Un uomo libero, credibile, che parla raccontando fatti e sapienza di vita, semplice e diretto, una persona che sa ascoltare e capire gli altri, che non ha paura di dire quello che pensa, schietto, sincero...
del 14 dicembre 2018
Un uomo libero, credibile, che parla raccontando fatti e sapienza di vita, semplice e diretto, una persona che sa ascoltare e capire gli altri, che non ha paura di dire quello che pensa, schietto, sincero...
Sono passati 50 anni da quando abbiamo conosciuto don Ugo De Censi, precisamente nella primavera del ’69. Uso il plurale perché i miei compagni del liceo “San Tommaso d’Aquino” lo conoscevano già e sotto la loro spinta lo abbiamo voluto come animatore dei nostri esercizi spirituali a Brescia. Lui veniva da Arese (MI), dalla casa speciale per ragazzi speciali, noi da Nave (BS) una casa formativa per salesiani di base (SDB). Ugo era ilare, dalla battuta facile. Un volto indimenticabile: ti guardava intensamente con un occhio solo e un ghigno permanente sulla bocca. Ma quando parlava era convincente e buono. Abbiamo trascorso con lui tre giorni interi e ricordo ancora tutto quello che ci ha detto e fatto. Ci mostrava i suoi montaggi di diapositive che erano riflessioni sulla sua malattia giovanile (La mia croce è qui); sulla sua interpretazione della libertà (Libertà è scegliere); sulla società consumista, che ti svuotava dall’interno. Ma soprattutto ci parlava di una iniziativa giovanile che nasceva da lui in quel tempo, che passerà alla storia come “Operazione Mato Grosso”. Con lui si stava bene, infondeva idealità e confidenza. A noi, freschi di noviziato, ci ha portato l’eco di quella rivoluzione che i giovani avevano in cuore. Molto più tardi compresi la felice coincidenza di quel fermento giovanile che sentivo attorno come un fremito, come una scossa elettrica, come un aroma. In quello stesso tempo infatti un certo Andrea Riccardi e amici si trovavano in Santa Maria a Trestevere per pregare e aiutare i poveri e davano così inizio a quella che sarebbe poi diventata la Comunità di Sant’Egidio. A Bose, nel biellese, Enzo Bianchi inizia una esperienza monastica ecumenica destinata col tempo a diventare fermento di dialogo nelle chiese cristiane. Contemporaneamente Don Giussani a Milano si distingue dall’azione cattolica e fa nascere il movimento giovanile Comunione e liberazione. Non è finito: a Taizè in Francia, Roger Schulz con la sua comunità, realizza il Concilio dei giovani e la risonanza è enorme. Anche Chiara Lubich lancia il movimento Gen (gioventù nuova). Insomma, noi 17enni inconsapevoli vivevamo immersi in un contesto giovanile molto creativo e don Ugo era uno dei “profeti”. “Fatti, non parole” continuava a ripetere, quasi a inchiodarcele nella mente e nel cuore. Ricordo che parlava della sua esperienza con i giovani di Arese e ci narrava la vita di alcuni di quei ragazzi che non c’erano più, come Agostino, trovato morto in montagna, in Val Formazza. La sua preghiera l’ho imparata a memoria e ancora oggi la recito: “Signore, io non so pregare, mai nessuno me l’ha insegnato. Ma Tu esisti? E se esisti, perché non ti fai vedere da me? …”. Da quegli esercizi spirituali uscii con alcune “parole” stampate dentro. Aveva già l’abitudine di sintetizzare il suo pensiero in poche parole. Ricordo che arrivato a casa, presi una camicia grigia e sulla schiena scrissi col pennarello: “Lavorare insieme per gli altri, farsi buoni, morire”. A quei tempi non c’erano le magliette stampate come oggi, ma i giovani scrivevano a mano e usavano i vestiti come bandiera. Per anni quella camicia la mettevo nelle marce per la pace organizzate da “Mani Tese” (Parma, Verona, Firenze e Roma), nelle manifestazioni giovanili, ma soprattutto custodivo nel cuore quelle parole. Mi richiamavano un mare di pensieri ascoltati e assimilati in quegli anni di fermenti e di passioni. Sono state, per così dire, la mia “parola di vita”, il mio lievito.
C’è stato un tempo in cui molti dei miei compagni sono stati influenzati da don Ugo e alcuni avevano imboccato la strada segnata da lui: tutto il loro tempo libero era per la raccolta carta, ferro che vendevano alle fabbriche e il ricavato andava ai poveri. Quello che adesso è la raccolta organizzata, legalizzata degli Enti Locali, era nata spontaneamente tra i giovani della mia generazione ed era libera. Ricordo con immenso piacere il tramestio, tra un’ora e l’altra, in attesa che arrivasse il professore successivo. Avevamo imparato da don Ugo a fare le croci con i chiodi da cavallo. Bastavano due pinze per dare la curvatura ai chiodi e un filo sottile di zinco per avvolgerli; un po’ di destrezza di mano per inserire l’anellino e il cordoncino di cuoio. E la croce da portare sul petto era pronta in 3 minuti. Si lavorava in serie, specializzati, anzi, in catena di montaggio sotto il banco mentre il professore spiegava. Siamo arrivati anche a 100 croci al giorno. Ma in quegli anni la raccolta era l’attività volontaria che più attirava. La raccolta di mele in settembre, la raccolta di patate in luglio. Non esistevano ancora gli extra-comunitari. Si chiamavano “campi di lavoro” che potevano durare una domenica, ma anche venti giorni durante le vacanze. Si arrivava in autostop o mezzi di fortuna. Decine e decine di giovani (ragazzi e ragazze) accampati in qualche modo e con i sacchi a pelo vivevano questa avventura assieme: lavoro, canti, preghiera. Una forma di “oratorio” temporaneo, cangiante, vario, aperto a tutti dove l’unico movente era il lavoro per i poveri. Don Ugo non lo vidi più per anni, però seguivo gli avvenimenti dell’O.M.G. anche perché in ogni città dove andavo incrociavo sempre dei giovani impegnati nel movimento. Dopo molto tempo lo rividi quando dalle Ande, dove oramai risiedeva, tornava periodicamente in Italia e teneva i ritiri spirituali zonali ai giovani. Lo chiamavano Padre Ugo e portava il poncho. Andavo con altri salesiani per le confessioni, ma con questa scusa lo ascoltavo volentieri nei suoi interventi formativi. E sempre la stessa impressione: quella di un uomo libero, credibile, che parla raccontando fatti e sapienza di vita, semplice e diretto, una persona che sa ascoltare e capire gli altri, che non ha paura di dire quello che pensa, schietto, sincero. Una volta dovendo difendere il suo operato presso le autorità esordì così: “Tra il dire cose vere ma in astratto o narrare una storia, preferisco raccontare come sono andate le cose” e poi proseguiva andando subito al cuore della questione.
Intanto sono passati in un soffio la bellezza di 50 anni. Io non sono più un giovane salesiano affetto da entusiasmo e neanche un maturo realista un po’ deluso e, soprattutto, don Ugo è ormai un vecchietto ossuto e furbo di 90 anni. Uno zucchetto bianco sempre in testa lo rende un po’ spettacolare. Alle sue spalle una immensità di opere realizzate sulla cordigliera delle Ande tra Perù, Bolivia, Ecuador e Brasile. Ma in quel momento si trovava a Firenze. Ancora una volta le sue parole centellinate, essenziali: marchio di fabbrica. “Vi lascio 4 parole: fare silenzio, fare fatica, fare con arte, saper perdere”. Un discorso-testamento di 30 secondi. La mia vecchia camicia grigia chissà dove è andata a finire! La moda si è impossessata di ogni frase o slogan e quelle parole non le scriverei più su una stoffa perché altri le leggano. Allora ho fatto un post-it e lo attacco al bordo nel mio computer. Sento tanta consonanza con quelle parole che non sono diverse da quelle di cinquant’anni fa.
Don Paolo Baldisserotto
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