Schiavi di un desiderio realizzabile

Le festività natalizie, devastate dall'offerta maniacale di gadget, evidenziano l'infelicità che si crea quando viene bruciata la distanza tra il desiderio e il suo appagamento. L'euforia del consumo può distrarre dalla depressione. Ma la psicoanalisi insegna che la passione del volere non si esaurisce nel consumo di nessun oggetto: perché l'oggetto del desiderio è, come tale, da sempre perduto. In luogo della mancanza subentra allora un senso di soffocamento, l'ottundimento del pensiero il ripiegamento su di sé che taglia via la dimensione sociale della relazione con l'altro. E il godimento diventa routine.

Schiavi di un desiderio realizzabile

da Quaderni Cannibali

del 01 gennaio 2002

La festività contemporanea ha smarrito la dimensione del legame. Si tratta piuttosto di un'anestesia collettiva, o se si preferisce, di un'anestesia della collettività sociale. Il Natale appare sulla scena contemporanea come scorporato dal mito e integralmente sottomesso al laser del disincanto. Il cosiddetto «clima natalizio» si configura come un rimedio maniacale alla depressione diffusa: non sono i simboli a dominare la scena ma la girandola immaginaria degli oggetti. Non è il simbolo che uccide la Cosa, come diceva Hegel, ma è la Cosa che uccide il simbolo. La festività contemporanea esalta la Cosa contro il simbolo. Così nel Natale occidentale il mistero della natività è totalmente rimosso; la festa arriva come un vortice di consumi di cui si è smarrita la matrice. Mi viene alla mente, come in un contrappunto della memoria, quando, nei lunghissimi pomeriggi estivi della mia infanzia trascorsi nella campagna lombarda, mi capitava spesso di provare ad ammazzare il tempo osservando il pollaio di mio nonno. Il pollaio, come sapete, è un piccolo universo perpetuamente in agitazione. Circolava allora una canzone sulle galline che riteneva non fossero «animali intelligenti». Guardavo dunque il pollaio cercando di scoprire il mistero. D'un tratto un'illuminazione: «ecco, pensai, le galline non sono animali intelligenti perché passano tutto il loro tempo a mangiare!». In fondo, l'idea era che il riempimento compulsivo del vuoto ottundesse il pensiero. Dal divano analitico una paziente mi raccontò la spinta irresistibile che provava ad entrare nei negozi di abbigliamento e ad acquistare abiti preziosi sapendo già, al momento dell'acquisto, che non li avrebbe mai indossati. Per chi erano? si domandò una volta. In realtà, si rispose, «per niente e per per nessuno». Questa donna alternava la compulsione a spendere con la compulsione bulimica a mangiare. Il tempo dell'acquisto e quello dell'abbuffata erano un tempo inebriante. «Senza pensieri e senza sofferenza» - diceva. Ma era un tempo «felice» che si consumava integralmente nell'istante stesso in cui avveniva l'appropriazione dell'oggetto. In quell'istante un'apatia estatica l'avvolgeva e la separava da tutto. Poi veniva sommersa da un sentimento di vuoto che la faceva sentire come inesistente. Quello che colpiva, in questo caso, era come l'effetto-Nirvana, ovvero la desensibilizzazione, l'assenza di pensieri e di sofferenza, lo spegnimento dell'inquietudine, insomma il suo essere finalmente in pace, venisse raggiunto da questa donna non attraverso la via autenticamente mistica della separazione dall'oggetto, della riduzione ascetica dell'attaccamento all'oggetto ma, proprio al contrario, attraverso la sua divorazione illimitata. In questa vignetta clinica quel che appare in primo piano è la nuova dimensione del Nirvana contemporaneo che la psicoanalisi ha modo di incontrare sempre più frequentemente. Il desiderio deve essere disattivato perché fonte di disagio, perché perturbatore del confort ordinario legato a un godimento reso disponibile illimitatamente e sempre più sganciato dall'incontro con l'altro sesso. La festività contemporanea si presta bene ad illustrare questa condizione autistica, chiusa su se stessa, del godimento dell'oggetto. La socialità non trova alcuna iscrizione autentica. Piuttosto, incontriamo l'agitazione frenetica della domanda che, simile a quella dei polli, si sviluppa per convulsioni continue. Domanda vincolata all'oggetto che può rendere maniacalmente felici, ma senza dare alcuno spazio al desiderio. E' una felicità dello stesso tipo di quella che possiamo incontrare nelle anoressiche, dove l'estinzione e lo spegnimento nirvanico del desiderio non è affatto finalizzato a raggiungere l'emancipazione spirituale dell'anima dal «carcere del corpo»: esattamente al contrario, fa esistere il corpo-magro come icona di un assoluto che si realizza attraverso l'estetica mortifera dello scheletro e che celebra il trionfo mondano dell'immagine. L'esperienza della perdita d'avere, della rinuncia, del sacrificio del piacere, la privazione e la mortificazione ascetica del corpo anoressico, non danno infatti mai luogo ad una dialettica con l'Altro autenticamente mistica. Il valore aggiunto che l'anoressica introduce nel suo essere, attraverso la sua folle ascesi, non avvicina a Dio, non apre al mistero dell'alterità dell'altro, ma abita mondanamente il corpo stesso in quanto realizzazione di un ideale sociale.

In questo senso, il Nirvana contemporaneo è uno pseduomisticismo poiché ciò che innanzitutto conta è la nuova religione della cura del corpo. Il corpo-magro dell'anoressica o il corpo-in-forma della cultura newage realizzano un culto narcisistico del corpo che lo allontana sempre più dallo scambio con l'altro. Si tratta in realtà non solo di fenomeni psicopatologici ma di una nuova definizione del legame sociale: l'altro viene disabitato e al suo posto troneggia la potenza immaginaria e reale dell'oggetto-gadget. Allo stesso modo, il nuovo rapporto che il tossicomane intrattiene con la droga mostra come l'assunzione delle sostanze non porti più con sé alcuna motivazione euristica (com'era per esempio nella stagione storica della «beat generation» e nel mito della droga come «viaggio»), né alcuna ribellione di fronte all'ordine costituito (il tossicomane come scarto, rifiuto, emarginato sociale). Al contrario, quel che si realizza è l'idea, totalmente adeguata al programma della civiltà contemporanea, di raggiungere nel modo più rapido possibile un godimento asessuato - reso possibile dall'industria chimica - che deve però essere preservato: come sotto controllo. E' l'idea della droga al servizio dell'Io che ritroviamo, per esempio, in molti cocainomani: il consumo della droga non separa dal mondo ma permette di essere nel mondo in modo più efficace, potenziando le prestazioni del soggetto. Il consumo contemporaneo della droga non vuole infatti produrre una rottura con la civiltà, ma raggiungere una integrazione adeguata e ordinaria. E' la droga come protesi dell'Io o come strumento di godimento da week-end. La pseudosocialità che essa rende possibile è però animata da una parola vuota, isterilita e da un'assenza fondamentale di emozioni. La droga serve - mi diceva un paziente cocainomane - come «benzina del corpo», in un orizzonte dove però l'altro sembra semplicemente non esistere più. La festività - sciolta da ogni rituale simbolico - diventa, come indicava Danilo Cargnello, in uno studio ormai divenuto classico, il tratto di una maniacalità «verbo-mimico-motoria», che è una difesa patologica di fronte al vuoto esistenziale.

L'universo del Nirvana contemporaneo inaugura effettivamente una nuova economia psichica nella quale - diversamente dall'economia che caratterizzava le nevrosi classiche - non è più la rimozione del desiderio inconscio ad essere protagonista ma una sorta di cortocircuito, privo di mediazioni simboliche, con l'oggetto. L'oggetto, in altre parole, non è, come invece insegna la psicoanalisi, perduto; piuttosto deve poter essere costantemente ritrovato. Si tratta di una nuova economia che sembra offrire un trattamento all'infelicità via oggetto (droga, feticizzazione dell'immagine del corpo, salutismo newage, psicofarmaco, realtà virtuali, cibo, gadget). In termini più tecnici, questo significa proporre lo stile della perversione (il perverso è colui che sa come godere dell'oggetto) come cura efficace di fronte al disagio che strutturalmente abita il desiderio. E' la grande illusione intrinseca al discorso del capitalista: l'euforia del consumo può distrarre dalla depressione. Ma la psicoanalisi insegna che la passione del desiderio non si esaurisce nel consumo di nessun oggetto perché l'oggetto del desiderio è, come tale, da sempre perduto. L'economia psichica che ne deriva fa perno non tanto sul rapporto col pieno offerto dall'oggetto, ma sul vuoto come condizione di possibilità del desiderio. Freud e Lacan hanno spesso insistito su questo paradosso del desiderio: gli esseri umani vivono costantemente l'esperienza dello scarto tra l'oggetto desiderato e l'oggetto effettivamente incontrato, nel senso che raggiungere l'oggetto porta con sé, inevitabilmente, un suo impoverimento, una sua disidealizzazione.

Una giovane donna, anch'essa con un sintomo di compulsione a spendere, verificava ogni volta la differenza insolubile tra lo splendore dell'abito esposto in vetrina e quello che avrebbe poi indossato. In questo caso, la compulsione ad acquistare sempre nuovi capi era finalizzata al desiderio impossibile di ricucire questa sfasatura operando una moltiplicazione infinita degli oggetti. Nondimeno, la distanza tra l'abito della vetrina e l'abito indossato restava sempre uguale a se stessa. La manovra di questa donna può essere ben compresa attraverso l'isteria classica: preservare il proprio desiderio come continuamente insoddisfatto è la condizione per poter continuare a desiderare. Siamo qui agli antipodi del Nirvana contemporaneo che invece punta ad estinguere il desiderio tout court in nome del godimento. Se, dunque, il desiderio per esistere implica il mantenimento di una certa distanza dall'oggetto, il problema che caratterizza la civiltà contemporanea riguarda proprio la cancellazione di questa distanza, dunque, di conseguenza, del desiderio inconscio come tale. Quando noi psicoanalisti parliamo di «nuove forme del sintomo» (H. Freda, Psicoanalisi e tossicomania, Bruno Mondadori, 2001), di «nuove malattie dell'anima» (J. Kristeva, Le nuove malattie dell'anima, Borla, 1998), di «clinica del vuoto» (M. Recalcati, La clinica del vuoto: anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, 2002) ci riferiamo essenzialmente agli effetti psicopatologici di questo cortocircuito «perverso» con l'oggetto. La radice ultima di questo cortocircuito, dunque dello smarrimento della distanza dall'oggetto, riguarda la crisi di colui che l'ha storicamente garantita: ovvero, seguendo Lacan, il grande Altro, l'Altro simbolico che interdice l'incesto (dunque il consumo diretto dell'oggetto del godimento) obbligando il desiderio ad un giro più lungo. Questo smarrimento della distanza appare senza veli nelle festività natalizie, le più sacre, le più misteriose, ma anche le più devastate dall'offerta maniacale dell'oggetto-gadget.

Ora che il cielo sopra le nostre teste è vuoto, ora che assistiamo alla caduta verticale dell'ideale edipico, della Legge e dei riferimenti ideali del soggetto, ora che il Natale è semplicemente un fenomeno di massa della compulsione ad acquistare, questo vuoto viene riempito solo dal fulgore effimero degli oggetti-gadget. La sofferenza soggettiva non è più in rapporto al conflitto suscitato dal desiderio inconscio con il programma universale della civiltà. Piuttosto, essa incarna una nuova economia psichica caratterizzata proprio dalla soppressione del desiderio. Ciò che si manifesta come sintomo non è più in relazione al dramma del desiderio nei suoi rapporti conflittuali con l'interdizione, con la legge, perché il tramonto del grande Altro e della funzione simbolica del Padre ha dissolto l'orizzonte stesso del limite che la Legge ha il compito di sostenere. Non c'è infatti più alcun limite a modulare il nostro rapporto col godimento. Clinicamente questo comporta un certo declino dei sintomi nevrotici (che sono come tali manifestazioni del desiderio e della sua rimozione) e la diffusione di nuovi sintomi, che si caratterizzano per essere non più rivelatori di una conflittualità, bensì pure pratiche di godimento pulsionale. E' l'esempio paradigmatico offerto dalle dipendenze cosiddette patologiche (tossicomanie, bulimie, obesità, abuso giovanile di alcool, ecc), che promuovono una schiavitù inedita: perchè non è più una schiavitù in rapporto col peso del sacrificio e della rinuncia, con l'interdizione del padre-padrone, con la gerarchia della legge o dell'ideale normativo, ma stabilisce invece una relazione con la potenza immaginaria e reale intrinseca all'oggetto. La schiavitù contemporanea non risponde più all'imperativo del sacrificio, come accadeva al cammello nicciano obbligato a portare il peso alienante del «Devi!», ma ad un nuovo imperativo, quello orientato dall'esigenza di godere («Godi!»). In questo senso l'oggetto non appare più sullo sfondo di un vuoto, di una castrazione soggettiva, ovvero all'interno dei limiti imposti dalla legge edipica, ma si esibisce nella sua assoluta sovranità. La spinta all'esibizione è in effetti un altro tratto caratteristico dei nuovi sintomi e riguarda non solo la dimensione del corpo (come avviene nelle anoressie) ma anche quella della parola.

La falsa padronanza dell'oggetto che anima la nuova economia psichica si esibisce, anche, in modo osceno nell'obesità che è diventata negli ultimi decenni una vera e propria piaga collettivadelle società a capitalismo avanzato. L'eclissi dell'interdizione genera infatti una prossimità assoluta del soggetto con l'oggetto del godimento. La mancanza come radice del desiderio si trasforma nel vuoto di un contenitore che esige solamente di essere riempito. E' di questa trasformazione - della mancanza a vuoto anatomico - che offre la prova l'obesità patologica. Nondimeno, la grande astuzia del discorso del capitalista consiste, da un lato, nell'alimentare l'illusione che il consumo dell'oggetto possa realizzare un godimento senza limiti e, dunque, un'otturazione del vuoto, ma dall'altro, nel rinnovare in modo continuo questa stessa domanda di consumo attraverso la creazione di sempre nuove pseudomancanze. L'obesità generalizzata della civiltà contemporanea mostra precisamente l'effetto asfissiante che l'oggetto troppo prossimo può provocare nei confronti del desiderio. Il senso di angoscia che spesso accompagna certe forme gravi di obesità scaturisce non tanto dalla mancanza o dalla perdita dell'oggetto - come sosteneva Freud - ma dalla percezione di essere intrappolato, di non poter separarsi da un troppo pieno invasivo, dunque dalla mancanza non dell'oggetto ma dalla mancanza tout court : l'angoscia viene, in altre parole, dal percepire la mancanza della mancanza. Quando la mancanza viene meno c'è soffocamento, asfissia del desiderio, ottundimento del pensiero, godimento come routine. Perché vi sia creazione e necessario preservare un vuoto centrale. L'edificazione di Venezia è costruita sul vuoto, è una organizzazione del vuoto. Per accendere un fuoco è necessario che i ceppi di legno preservino un vuoto centrale, come mi spiegava, quand' ero bambino, il Manuale delle giovani marmotte. Peccato che le marmotte non possano parlare alle galline del pollaio di mio nonno, pensavo.

Massimo Recalcati

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