"Sii forte, solido e affidabile"

Quello di don Bosco è lo strano caso di un sognatore con i piedi per terra. Don Bosco è stato un tronco poderoso ben radicato nel terreno per tenere il cielo attaccato alla terra. E per questo ha consumato la sua vita. Da lui allora possiamo imparare il significato della virtù dell'umiltà.

"Sii forte, solido e affidabile"

 

Quello di don Bosco è lo strano caso di un sognatore con i piedi per terra.

«Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto…»

Questo il consiglio di Maria a Giovannino nel sogno dei nove anni. Giovanni lo prenderà molto sul serio e queste tre qualità diventeranno le dimensioni fondamentali della sua persona.

Un nonno teneva per mano il nipotino e indicava i poderosi alberi del viale. Raccontava che niente è più bello di un albero. «Guarda, guarda gli alberi come lavorano!». «Ma che cosa fanno, nonno?» «Tengono la terra attaccata al cielo! Ed è una cosa molto difficile. Osserva questo tronco rugoso. È come una grossa corda. Ci sono anche dei nodi. Alle due estremità i fili della corda si dividono e si allargano per attaccare terra e cielo. Li chiamiamo rami in alto e radici in basso. Sono la stessa cosa. Le radici si aprono la strada nel terreno e allo stesso modo i rami si aprono una strada nel cielo. In entrambi i casi è un duro lavoro!». «Ma, nonno, è più difficile penetrare nel terreno che nel cielo!». «Eh no, bimbo mio. Se fosse così, i rami sarebbero bei dritti. Guarda invece come sono contorti e deformati dallo sforzo. Cercano e faticano. Fanno tentativi tormentosi più delle radici». «Ma chi è che fa fare loro tutta questa faticaccia?». «E’ il vento. Il vento vorrebbe separare il cielo dalla terra. Ma gli alberi tengono duro. Per ora stanno vincendo loro».

Don Bosco è stato un tronco poderoso ben radicato nel terreno per tenere il cielo attaccato alla terra. E per questo ha consumato la sua vita. Da lui allora possiamo imparare il significato della virtù dell’umiltà. Le radici nella terra sono l’umiltà. La parola richiama il latino humus, terra. Anche se l’icona più affascinante di don Bosco lo rappresenta in equilibrio su una corda tesa tra terra e cielo. Si trova subito in sintonia con Maria Mazzarello: viene dalla terra anche lei. Sanno voltare il fieno, mungere le mucche e zappare. Si capiscono al volo: poche parole, poche lettere. I contadini si guardano in faccia e basta. Don Bosco non perse mai di vista la meta della sua esistenza. Badò sempre all’essenziale. Se hai un sogno grande, non lasciarti scoraggiare dagli incapaci, impara a dire «no». Il camminatore sul filo ha bisogno di due qualità essenziali: equilibrio e autocontrollo. Queste chiese con forza ai suoi ragazzi. Oggi sono fuori moda, ma è quanto di più moderno si può fare in campo pedagogico. Lui le chiamava temperanza. Una virtù che praticò in tutta l'estensione della parola (vestire, mangiare, dormire, abitare e viaggiare) e in maniera eroica. Vestiva, ad esempio, con abiti puliti ma rattoppati. Il suo abito talare era di panno grossolano, gli serviva per le quattro stagioni e ne disponeva di uno solo, come testimoniò Angelo Amadei:

«La Signorina Mazzi della Roche, nipote di Mons. Gastaldi, mi diceva che nel 1858, prima che partisse per Roma, il Ven. fu a visitare la sua mamma. La sua veste era pulita ma rattoppata. La Signorina Mazzi gli disse: “ Don Bosco con questa veste andrà a Roma?”. “ Sicuro”, rispose il Ven. “ è la veste più bella che abbiamo in casa, e non è mia, me l'ha imprestata Don Alasonatti”» (PV, 912). «Nel 1858 {Don Bosco aveva 43 anni), trovandomi io a Roma in compagnia di un avvocato di Torino, vedemmo Don Bosco per una via. Lasciai all'istante l'avvocato e andai a salutarlo. Al ritorno, l'avvocato mi domandò chi era quel sacerdote. Risposi: «Don Bosco!». L'avvocato rimase sorpreso: «Don Bosco? Quel Don Bosco che raccoglie centinaia di giovanetti? Io l'ho incontrato per le vie di Torino, e mi chiedevo chi fosse quel semplicione di un prete, tanto dimesso era il suo vestito e il suo portamento!».

Non ha paura di chiedere. Per andare in seminario fa la prima questua della sua vita, la prima di una lunga serie.

«Restava a provvederlo degli abiti chiericali che la povera Margherita non avrebbe potuto comprargli. Don Cinzano ne parlò ad alcuni parrocchiani, e questi accettarono premurosamente di concorrere all'opera buona. Il signor Sartoris lo provvide della talare, il Cav. Pescarmona del cappello, Don Cinzano stesso gli diede il proprio mantello, altri gli comprò il colletto e la berretta, altri le calze, e una buona donna raccolse i denari necessari per fornirlo, a quanto pare, di un paio di scarpe. È questo il modo che avrebbe tenuto anche in seguito la Divina Provvidenza per venire in soccorso al nostro Giovanni; servirsi cioè dell'aiuto di molti generosi per sostenere il suo fedel Servo e le opere cui egli avrebbe dato mano».

Quante volte il Santo fu udito ripetere: «Io ebbi sempre bisogno di tutti». Non si vergognò mai di chiedere l’elemosina. Quanto coraggio ci vuole per questo?

Solo chi è umile può essere gentile perché riesce a godere della presenza degli altri. L’umiltà è la porta dell’amore verso i più piccoli, gli indifesi, i feriti dalla vita. Gesù spiega concretamente ai suoi il senso dell’umiltà con la “lavanda dei piedi”. Anche don Bosco:

«Egli si dava in casa a più altre occupazioni. Non potendosi fidare di prendere gente di servizio, con sua madre faceva ogni lavoro domestico. Mentre Margherita si occupava della cucina, presiedeva al bucato, adattava e cuciva la biancheria e accomodava gli abiti logori, egli attendeva a tutte le più minute faccenduole. D. Bosco in questi primi anni, facendo vita comune coi giovani, allorché non si muoveva di casa era pronto ad ogni servigio. Al mattino insisteva perché i giovani si lavassero le mani e la faccia; ed egli a' pettinare i più piccoli, a tagliare loro i capelli, a pulirne i vestiti, assettarne i letti scomposti, scopare le stanze e la chiesuola. Sua madre accendeva il fuoco ed egli andava ad attingere l'acqua, stacciava la farina di meliga o sceverava la mondiglia dal riso. Talora sgranava i fagiuoli e sbucciava pomi di terra. Egli ancora preparava sovente la mensa per i suoi pensionarii e rigovernava le stoviglie ed anche le pentole di rame che in certi giorni facevasi imprestare da qualche benevolo vicino. Secondo il bisogno fabbricava o riattava qualche panca perché i giovani potessero sedersi; e spaccava legna. Per risparmiare spese di sartoria tagliava e cuciva i calzoni, le mutande, i giubbetti e coll'aiuto della madre in due ore un vestito era fatto».

È la lavanda dei piedi in salsa salesiana. Il miglior titolo per una vita di don Bosco credo sia Giovannino Semprinpiedi. Nel novembre 1845 don Bosco prese in affitto dall'anziano sacerdote Giambattista Moretta tre stanze, pagando quindici lire mensili. Ma nel marzo 1846 il vecchio prete, per le solite lamentele degli altri inquilini, non rinnovò l'affitto, avvisandolo di sloggiare immediatamente. L'Oratorio si trasferì allora provvisoriamente nel prato attiguo, affittato dai fratelli Filippi.

«Io mi trovai là a cielo scoperto, in mezzo ad un prato, cinto da grama siepe, che lasciava libero adito a chiunque volesse entrare. I giovanetti erano da tre a quattrocento, i quali trovavano il loro paradiso terrestre in quell'Oratorio, la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del cielo [...]. Ne' giorni festivi, di buon mattino, io mi trovava nel prato, dove già parecchi attendevano [...]. Ad un certo punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti; altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad ascoltare la santa messa e fare la comunione. Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campagna, alla chiesa della Consolata, a Stupinigi...» (MO, 154-155).

Non è difficile considerare tutta la vita di don Bosco una lotta. Don Bosco non aveva paura di niente. Monsignor Cagliero ricorda:

«Non ricordo di averlo visto un solo momento, nei 35 anni in cui stetti al suo fianco, scoraggiato, infastidito o inquieto per i debiti dei quali era sovente carico. Sovente diceva: «La Provvidenza è grande, e come pensa agli uccelli dell'aria, così penserà ai miei giovanetti». Al signor Magra, panettiere, doveva 12 mila lire per provvista di pane nell'anno 1860-61. Magra si rifiutò di fornirgli altro pane. Don Bosco gli fece dire, come sempre, che non dubitasse: la Divina Provvidenza non aveva mai fatto banca rotta. Continuasse a provvedere il pane, e il Signore avrebbe pensato a mandargli il denaro. Magra mandò il pane, ma venne per riscuotere il suo avere. Don Bosco si trovava in sacrestia, e tardava a uscire aspettando che il Signore l'aiutasse, mentre il signor Magra passeggiava fuori attendendo. Un signore entra in sacrestia e da a Don Bosco una piccola elemosina. Don Bosco allora esce, trova il signor Magra e gli dice: «Ecco, la Provvidenza vi manda un acconto. Presto vi farà avere il saldo». Così diceva ai provveditori del ferro, del legname, del cuoio per i laboratori...».

Nel 1849, anno difficile per il Piemonte e per don Bosco, egli si faceva accompagnare, quando usciva, da Giuseppe Brosio, il "bersagliere", che nelle sue rievocazioni (ASC, 123, Brosio) ricordò che, quando don Bosco percorreva l'attuale corso Regina Margherita, spesso veniva ingiuriato con insulti o canzonacce indecenti da parte di giovani sbandati. L'esuberante Brosio, proprio per i suoi particolari trascorsi militari, avrebbe volentieri dato a quei giovinastri una buona lezione "manuale", ma don Bosco lo fermava regolarmente, anzi un giorno che riuscì ad avvicinarsi a questi "amici" (come li chiamava) regalò loro alcuni frutti, comperati da una venditrice che aveva il banco nella zona. Quando la mamma di Don Bosco si lagnava con lui, e con ragione, perché la siepe e la verdura del suo orto veniva guastata. Don Bosco, con il solito sorriso sulle labbra, le rispose:  Che cosa volete farci? Sono giovani!.

 

IL CUORE DI FRANCESCO DI SALES

 

Un cuore aperto all’amicizia

“Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore. E tuttavia, amo le anime indipendenti, vigorose, le anime che non sono femmine, perché la tenerezza troppo grande sconvolge il cuore, lo rende inquieto e lo distrae dalla meditazione amorosa di Dio […]. Quello che non è Dio, non è nulla per noi”.

E a Giovanna dichiara: “Amo questo amore […]. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, forte, purissimo e tranquillissimo; in una parola è un amore che vive solo in Dio […]. Dio che vede tutte le pieghe del mio cuore, sa che in questo non v’è nulla che non sia per Lui e secondo Lui, senza il quale non voglio essere nulla per nessuno” (L 395, 877).

Al suo caro amico A. Favre scrive: “Vivrà sempre nel mio petto l’ardente desiderio di coltivare diligentemente tutte le amicizie!”

A pochi giorni dalla sua ordinazione a Vescovo, scrive all’ amico Pietro de Bérulle: “Io sono vescovo consacrato dall’8 di questo mese, giorno di Nostra Signora. Questo mi spinge a scongiurarvi d’aiutarmi tanto più cordialmente con le vostre preghiere […] Non c’è rimedio: avremo sempre bisogno di lavarci i piedi, poiché camminiamo nella polvere. Il nostro buon Dio ci conceda la grazia di vivere e di morire nel suo servizio”

Un cuore tutto per il suo Dio

Tutta la sua vita fu la realizzazione di quanto scriveva in occasione della sua ordinazione a Vescovo: “Quel giorno Dio mi aveva tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”

Poteva così scrivere alla Chantal il programma di vita (a lettere maiuscole):

OCCORRE FARE TUTTO PER AMORE E NULLA PER TIMORE; 

OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA

PIU’  DI  QUANTO  SI  TEME LA DISOBBEDIENZA  

Avere il cuore tutto per Dio significa fare la sua volontà e in questa direzione vanno gli stralci che Francesco ci offre:

“Per l’amore di Dio, abbandonatevi interamente alla sua volontà e non crediate di poterlo servire in altro modo, perché non lo serviamo mai bene se non quando lo serviamo come vuole Lui” (L 260, 614).

“Le notti sono giorni quando Dio è nel nostro cuore e i nostri giorni sono notti quando Lui ci manca”

“E’ strano, figlia mia, come il mio spirito sia fermo nel parere di non dover seminare nel campo del vicino, per quanto esso sia bello, finché il nostro non è ancora stato seminato del tutto. È sempre molto dannosa quella distrazione del cuore che porta ad avere il cuore in un posto e il dovere in un altro”

E racconta un episodio splendido: “Qualche tempo fa vidi una giovinetta che portava sulla testa un secchio d’acqua, nel centro del quale aveva messo un pezzo di legno. Ne volli sapere il perché ed essa mi disse che lo aveva messo per rompere il movimento dell’acqua e impedire così che si rovesciasse […]. Dovremo mettere la Croce nel centro dei nostri cuori per attirare i nostri affetti a questo legno e per mezzo di questo legno, affinché non si rovescino su altre cose” (ibidem, 1026).

Un cuore esigente con sé e con gli altri 

“Tutte le sere quando mi ritiro, non riesco più a muovere il corpo né lo spirito, tanto mi sento stanco in tutte le membra. Però, ogni mattina, mi ritrovo più arzillo che mai” (L 357, 815)

Ritorna a casa sfinito dalle visite pastorali alla Diocesi e bisognoso di “riassestare il mio povero spirito […]. Mi propongo di fare una revisione completa di me stesso e di rimettere tutti i pezzi del mio cuore al loro posto” (L 318, 736). “Al ritorno dalla visita, quando ho voluto rivedere bene la mia anima, mi ha fatto compassione: l’ho trovata così dimagrita e disfatta che pareva la morte. Sfido! Per quattro o cinque mesi non aveva quasi avuto un momento per respirare. Le starò vicino per il prossimo inverno e cercherò di trattarla bene”

Al Vescovo di Dol, di recente consacrato Vescovo, scrive: “Bisogna che siate un altro uomo nel vostro esterno e nel vostro interno. […] Piacesse a Dio che le nostre cariche, più tempestose che il mare, avessero anche, come il mare, il potere di far rigettare tutti gli umori cattivi a coloro che ad esse sono chiamati!”

Un cuore attento alla concretezza della vita

Alla Signora Brulart scrive questi consigli che possono servire anche per noi oggi, quasi un concentrato della spiritualità salesiana:

“Cerchiamo di essere quello che siamo e siamolo bene per fare onore al grande Artista di cui siamo opera […]. Sforziamoci di essere quello che vuole Dio, dato che siamo cosa sua; non siamo quello che vogliamo noi contro la sua volontà”

“Occorre acquistare una dolcezza particolare verso i vostri, cioè verso la vostra famiglia […]. Essere dolci e soavi. A questo bisogna pensare quando si entra in casa, quando se ne esce, quando ci si trova dentro la mattina, a mezzogiorno e in qualsiasi altra ora”

Alla Signore de la Fléchère raccomanda la pazienza:

“è necessario sopportare gli altri, ma in primo luogo è necessario sopportare se stessi e rassegnarsi a essere imperfetti”  “Quando eravamo bambinelli, con quanta cura raccoglievamo pezzetti di stoffa o di legno o di terra, per costruire casette o altri minuscoli edifici! E se qualcuno ce li rovinava, ci rattristavamo e piangevamo. Ma ora conosciamo bene che tutte quelle cose avevano poca importanza. Ebbene, quel giorno in cui varcheremo la soglia del Cielo, comprenderemo che tutti gli affetti del mondo erano davvero cose da bambini. […] Dato che siamo bambini, facciamo le nostre bambinate, ma non preoccupiamoci troppo di farle”  “La molteplicità delle occupazioni è un martirio continuo, poiché, come le mosche, per coloro che viaggiano in estate, sono più fastidiose che il viaggio stesso, così la diversità e la molteplicità delle occupazioni fanno soffrire più che l’esecuzione stessa dei lavori. Voi avete bisogno di pazienza” 

La Signora è incinta e allora le scrive: “Usatevi molti riguardi durante questa gravidanza […]. Se vi stancate a stare inginocchiata, mettetevi a sedere e, se non avete l’attenzione sufficiente per pregare mezz’ora, pregate solo un quarto d’ora o un mezzo quarto d’ora”

Noi sappiamo che s. Giovanna aveva fatto scrivere su una parete del chiostro del secondo Monastero l’inno alla carità di san Paolo per farlo diventare oggetto di riflessione per tutti, ma specie per quelle Sorelle che avessero mancato in questo campo. Francesco invia a Giovanna un suo inno alla carità, da rileggere di tanto in tanto per vedere se amiamo Dio a parole o realmente, seguendo queste indicazioni concrete: “Colui che è dolce non offende nessuno, sopporta volentieri coloro che gli fanno del male, soffre con pazienza i colpi che riceve e non rende male per male. Chi è dolce non si turba mai, ma conforma tutte le sue parole all’umiltà , vincendo il male col bene […]. Fate sempre le correzioni col cuore e le parole dolci […]. In questo modo le correzioni produrranno migliori effetti. Non ricorrete mai alle rappresaglie verso coloro che vi hanno fatto dei dispiaceri. Non risentitevi e non adiratevi mai per nessun motivo, con nessun pretesto e per nessuna ragione apparente, perché questa è sempre un’imperfezione” (L 2082, 868). 

 

 

Don Gianni Ghiglione

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