Quando leggo: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura» non si può non riconoscere che quell'autore, di secoli e secoli fa, esprime il nostro stesso sconcerto quando non capiamo perché siamo al mondo, a che cosa serve il tempo e per cosa sono fatte le cose.
Mentre a Firenze, al festival del quotidiano Repubblica, arriva Dan Brown, noi vi proponiamo la lettura di un’intervista apparsa sul quotidiano Italia Oggi. Si tratta di un dialogo con un professore di lettere e preside di una scuola bergamasca, Franco Nembrini. Nembrini, certamente non potrà vantare le vendite in libreria dell’autore americano, né sarà forse mai salutato dal sindaco Matteo Renzi con un tweet, né Tom Hanks farà forse mai un film a partire dai suoi scritti, tuttavia quel che ha da dire e raccontare su Dante Alighieri è mille volte più interessante delle scombiccherate ricostruzioni infernali dell’autore statunitense. E quando va a parlare in una scuola o in un qualche teatro, ad ascoltarlo ci sono sempre giovani che ne escono entusiasti e «con una proposta e un itinerario». Che non si esaurisce con una lettura estiva sotto l’ombrellone.
Ecco di seguito l’intervista.
Professore che ha da dire Dante all’Italia e agli italiani di oggi?
Mi viene da dire che ha molto di più da dire adesso che al suo tempo?
E perché?
Era un tempo profondamente cristiano. Un tempo che esprimeva una sensibilità diffusa e condivisa, seppure a livelli diversi, e che si traduceva in una cultura oggi dimenticata, lasciata alle spalle, a volte combattuta. Dante però, molti secoli dopo, è una proposta e un itinerario, un viaggio che l’uomo può fare nella profondità di se stesso.
Appunto, ma lei oggi insegna o va in giro a spiegare un Dante cristiano a ragazzi che cristiani non sono più.
Tanto più sono lontani da Dante e il suo tempo, tanto più ne sono stupiti, glielo garantisco. A cominciare dai primi canti. Quando leggo loro: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura» non si può non riconoscere che quell’autore, di secoli e secoli fa, esprime il nostro stesso sconcerto quando non capiamo perché siamo al mondo, a che cosa serve il tempo e per cosa sono fatte le cose.
E come lo spiega a un sedicenne della profonda Bergamasca o a un ragazzino delle periferie romane?
È semplice, gli chiedo se ciò che è così magistralmente descritto non sia lo stesso sentimento che li assale, la domenica sera, quando, per dirla con Leopardi, la festa ha tradito le promesse del sabato, o quando devono dire «mi sono innamorato», a una ragazza, senza vergognarsi, o spiegare a un amico che è tale. La «selva oscura», lo smarrimento, è un’esperienza del nostro quotidiano.
E Dante cosa dice?
Che ogni uomo, anche oggi, può vivere all’altezza del proprio desiderio. Anzi lo può vedere compiersi, e che le scorciatoie hanno tentato pure lui, ma poi ha seguito Virgilio che gli dice: «A te convien tenere un altro viaggio».
Professore ma questa è appunto una visione religiosa della vita.
Quella di Dante, appunto. Il punto è che chi propone questo poeta e questo poema
…si immedesimi, dice?
Esattamente, altrimenti scatta il meccanismo opposto, i ragazzi fuggono. E poi i nostri colleghi dicono che nell’era di Internet, non è più possibile spiegare Cacciaguida o il Conte Ugolino. Bestialità.
E quindi chi ha studiato Dante sui tomi di Natalino Sapegno, che era un laico, avrà fatto fatica…
Certamente, avrà trovato la Divina Commedia insopportabile, ma sa, Sapegno è quello che parlò delle «ubbie giovanili» del Leopoardi, lasciamo perdere. Le garantisco che, oggi, quelle terzine parlano al cuore di ogni uomo, anche non religioso, non educato a niente. Le faccio un esempio.
Prego.
Sono stato di recente in Ucraina, a Kharkov, dove un professore di filosofia mi ha inviato a tenere una lezione ai suoi allievi in università.
In italiano?
Certo, c’era un interprete. Ed erano persone ineducate al cristianesimo, tanto che ho dovuto spiegare cosa fossero Inferno, Purgatorio, Paradiso. Lì ho conosciuto un giovane, malato, affetto da nanismo, storia triste: ha vissuto in internati per anni. Prima dell’incontro, mi aveva detto, pensi un po’, di essere nato alla bellezza quando era divento cieco, perché nell’istituto dove l’avevano spostato era un continuo suonare bellissima musica.
Terribile, ma Dante?
La lezione era intitolata «Dante e le stelle», e ho spiegato che in certe cantiche, la parola stella indica la possibilità che le nostre domande di uomini abbiano nesso con il Cielo appunto, con l’Infinito. Salutandomi quel ragazzo, piangente, alla mia domanda su di cosa potesse aver bisogno, mi ha risposto: «Dopo aver scoperto Dante, l’unica cosa che mi manca è rivedere le stelle». Le garantisco: quel poema parla al cuore dell’uomo di oggi, di ogni uomo.
Torno sul punto. È una lettura cristiana, non glielo hanno mai contestato?
Si figuri. Mi è capitato perfino, in alcuni collegi dei docenti, che esimi colleghi mi abbiano rimproverato di dare «una lettura eccessivamente religiosa della Divina commedia». E dicevamo proprio così «divina», senza trovarlo incongruente rispetto all’obiezione. Come se quell’aggettivo, che dette Boccaccio, fosse lì per caso.
E lei che rispondeva?
Che non era colpa mia se Dante era cristiano. Ma è chiaro che chi abbia una sensibilità religiosa è facilitato, l’immedesimazione richiesta è più facile. Però guardi che grandi laici si sono convertiti grazie a Dante, penso a Charles Singleton, che lasciò la casa, l’America, per venire a Firenze. Altri laici ne hanno assunto il patrimonio, senza contestare niente. Penso alla scrivania dedicata all’Alighieri che Giovanni Pascoli teneva, insieme a quella sulla letteratura latina e all’altra di letteratura italiana. Penso a Eugenio Montale, laicissimo, che diceva: «In fondo, dopo Dante, non è stato scritto niente altro di significativo».
Dunque anche degli spiriti laici possono.
Certo, se lo fanno con lealtà, con una domanda seria sulle grandi questioni della vita, se sono insomma, in questo senso, autenticamente religiosi, cioè aperti.
Torniamo all’oggi e alla scuola. Ma il fenomeno Benigni, che ha fatto tornare il sommo poeta di moda, non ha aiutato una riscoperta?
Benigni ha un merito storico, gli darei il Nobel per la letteratura, che magari è stato dato ad altri con manica larga. Lui ha disseppellito Dante, lo ha sottratto, lo ha liberato dal chiuso delle accademie, cenacoli di intellettuali, lo ha restituito al popolo come avrebbe voluto lui, Dante. Si immagini che nel 1373 i fiorentini fecero una petizione.
A proposito di cosa?
Chiedevano pubbliche lettura del poema «el dante» attraverso il quale sentivano possibile «di fuggire il vizio e perseguire la virtù» e domandavano «un corso per non grammatici», cioè accessibile a tutti. Detto questo
Detto questo?
Mi sembra che Benigni ed io abbiamo due compiti e due modi diversi. Lui è uno strepitoso recitatore, il mio compito è quello dell’educatore, d’essere attento all’aspetto da cogliere, alla possibilità di un dialogo con una proposta umana, esistenziale, cristiana, che Dante rappresenta
Serve a noi, in mezzo a una crisi profonda, economica ma anche esistenziale, rileggere oggi quelle terzine?
Quel che Dante fa lo fa a questo scopo: «In pro del mondo che mal vive» o, come dice altrove, per «uscire da stato di miseria e condurre a stato di felicità». Fu una crisi vera anche quella che visse il suo tempo e lui indicò una possibilità di salvezza. I suoi erano richiami, sollecitazioni non semplicemente a rimettere in ordine le cose ma a ridargli ordine. Ché le cose «hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa somigliante». Non sottovaluta il mondo, la carne, la vita, ma indica il modo per rendere tutto ciò proficuo, bello, pieno di magnanimità. Non c’è canto che non riconduca questo.
E la politica, professore, può essere utile che si rilegga la Divina Commedia? Ieri il sindaco di Verona, Flavio Tosi, paragonava Umberto Bossi al conte Ugolino. Matteo Renzi, anni fa, scese in strada con gli studenti a leggere le terzine.
Dante continuamente richiama le dimensioni dell’umano che sono la preoccupazione del proprio destino, il problema dell’amare, la propria donna e anche gli altri, cioè il Bene comune. La stessa scansione della Commedia è fatta così: il II, III e IV canto riguardano il destino, il V, con Paolo e Francesca, il problema affettivo ma il VI canto è il primo politico. Sì, certo, i nostri politici ne avrebbero da leggere di cose. Ma così anche i preti e gli insegnanti.
Professore ma oggi, che non si crede più, non le pare tutto un po’ difficile?
È la cosa più affascinante che ci sia. Siamo tornati alle condizioni dei tempi apostolici. L’altro ieri una studentessa di vent’anni ma chiesto il significato della parola «seminarista». A Bergamo, capisce? Cosa c’è di più avvincente di raccontare, con Dante, che cosa è accaduto 2000 anni fa?
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