Siate felici nel tempo e nell'eternità!

Omelia inizio 2º anno triennio di preparazione al Bicentenario.

Siate felici nel tempo e nell'eternità!  

«Rallegratevi nel Signore sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi»

Omelia inizio 2º anno triennio di preparazione al Bicentenario

Fil 4,4-9; Mt 18,1-6.10

 

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Gesù,

ci siamo radunati a I Becchi, nel Santuario di Don Bosco, per l’avvio del secondo anno del triennio di preparazione al bicentenario della nascita di Don Bosco. Dopo averci impegnato l’anno scorso a conoscerlo più profondamente, ad amarlo più intensamente e ad imitarlo più fedelmente nella sua assoluta consegna a Dio e nella sua totale dedizione ai giovani, questo anno siamo invitati a contemplarlo come educatore e quindi ad approfondire, aggiornare ed inculturare il suo Sistema Preventivo. Dopo aver scoperto come Don Bosco si sentì inviato da Dio ai giovani, che erano per lui la sua ragione d’essere, la sua missione, la più preziosa eredità, dovremo ora riscoprire che cosa offriva loro: il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà. Ecco il suo programma educativo e il suo metodo pedagogico!

Ma per presentarvelo, lo faccio parlando a nome suo, anzi, in veste sua, come vero Successore di Don Bosco:

“Sono conosciuto in tutto il mondo come un santo che ha seminato a piene mani tanta gioia. Anzi, come ha scritto qualcuno che mi conosceva personalmente, ho fatto dell’allegria cristiana “l’undicesimo comandamento”. L’esperienza mi ha convinto che non è possibile un lavoro educativo senza questa meravigliosa spinta, questa stupenda marcia in più che è la gioia. Ti sto parlando della gioia vera, quella che nasce nel cuore di chi si lascia guidare dal Signore. La risata fragorosa, lo schiamazzo importuno sono di un momento; la gioia di cui ti parlo viene da dentro, e rimane perché viene da Gesù, quando Egli è accolto senza riserve. Ero solito affermare: “Sta’ allegro, ma la tua allegria sia quella di una coscienza monda dal peccato”. E perché i miei ragazzi ne fossero intimamente persuasi aggiungevo. “Se volete che la vostra vita sia allegra e tranquilla, dovete procurare di starvene in grazia di Dio, poiché il cuore del giovane che è in peccato è come il mare in continua agitazione”. Ecco perché ricordavo sempre che “la gioia nasce dalla pace del cuore”. Insistevo: “Io non voglio altro dai giovani se non che si facciano buoni e che siano sempre allegri”. So che qualcuno ha detto: “Se san Francesco di Assisi santificò la natura e la povertà, don Bosco santificò il lavoro e la gioia. Egli è il santo della vita cristiana operosa e lieta”. Questa frase mi piace per due motivi: sia perché mi mette accanto ad un santo simpatico e sempre attuale come è lo stupendo giovane di Assisi e sia perché l’autore della frase ha colto il segreto della mia santità: il lavoro e la gioia.

Tu lo sai: sono vissuto in tempi difficili e ricchi di forti turbolenze. Dicevo: “I nostri tempi sono difficili? Furono sempre così, ma Dio non mancò mai del suo aiuto”. La certezza nella Provvidenza di Dio spiegava il mio inossidabile ottimismo. Era una delle tante lezioni di vita che avevo imparato da mia madre.

“Don Bosco aveva per arma la bontà”: così ha scritto di me un salesiano, entusiasta e sapiente, che io avevo conosciuto quando era ancora un ragazzo e avevo confessato alcune volte. La gioia è il mio più simpatico e concreto biglietto da visita, la mia bandiera. Non una delle tante.

Li aspettavo i miei ragazzi la domenica mattina a Valdocco; era per me una festa! Quando scendevano a frotte gli spazzacamini, gli apprendisti di muratori, i garzoni dai mille lavori, venivano – è vero - per i giochi, per il pezzo di pane e la fetta di salame, per passare una giornata diversa, ma soprattutto, e io lo sapevo, arrivavano perché c’era un prete che li amava e che sapeva spendere ore e ore per farli felici.

Ti voglio rivelare un segreto: io non mi sono mai considerato un educatore che era anche prete; io ero un prete (avevo raggiunto questa meta dopo anni di sofferenze, di privazioni e di passione!) che esercitava, viveva e testimoniava il suo sacerdozio mediante l’educazione. Meglio ancora, sono divenuto educatore dei giovani perché ero prete per loro.

Lo so: qualcuno, a volte, mi presenta come l’eterno saltimbanco dei Becchi e pensa di farmi un grosso favore. Ma è un’immagine molto riduttiva del mio ideale. I giochi, le passeggiate, la banda di musica, le rappresentazioni teatrali, le feste erano un mezzo, non un fine. Io avevo in mente ciò che apertamente scrivevo ai miei ragazzi: “Uno solo è il mio desiderio: quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità”.

A questo punto capirai perché a quel meraviglioso ragazzino che è Domenico Savio io abbia indicato l’allegria come un cammino di autentica santità. E lui l’aveva capito, quando spiegava ad un compagno che era appena giunto a Valdocco e si trovava ancora completamente spaesato: “Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri. Procuriamo soltanto di evitare il peccato, come un grande nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore e di adempiere esattamente i nostri doveri". Questo stupendo adolescente, così ricco di grazia e di bontà, non faceva altro che presentare al suo nuovo amico Camillo Gavio l’identico cammino di santità giovanile che gli avevo proposto qualche mese prima.

Fin da ragazzo, il gioco e l’allegria erano stati per me una forma di apostolato serio, di cui ero intimamente convinto. Per me la gioia era un elemento inseparabile dallo studio, dal lavoro e dalla pietà. A Francesco Besucco, un altro splendido ragazzo di cui scrissi pure una biografia, avevo suggerito: “Se vuoi farti buono, pratica tre cose e tutto andrà bene. Eccole: Allegria, Studio, Pietà”. Quando iniziai a Valdocco, avevo un sogno nel cuore: creare un clima di famiglia per tanti giovani che erano lontani da casa per lavoro o che forse non avevano mai assaporato un gesto di vero affetto. La gioia aiutava a creare questo ambiente. Faceva superare le tante strettezze della povertà e ridonava serenità a tanti cuori. So che un ragazzo di quei primi anni (divenne in seguito un ottimo prete della Chiesa di Torino, uno delle varie migliaia di sacerdoti sbocciati in questa prima casa salesiana!) ricordando gli anni “eroici“ li descriveva così: “Pensando come si mangiava e come si dormiva, adesso ci meravigliamo d’aver allora potuto spassarcela, senza talvolta patirne e senza lamentarci. Ma eravamo felici, vivevamo d’affetto”. Vivere e trasmettere la gioia era una forma di vita, una scelta cosciente di pedagogia in atto. Per me, il ragazzo era sempre un ragazzo, la sua esigenza profonda era la gioia, la libertà, il gioco. Trovavo naturale che io, prete per i giovani, trasmettessi loro la buona e allegra notizia contenuta nel Vangelo. Chi possiede Gesù vive nella gioia. E non l’avrei potuto fare con il volto arcigno e i modi scostanti e bruschi. I giovani avevano bisogno di capire che per me l’allegria era una cosa tremendamente seria! Che il cortile era la mia biblioteca, la mia cattedra dove ero al tempo stesso insegnante e allievo. Che la gioia è legge fondamentale della giovinezza. Capisci adesso l’importanza che io davo alla celebrazione delle feste, sacre o profane che fossero: esse possedevano una enorme carica pedagogica e finivano per parlare al cuore, Valorizzavo il teatro, la musica, il canto. Organizzavo nei minimi dettagli le celebri passeggiate autunnali. Ricordo ancora come se fosse oggi: entravamo nei paesi con la banda in testa, eravamo accolti dai parroci, dai signori del luogo che ci assicuravano alloggi di fortuna e il vitto quotidiano. Le giornate erano intense: visite a personaggi di riguardo, celebrazioni mattino e sera, esibizioni della banda musicale, spettacoli teatrali su palchi improvvisati nella piazza principale. E risate a non finire. Risate che lasciavano un ricordo di gioia serena. Mostravo ai ragazzi e, di riflesso ai buoni paesani, che “il servire a Dio può andar bellamente unito all’onesta allegria”.

Nel 1847 stampai un libro di formazione cristiana, Il Giovane Provveduto. L’avevo scritto rubando tante ore al sonno. Le prime parole che i miei ragazzi leggevano erano queste: “Il primo e principale inganno con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù è far loro venire in mente che il servire il Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, cari giovani. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiana, che vi possa nel tempo stesso rendere allegri e contenti, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri… Tale appunto è lo scopo di questo libretto, servire al Signore e stare allegri”.

Come vedi, per me la gioia assumeva un profondo significato religioso. Nel mio stile educativo c’era una equilibrata combinazione di sacro e di profano, di natura e di grazia. I risultati non tardavano ad apparire, tanto che in alcune note autobiografiche che fui quasi obbligato a scrivere potevo asserire: “Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate, ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi ai miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incombenza da compiere”.

L’esperienza mi aveva convinto che “un santo triste è un santo che non affascina, che non convince”. Io parlavo di gioia, non di incoscienza o superficialità. La gioia, per me, sfociava dritta dritta nell’ottimismo, nella fiducia amorosa e filiale in un Dio provvidente; era una risposta concreta all’amore con cui Dio ci circonda e ci abbraccia; era anche risultato dell’accettazione coraggiosa delle dure esigenze della vita. E lo dicevo con una immagine: “Per cogliere le rose, si sa, s’incontrano le spine; ma con le spine vi è sempre la rosa”. Non mi accontentavo che i giovani fossero allegri; volevo che essi diffondessero intorno a sé questo clima di festa, di entusiasmo, di amore alla vita, Li volevo costruttori di speranza e di gioia. Missionari di altri giovani mediante l’apostolato dell’allegria. Un apostolato contagiante.

Insistevo: “Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto”. E con questa semplice espressione, raccolta spesso dalle labbra di mia madre, indicavo una prospettiva che andava al di là delle fragilità e contingenze umane; aprivo uno spiraglio di futuro, di eternità, insegnavo loro che “le spine della vita saranno i fiori per l’eternità”.

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, quanto mi stava a cuore condividere con voi oggi per stimolare il vostro impegno e dedizione a contemplare Don Bosco educatore e ad offrire i giovani il Vangelo della Gioia attraverso la Pedagogia della Bontà.

 

Don Pascual Chávez V., SDB

 

Colle Don Bosco – 16 Agosto 2012

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