato questo il pensiero della Chiesa, che anzi ha sempre dato un grande valore alla cultura, tanto che nei monasteri medioevali venivano copiati e salvati con pari premura i manoscritti degli scrittori ecclesiastici come quelli dei pagani, ma poiché il centro del cosmo e della storia è Gesù, poiché il mistero pasquale è la ragione ultima di ogni cosa, allora Gesù è la fonte e il culmine di tutta la scienza umana, e tutta la sapienza di questo mondo trova in lui la sua misura e la sua giustificazione. In altre parole è vero e sapiente tutto ciò che ci conduce a Cristo, a prescindere da quelle che furono le intenzioni di chi lo ha detto, è falso ed inutile tutto ciò che ci allontana da lui. Poiché la verità di Cristo è scritta anche nel cuore dell’uomo può accadere che certuni «andando come a tentoni» ne abbiano intuito alcuni frammenti, ed a volte, poiché li hanno visti con una prospettiva assai diversa da quella di noi credenti, intuendo alcune cose in un modo che possa rivelarci aspetti nuovi di quella verità che a noi è stata donata da sempre. Non è quindi inutile setacciare la sapienza del mondo per trattenere le pagliuzze d’oro nascoste nel fango, purché il setaccio con cui compiamo questa operazione sia il vangelo stesso.
Ma c’è una realtà che resta del tutto inaccessibile allo spirito umano, perché è segnato dal peccato originale, ed è la realtà dell’amore. L’uomo trova scritta in se stesso la legge della carne, che dice “salva te stesso”, e così tutta la sapienza umana è costruita a partire da questo assioma: “mors tua vita mea”. Tutta la cultura umana sta sotto questa legge: cosa altro è il darwinismo se non l’applicazione alla biologia di questo principio? E la teoria della lotta di classe, fondamento del marxismo, non è forse un altro modo di esprimere questo concetto? E che dire delle più recenti teorie economiche e politiche? Non c’è modo per l’uomo di sfuggire a questo principio, la legge dello spirito però è diametralmente contraria. Nell’esperienza della rinascita, dopo aver conosciuto il suo salvatore, l’uomo scopre un’altra legge, la legge dello Spirito che dice invece: “dona te stesso”, che rovescia il detto latino. L’uomo spirituale infatti è l’uomo a cui non importa di morire, purché altri vivano.
Per questo «l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle». Allora possiamo definire cultura cristiana tutta quella che sta sotto questo principio, quel “dona te stesso” che è il principio dell’amore. Un grande scrittore che ha cercato Gesù per tutta la vita senza mai arrivare a trovarlo, J.L. Borges, ha detto che in tutta la storia della letteratura si trovano solo due eroi: Ulisse e Gesù, l’uomo che cerca se stesso e la propria perfezione e l’uomo che si sacrifica per la salvezza degli altri. Allora adesso comprendiamo perché Dante mette Ulisse all’inferno, perché la sua ricerca di sapienza è il prototipo della ricerca senza Dio, mossa non dall’amore, ma dalla volontà di affermarsi. A noi il compito di cercare una vera sapienza, espressa «con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali.» Una sapienza cioè che nasce dall’amore e termina nell’amore, dove il paradigma e il modello dell’amore è il Signore Gesù, amore incarnato, amore morto e risorto per noi.
Don Fabio Bartoli
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