Dice: “Non faccio niente di speciale, se qualcuno ti chiede da mangiare è come se lo chiedesse Gesù. Mio padre mi ha sempre detto di mettermi al posto di chi è povero”
Capita, a volte, di incontrare qualcuno con il cuore al posto giusto. Prendete Shenuuda Makar, 44 anni, egiziano, professione kebabbaro e pizzaiolo, in Italia dal 1996. Qui, nel suo piccolo locale della Crocetta, tutti lo chiamano Simone. Magari entri nel suo ristorantino, ordini il tuo bravo falafel con tante cipolle, non troppo piccante. E aspetti. Spunta un uomo anziano, italiano, giacca lisa, scarpe sfondate, occhi bassi. Ti guarda, Simone: «Dispiace se faccio prima un kebab per questo signore?» Il «signore» in questione ha lo sguardo screpolato dalla miseria, la dignità avvizzita: si vergogna perché è povero. Simone gli porge il cibo, lui mostra un sorriso malconcio ma grato. Se ne va. Non ha pagato.
Una mano tesa
«Lo so – dice – ma non posso dirgli di no. Mio padre mi ha sempre detto di mettermi al posto degli altri…». Quell’anziano, non molto tempo fa, aveva un negozietto proprio qui alla Crocetta, nel quartiere bene della città. La crisi glielo ha divorato. Simone, l’egiziano, lo aiuta così. E basta fare qualche domanda in giro per rendersi conto che l’aiuto del kebabbaro non si ferma a quella persona. No. C’è il ragazzo, sempre italiano, che ha da poco perso il lavoro e allora «… vuoi farlo pagare se ti chiede una pizza margherita?». C’è quella anziana donna rom piena di lividi e di nipotini. Ci sono i figli di quella famiglia in difficoltà.
Tante storie. E molte altre che Simone preferisce tacere. «Non divento più povero se do una mano», butta lì. Qualcuno, però, potrebbe approfittarne. «Boh, io vedo chi ha bisogno sul serio. Se mi fregano, pazienza: è un problema loro». Ma perché lo fai? «Te l’ho detto – risponde – mi hanno tirato su così. E poi io sono cristiano, un cristiano copto (antico gruppo etno-religioso che rappresenta circa il 10 per cento dell’attuale popolazione egiziana, ndr). Per me se qualcuno ti chiede da mangiare è come se lo chiedesse Gesù».
La fatica
Il cibo, il lavoro che non c’è. È per questo motivo che diciassette anni fa Shenuuda Makar ha lasciato la città di Assiut, nel cuore del suo paese. Aveva una laurea in giurisprudenza, faceva pratica come avvocato in uno studio. Ma senza nessuna prospettiva, stipendio zero. C’era un lontano cugino in Italia, in una città del nord. Il parente lavorava in una pizzeria. Allora Shenuuda decide di raggiungerlo. «Mi ha sempre affascinato il vostro Paese», sorride. Inizia come tanti, da lavapiatti. Una girandola di locali della provincia torinese: da Caselle a Venaria, da Chieri a Grugliasco passando per Robassomero. Poi il matrimonio con una connazionale, la nascita dei figli: Giorgia e George. Sette anni fa, la svolta: «Con i soldi messi da parte dal primo giorno del mio arrivo – ricorda - e grazie a un finanziamento, ho potuto mettermi in proprio e ho aperto la mia pizzeria/kebabberia in via fratelli Carle. L’ho fatto anche per dare un po’ di futuro ai miei figli…». Fino a diventare padre per tanti altri “figli”, venendo loro incontro nelle necessità immediate e quotidiane dello stomaco. «Non esageriamo – si schermisce ancora Simone – credo che chiunque farebbe quello che faccio io. E poi – conclude – ho notato che quando do una mano a qualcuno lavoro molto meglio».
Mauro Pianta
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