Prendete un bravo docente, appassionato e competente. Aggiungete un forte ascendente verso i suoi allievi. Poi metteteci una buona dose di schizofrenia e problemi affettivi...
Prendete un bravo docente, appassionato e competente. Aggiungete un forte ascendente verso i suoi allievi. Poi metteteci una buona dose di schizofrenia e problemi affettivi. Condite il tutto con la dipendenza patologica dal sesso e avrete ottenuto un professore che nessuno di voi vorrebbe per le proprie figlie.
Vi sembrerà fantasia ma non è così, se ricordate la cronaca dell’ultimo scorcio della scorsa estate.
Premetto subito che non è del caso Saluzzo né del professor Valter Giordano che vorrei parlare; tuttavia penso che un fatto di cronaca così forte possa aiutarci a riflettere sul quarto punto di quel “decalogo” dell’educatore che stiamo analizzando da alcuni mesi.
Che la crisi educativa dei nostri tempi sia dovuta soprattutto all’assenza degli adulti é un fatto difficile da contestare. Che la figura adulta di cui si sente la mancanza maggiore sia quella paterna é un dato altrettanto evidente. Che ne facciano le spese i ragazzi, purtroppo, è la conseguenza più drammatica e dolorosa.
E i fatti di Saluzzo lo dimostrano ancora una volta. Sarà pure un bravo docente, ma come educatore il professor Giordano ha fallito, perché non ha saputo mettere tra se stesso e i suoi studenti quella giusta distanza che ogni adulto deve porre se vuole rendere efficace la sua azione educativa.
“Ero sola, mi mancava una figura paterna“, sembra aver dichiarato ai magistrati una delle ragazze coinvolte nel rapporto con il professore. Peccato che quest’ultimo, della studentessa non era il padre ma il docente di lettere, cioè una persona che attraverso il suo lavoro professionale dovrebbe aiutare i ragazzi a diventare adulti, rafforzare la personalità, imparare a vivere in una società sapendone rispettare le regole di civile convivenza, alimentare la speranza nel futuro. Non a rubarglielo portandoseli a letto.
È vero che qui ci troviamo di fronte a un fatto che va oltre il fallimento educativo, sconfinando nella dimensione penale e probabilmente anche in quella patologica.
Ma è altrettanto vero che, senza arrivare a tanto, molti educatori falliscono proprio perché sono incapaci di vivere correttamente il loro ruolo nei confronti dei ragazzi. A volte si tratta di genitori che fanno gli amici dei figli perché temono di perdere la loro stima. Altre volte sono docenti che fanno i simpatici per entrare meglio nelle grazie dei loro studenti. In ogni caso, sempre saranno adulti che non sanno fare gli adulti.
Non è questione di essere autoritari. Semmai è il problema inverso: ci troviamo davanti a adulti che, sprovvisti di autorevolezza, cercano di ottenere il consenso comportandosi come i ragazzi.
Per questo il quarto “comandamento” dell’educatore recita in questo modo: “Mostrati amico, rimanendo educatore. Che non è metterti allo stesso livello ma svelare di te solo ciò che fa bene a quella persona.”
Mostrati amico, ma fallo restando educatore. Come? Non mettendoti allo stesso livello dei ragazzi, perchè tu cadresti nel ridicolo ed essi non capirebbero qual è il tuo ruolo nei loro confronti.
Certo, il clima fortemente affettivo in cui oggi crescono i ragazzi – che ha anche i suoi aspetti positivi – non aiuta il compito degli educatori. E questo per due motivi. Da un lato c’è una confusione su alcuni concetti di fondo che riguardano ogni azione educativa: l’autorità viene spesso scambiata per autoritarismo e rigidità; la libertà viene intesa come anarchia e assenza di vincoli; le regole sono viste come limiti piuttosto che come un aiuto che favorisce la convivenza.
Dall’altro lato le relazione si sono fortemente “emozionalizzate”, e qui uso un termine forse poco scientifico ma che ritengo piuttosto chiaro ed esplicito. Il rapporto con l’altro deve cioè essere innanzitutto gratificante, emozionante, appagante: tutte cose positive, per carità, ma insufficienti a garantirne la durata, la stabilità, la genuinità. E, nel caso di un rapporto educativo, che è necessariamente asimmetrico, la componente affettiva da sola non basta a garantire la giusta specificità dei ruoli di chi ne è coinvolto: ecco allora che il genitore fa l’amico vestendosi o parlando come il figlio, oppure il prof racconta la sua vita privata agli studenti, esce con loro o li invita a cena a casa sua.
Ma c’è ancora un aspetto da considerare. La fragilità affettiva che spesso oggi accompagna gli adolescenti, facilita l’ingresso nella loro intimità da parte di adulti particolarmente “carismatici”. Questo fatto, di per sè positivo, e che può favorire l’instaurarsi di un bellissimo rapporto educativo tra adulti e ragazzi, si presta però al rischio di abuso quando la relazione educativa smette di essere una relazione che aiuta a crescere per diventare una dipendenza. Esattamente come è avvenuto nel caso del professore di Saluzzo e delle sue studentesse. Ed esattamente come succede a una madre che cede per la paura di perdere l’amicizia del figlio capriccioso, o ad un padre incapace di dire di no per non provocare un dispiacere alla figlia che veste “ormai come una donna grande“. Queste dipendenze sviliscono la relazione educativa generando non poche difficoltà soprattutto ai ragazzi che, non lo dimentichiamo, ci guardano aspettandosi spesso inconsapevolmente che noi ci comportiamo da adulti.
Un giorno, dopo aver ascoltato lo sfogo di un quindicenne che mi raccontava dell’orario di rientro serale a suo dire troppo rigido e “da vecchi” – che figura avrebbe fatto con i suoi amici che ancora potevano permettersi di stare in giro mentre lui doveva tornare a casa? – gli feci una domanda che non si aspettava.
“Senti, ma se tua madre non ti dicesse mai nulla, vedendoti rientrare a qualsiasi ora della notte, tu saresti veramente soddisfatto?”
Stava per dirmi di sì, quando si fermò per un istante e, un po’ a denti stretti, mi rispose: “No, così non mi piacerebbe neanche, perchè vorrebbe dire che di me non gliene importa niente…”.
I ragazzi si aspettano che mettiamo loro regole e paletti, anche se poi li contestano.
Si attendono che facciamo gli adulti e non gli “amici del cuore”. Come quella volta in cui, durante un incontro sull’adolescenza, una mamma mi disse con soddisfazione che sua figlia le raccontava tutto, ma proprio tutto. “Quanti anni ha sua figlia?”, le chiesi incuriosito. Mi rispose che aveva sedici anni. Probabilmente le cose erano due: o lei non aveva capito nulla della figlia, oppure la figlia aveva qualche problema a comprendere – e quindi a custodire – la propria intimità.
Essere amico, per un educatore, vuol dire allora sforzarsi di essere se stesso e non la propria caricatura. Saper dire di no per il bene dei ragazzi, senza per questo allontanarsi da loro. Aprire la propria intimità – nel senso di interiorità – solo se è necessario e solo nella misura in cui è utile ai ragazzi.
E soprattutto un educatore deve ricordare che l’amicizia è un rapporto caratterizzato dalla reciprocità. Sono amiche due persone hanno interessi in comune, vivono difficoltà simili, condividono le stesse ambizioni e gli stessi sogni, parlano lo stesso linguaggio. In una relazione tra un educatore e un ragazzo, di solito, tutto ciò manca. Potranno esserci fiducia, stima, affetto, che sono anch’esse caratteristiche dell’amicizia ma che non ne esauriscono il significato. Anche perché accanto a queste ci dovranno essere per forza l’esigenza, la spinta a superarsi, la fermezza nelle decisioni, a volte anche il distacco emotivo. Elementi senza i quali potremo anche illuderci di fare gli amici, ma nei fatti rimarrà solo una caricatura dell’amicizia. E, soprattutto, non chiamiamola educazione.
Saverio Sgroi
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