Senza libertà non c'è vera Fede

«Non è proprio della religione costringere alla religione». Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all'interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia...

Senza libertà non c’è vera Fede

 

          Nec religionis est cogere religionem. Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina, pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione».            Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000. In un itinerario (che non è teologico ma di taglio culturale generale) all’interno dell’orizzonte della fede, oltre a celebrare il primato della grazia divina, non possiamo ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione classica e moderna della persona.            Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei testi biblici. Ci basti evocare due passi. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei capitoli 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male. D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà.            Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,14-17). La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20). Esprime bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – padre David M. Turoldo quando scrive: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso forzato e obbligato. L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa. Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice. Essere liberi non è una pura e semplice reazione istintiva e "libertina", né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere.            Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù. Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco e te lo riportano subito, così per molti la libertà è un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere.            Questa è un’immagine di Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e libertà. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Mt 27,39-42). Come durante la sua esistenza aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà. Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone de Beauvoir, la scrittrice francese compagna del filosofo Sartre, morta nel 1986, fa della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene rievoca il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano padre Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà.            Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la «scimmiottatura di Dio».            Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia. È la famosa fides qua dei teologi, ossia la fede «con la quale» si aderisce confidando in Dio e che fa accogliere la fides quae, cioè i contenuti della rivelazione divina che il credere ci manifesta.            Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebr 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Mi affido ai versi di una scrittrice con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere/ che l’altro esiste/ è vivere/ dentro di lui/ calore/ nelle sue vene/ sogno/ nei suoi pensieri./ Qui aggirarsi/ dormendo/ in lui destarsi» (da Giovane è il tempo del 1974).            Come pregava un’altra poetessa, segnata però esplicitamente dalla fede, Ada Negri: «Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo. Non vedo te: ma sento e respiro la tua presenza in ogni filo d’erba, in ogni atomo d’aria che mi nutre». La fiducia ha il suo vaglio di autenticità nel tempo oscuro della prova, quando il volto di Dio scompare, la sua parola tace, la sua presenza si tramuta in assenza. Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche egli mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).             La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci riuscirai: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!».            Evidente è il paradosso, ma in questa ripresa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà e l’assoluta fiducia in Dio. Una fiducia che è esaltata anche nella tradizione musulmana con accenti altissimi (muslim significa appunto «chi ha fiducia e si abbandona a Dio»), anche se però non di rado a danno della libertà umana. Significativa è una pagina delMemoriale dei santi del grande scrittore mistico persiano del XII secolo Farid ed din ’Attar che ha per protagonista «un adoratore del fuoco», cioè uno zoroastriano, quindi un pagano agli occhi del musulmano. Farid vede che egli getta miglio sulla distesa di neve che circonda la sua abitazione e spiega che lo fa per gli uccelli del cielo, «sperando che l’Altissimo avrà misericordia di me».            Ma Farid obiettò: «Tu sei un infedele e il grano seminato da un infedele non germoglia!». Quell’uomo replicò: «Pazienza! Se Dio non accetta la mia offerta, posso almeno sperare che veda il piccolo gesto di amore che io faccio». Mesi dopo ’Attar ripassa e ritrova l’uomo: «L’Altissimo ha fatto germogliare quei semi. Grazie, o Dio, che regali il paradiso per un pugno di grano! Il cuore di Dio si commuove sempre di fronte a un gesto d’amore!». Amore, fiducia, fede si uniscono tra loro e donano serenità. È ancora un musulmano, il poeta nazionale del Pakistan Muhammad Iqbal, morto nel 1938, a scrivere: «Ti dirò il segno del credente:/ quando a lui giunge la morte,/ sulle sue labbra sboccia un sorriso».            Vivere la fede genera una fiducia che fa fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso. Concludiamo, allora, con una delle Quattordici preghiere che compose Robert L. Stevenson, il geniale autore ottocentesco inglese dell’Isola del tesoro e dello Strano caso del dottor Jekyll e del Signor Hyde, un vero canto di fiducia nel Dio che non abbandona mai le sue creature coi suoi piccoli e grandi doni: «Ti ringraziamo, Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l’amore che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di fiducia e di serenità».

 

 

Gianfranco Ravasi

 

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