L'esperienza di fede è esperienza di bellezza, di un incontro tanto reale quanto indicibile, di una presenza più intima a noi del nostro stesso intimo. Ed è esperienza che investe anche il corpo e i sensi...
del 01 gennaio 2002
Appare problematica, oggi, l’integrazione della dimensione sensoriale nell’esperienza spirituale. Ha ancora senso l’espressione «esperienza di Dio»? O bisogna rassegnarsi alla sua diluizione in una dimensione puramente intellettuale (esperienza di Dio intesa come parlare di o scrivere su Dio) o alla sua riduzione all’attività sociale caritativa e filantropica (esperienza di Dio intesa come relazione altruista) o a fame l’appannaggio del mondo della mistica? L’incontro con Dio avviene sì nella fede e non nella visione, ma si impone a tutto l’uomo, corpo e sensi compresi. Agostino lo proclama: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X, 27,38).
Il testo di Agostino echeggia quella dottrina dei «sensi spirituali» che ha in Origene il suo iniziatore. Scrive l’alessandrino: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo” perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita» (Commento al Cantico II,167,25). Il Dio fattosi uomo ha affermato, una volta per sempre, l’eminente dignità spirituale del corpo. È vero che la dottrina tradizionale dei sensi spirituali si fonda a volte sulla contrapposizione e rottura fra sensi corporei e sensi spirituali, ma in certe sue modulazioni (per esempio in Bonaventura) si percepisce la continuità fra i due livelli di sensi e comunque, al di là delle antropologie – oggi forzatamente impraticabili – che sottostavano alle antiche formulazioni dottrinali, è essenziale recuperare e riformulare l’istanza profonda che esse esprimevano. Il sensus fidei non è un sapere dottrinale, ma è connesso a un vissuto, a una conoscenza «pratica» di Dio che porta ad assumere «il senso delle cose divine», cioè il discernimento. Magistero di questo discernimento è la liturgia eucaristica, dove il mistero celebrato è il mistero della fede: ma la liturgia eucaristica è esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente: ascoltare la Parola di Dio proclamata, vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli, gustare il pane e il vino eucaristici, odorare i profumi, l’incenso, toccare l’altro con l’abbraccio di pace... Nell’incarnazione la rivelazione è entrata nell’uomo attraverso tutti i sensi; nell’economia sacramentale la celebrazione del mistero coinvolge sì tutti i sensi dell’uomo, ma esigendo anche un loro affinamento e una loro trasfigurazione: si tratta di cogliere la realtà «in Cristo». I sensi non sono aboliti, ma ordinati dalla fede, allenati dalla preghiera, innestati in Cristo, trasfigurati dallo Spirito santo: il battezzato può così manifestarsi quale nuova creatura che «”vede” realmente il Figlio di Dio; “ode” e “ascolta” la sua parola; lo “tocca” e si nutre di lui; lo “gusta”; respira la vita nello Spirito santo». Così si esprime l’esegeta Donatien Mollat mostrando l’emergere dei sensi spirituali nel quarto Vangelo. E non si pensi che si tratti di un’esperienza «mistica», inaccessibile ai più. L’«ascolto» della Parola di Dio attraverso la lettura orante delle Scritture porta il credente a «vedere» il volto del Cristo, a «toccare» la sua presenza che gli si impone, a «gustare» la consolazione dello Spirito, a piangere preso da compunzione... È la concretissima esperienza spirituale.
L’esperienza di fede è esperienza di bellezza, di un incontro tanto reale quanto indicibile, di una presenza più intima a noi del nostro stesso intimo. Ed è esperienza che investe anche il corpo e i sensi. In Oriente il santo è l’uomo con il volto luminoso, il cui corpo esala profumo, la cui somaticità è ormai evento di bellezza e di comunione. Certo, guai a confondere lo psicologico e l’emozionale con lo spirituale, ma lo spirituale traversa lo psichico e investe i sensi del corpo. E allora i «sensi spirituali» non sono solo metafore, ma connotano l’esperienza della comunione con il Signore nei vari aspetti in cui si può manifestare all’animo umano: dolcezza, forza, intimità, adesione amorosa, obbedienza, presenza intensa. È la sobria ebrietas; è l’esperienza dell’amore. Quando Agostino afferma che l’occhio vede a partire dal cuore e che solo l’amore è capace di vedere, ci suggerisce che i sensi spirituali sono i sensi permeati dall’esperienza profonda dell’amore di Dio. Amore che purifica, ordina e rende intelligente l’amare umano.
Ma chi oggi sa farsi «iniziatore alla vita spirituale del corpo, in un mondo che confondendo o separando corpo e spirito li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita?» (Cristina Campo
Appare problematica, oggi, l’integrazione della dimensione sensoriale nell’esperienza spirituale. Ha ancora senso l’espressione «esperienza di Dio»? O bisogna rassegnarsi alla sua diluizione in una dimensione puramente intellettuale (esperienza di Dio intesa come parlare di o scrivere su Dio) o alla sua riduzione all’attività sociale caritativa e filantropica (esperienza di Dio intesa come relazione altruista) o a fame l’appannaggio del mondo della mistica? L’incontro con Dio avviene sì nella fede e non nella visione, ma si impone a tutto l’uomo, corpo e sensi compresi. Agostino lo proclama: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X, 27,38).
Il testo di Agostino echeggia quella dottrina dei «sensi spirituali» che ha in Origene il suo iniziatore. Scrive l’alessandrino: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo” perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita» (Commento al Cantico II,167,25). Il Dio fattosi uomo ha affermato, una volta per sempre, l’eminente dignità spirituale del corpo. È vero che la dottrina tradizionale dei sensi spirituali si fonda a volte sulla contrapposizione e rottura fra sensi corporei e sensi spirituali, ma in certe sue modulazioni (per esempio in Bonaventura) si percepisce la continuità fra i due livelli di sensi e comunque, al di là delle antropologie – oggi forzatamente impraticabili – che sottostavano alle antiche formulazioni dottrinali, è essenziale recuperare e riformulare l’istanza profonda che esse esprimevano. Il sensus fidei non è un sapere dottrinale, ma è connesso a un vissuto, a una conoscenza «pratica» di Dio che porta ad assumere «il senso delle cose divine», cioè il discernimento. Magistero di questo discernimento è la liturgia eucaristica, dove il mistero celebrato è il mistero della fede: ma la liturgia eucaristica è esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente: ascoltare la Parola di Dio proclamata, vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli, gustare il pane e il vino eucaristici, odorare i profumi, l’incenso, toccare l’altro con l’abbraccio di pace... Nell’incarnazione la rivelazione è entrata nell’uomo attraverso tutti i sensi; nell’economia sacramentale la celebrazione del mistero coinvolge sì tutti i sensi dell’uomo, ma esigendo anche un loro affinamento e una loro trasfigurazione: si tratta di cogliere la realtà «in Cristo». I sensi non sono aboliti, ma ordinati dalla fede, allenati dalla preghiera, innestati in Cristo, trasfigurati dallo Spirito santo: il battezzato può così manifestarsi quale nuova creatura che «”vede” realmente il Figlio di Dio; “ode” e “ascolta” la sua parola; lo “tocca” e si nutre di lui; lo “gusta”; respira la vita nello Spirito santo». Così si esprime l’esegeta Donatien Mollat mostrando l’emergere dei sensi spirituali nel quarto Vangelo. E non si pensi che si tratti di un’esperienza «mistica», inaccessibile ai più. L’«ascolto» della Parola di Dio attraverso la lettura orante delle Scritture porta il credente a «vedere» il volto del Cristo, a «toccare» la sua presenza che gli si impone, a «gustare» la consolazione dello Spirito, a piangere preso da compunzione... È la concretissima esperienza spirituale.
L’esperienza di fede è esperienza di bellezza, di un incontro tanto reale quanto indicibile, di una presenza più intima a noi del nostro stesso intimo. Ed è esperienza che investe anche il corpo e i sensi. In Oriente il santo è l’uomo con il volto luminoso, il cui corpo esala profumo, la cui somaticità è ormai evento di bellezza e di comunione. Certo, guai a confondere lo psicologico e l’emozionale con lo spirituale, ma lo spirituale traversa lo psichico e investe i sensi del corpo. E allora i «sensi spirituali» non sono solo metafore, ma connotano l’esperienza della comunione con il Signore nei vari aspetti in cui si può manifestare all’animo umano: dolcezza, forza, intimità, adesione amorosa, obbedienza, presenza intensa. È la sobria ebrietas; è l’esperienza dell’amore. Quando Agostino afferma che l’occhio vede a partire dal cuore e che solo l’amore è capace di vedere, ci suggerisce che i sensi spirituali sono i sensi permeati dall’esperienza profonda dell’amore di Dio. Amore che purifica, ordina e rende intelligente l’amare umano.
Ma chi oggi sa farsi «iniziatore alla vita spirituale del corpo, in un mondo che confondendo o separando corpo e spirito li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita?» (Cristina Campo).
Enzo Bianchi
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