Dieci anni fa il peggior massacro sistematico in Europa dopo la Seconda guerra mondiale: ottomila bosniaci musulmani uccisi dalla pulizia etnica delle truppe comandate dal generale Mladic, sotto gli occhi dei Caschi blu Onu. Dieci anni, il capoluogo bosniaco soffre ancora per le ferite dell'odio e delle distruzioni materiali. Si continuano a trovare fosse comuni. Molte famiglie serbe costrette a vivere negli alberghi.
del 09 luglio 2005
L'11 luglio 1995 le forze serbo-bosniache sotto il comando del generale Ratko Mladić e i paramilitari serbi di Arkan e di Vojislav Seselj entrarono nella città di Srebrenica – enclave sotto il controllo delle Nazioni Unite, presenti con uno sparuto drappello di soldati olandesi e, fino al 19 luglio successivo, ebbero il tempo e la libertà di compiere il peggiore dei massacri che il 19 aprile 2004 il Tribunale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia (Tpi) ha definito con il termine di “genocidio”.
 
Tra l'11 e il 19 luglio furono deportati e uccisi almeno 10.000 uomini considerati in “età militare”: in realtà, molti di loro erano solo dei bambini o dei vecchi del tutto impossibilitati a tenere in mano un'arma. Molte donne furono inoltre rapite, stuprate e uccise dalla soldataglia serbo-bosniaca. “L'obiettivo degli aggressori non era solo conquistare la città, né solo procedere con una strage etnica, uccidendo migliaia di musulmani.
 
Loro obiettivo era minare, se possibile definitivamente, ogni possibilità di convivenza tra popoli che, invece, per secoli avevano convissuto tra loro pacificamente, creando in Bosnia una culla di civiltà laica e cosmopolita che ha sempre fatto dello scambio umano e culturale il suo più grande punto di forza” spiega Enisa Bukvić, presidente della Comunità della Bosnia ed Herzegovina in Italia. “Non dimenticare Srebrenica è fondamentale anche per questo: per far capire a uno sparuto e violento gruppo di nazionalisti che la civiltà non arretra di fronte alla forza bruta, e che la convivenza tra i popoli non è un'utopia, né un male, perché la Bosnia è proprio nata e si è forgiata sul principio della convivenza e della multiculturalità” aggiunge Enisa Bukvić.
 
 
 
SREBRENICA. LA FABBRICA DEL GENOCIDIO 
Cinquemila abitanti della città bosniaca cercarono rifugio nel capannone alla periferia, altri ventimila si accamparono all’esterno. Le forze di pace olandesi non li protessero, gran parte dei maschi furono prelevati e uccisi
«Vennero col buio, alle 4 del mattino. Un poliziotto serbo che conoscevo gli gridò: ‘Hatzo! Che ci fai tu qui?’. Lo portarono via. Non l’ho più rivisto». Hatzo era un adolescente. Gli occhi cerulei di Ramiza Begic se lo ricordano bene. Ora sono persi nel vuoto, mentre nella sua testa scorrono le immagini di quegli interminabili tre-giorni-tre dentro la 'Fabbrica di accumulatori' di Potocari, l’enorme capannone alla periferia di Srebrenica usato come base militare dei caschi blu olandesi dell’Onu. Caldo soffocante, era l’11 luglio 1995. Dopo 200.000 vittime, la guerra in Bosnia stava per finire. Mancava però la sua pagina più nefasta. «Prendevano tutti gli uomini, anche i ragazzini di 12 o 13 anni», prosegue Ramiza. Lei oggi ne ha 50, ma sembrano almeno dieci in più. 'Loro' erano gli aguzzini serbo-bosniaci della Brigata Bratunac, al soldo del comandante Ratko Mladic. Il giorno prima avevano conquistato l’enclave di Srebrenica, 'protetta' dall’Onu. In quelle ore oltre 25.000 musulmani – soprattutto donne, bambini e anziani – abbandonarono a piedi la città, cercando riparo verso l’accampamento olandese di Potocari. Tre chilometri e mezzo di inferno sotto le bombe, con i caschi blu in ritirata. Dentro la 'Fabbrica dell’orrore' si ammassarono più di cinquemila civili, all’esterno del compound oltre ventimila. «Senza acqua né cibo – il pensiero di Ramiza torna a quella notte. Ora -– bercia con veemenza – l’aguzzino che prese Hatzo vive tranquillo in pensione qui a Srebrenica». Donne e bambini furono deportati in autobus verso Tuzla. Alla storia sono consegnate le immagini di Mladic che distribuisce caramelle ai bambini davanti alle telecamere. Accanto a lui, gli sfollati che salgono sui pullman con i volti segnati dal terrore. Gran parte dei maschi musulmani fino a 60-65 anni non scamparono alla 'selezione': separati dalle famiglie e poi eliminati sistematicamente.
 
 
La lunga colonna 
Migliaia di giovani di Srebrenica, invece di dirigersi verso la base Onu, si diedero a una fuga disperata nei boschi, malgrado le mine. Tentarono di raggiungere i territori 'liberati' al seguito della 28ª divisione musulmana. «Eravamo almeno 13-14.000», ricorda Sherif Begic, figlio di Ramiza. All’epoca ventenne, si salvò dopo aver vagato sette giorni sulle colline. Suo fratello Eiub, 22 anni, fu ucciso dalle granate che colpirono la lunga colonna. «Morì insieme a mio cugino, che ne aveva 14», sussurra. Qualcuno accusò poi il governo musulmano del presidente Aljia Izetbegovic di aver 'svenduto' Srebrenica ai serbo-bosniaci. Il martirio dell’enclave in cambio di un allentamento dell’assedio di Sarajevo, ormai allo stremo. Abbandonati a se stessi e privi di difesa per resistere al martellamento serbo-bosniaco, oltre seimila musulmani – almeno due terzi civili – vennero massacrati. Come i duecento che si arresero dopo l’ingannevole offerta dei serbo-bosniaci di consegnarli 'prigionieri' alla Croce Rossa internazionale. Era una trappola mortale dei militari della Brigata Zvornik: portati in un deposito vicino al villaggio di Nova Kasaba. Tutti trucidati tranne un superstite. Stesso destino per gli altri catturati: giustiziati in diversi luoghi a nord di Srebrenica tra il 13 e il 17 luglio. Poi gettati in almeno 43 fosse comuni. Molti dei loro resti sono stati successivamente sparpagliati con i caterpillar in altre buche. Per occultare i corpi del reato. Di quei crimini restano alcune immagini. Come il video trasmesso al Tribunale per l’ex-Jugoslavia dell’Aja qualche giorno fa, al processo contro l’ex-presidente serbo Slobodan Miloševic. Si vedono gli Scorpioni – truppe paramilitari dei servizi segreti di Belgrado – che in una radura vicino a Srebrenica uccidono a sangue freddo sei giovani bosniaci, emaciati e probabilmente torturati in precedenza. Il filmato ha provocato commozione e sdegno, ma anche arresti immediati per gli aguzzini, decisi dalle autorità di Belgrado. Il presidente serbo Boris Tadic li ha definiti delitti «mostruosi».
 
 
I fantasmi dei sopravvissuti 
Tra i sopravvissuti della colonna c’è anche Sherif. Adesso s’aggira come un fantasma tra stanze e reparti che odorano di morte. Come custode della 'Fabbrica', ti accompagna discreto nel lager di Potocari. In un angolo, ancora anfibi militari ammuffiti. Sulle pareti annerite la vecchia scritta a caratteri cubitali: «Druze Tito, mi ti se kunemo», («Compagno Tito, te lo giuriamo»). Propaganda d’altra epoca. Dieci anni fa la Jugoslavia del Maresciallo era già seppellita sotto la guerra civile. Dentro questo complesso industriale venne sepolta dalla vergogna anche la comunità internazionale. Incapace di fermare la pulizia etnica. All’ingresso, ancora oggi, i simboli dell’inettitudine: due blocchi bianchi di cemento con il filo spinato. «HQ DutchBat», («Quartier generale Battaglione olandese»). Sull’altro è inciso «UN»: «United Nothing», ha tradotto con dileggio qualcuno su un muro degli uffici dell’ex-base Onu. Una Guernica di miserabili graffittari, che accomuna carnefici e complici impotenti. «Questo è il Paese della guerra», annota con il gesso un militare serbo-bosniaco, disegnando falli giganteschi, donne stuprate e carri armati. «Forse nel 2010 andremo a casa», si lamenta con il pennarello rosso un sergente olandese della Compagnia Bravo. Il comandante olandese Tom Karremans chiese invano alla Nato di bombardare le postazioni serbo-bosniache per impedire il peggior massacro in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. L’Onu decise di non fare altro che fornire assistenza – com’è scritto nei documenti ufficiali – per l’'evacuazione' dei civili di Srebrenica. Nelle parole usate dal Tribunale dell’Aja sulla ex-Jugoslavia – in una delle poche sentenze sul genocidio – furono «strappati dalla pagine della storia».
 
 
SREBRENICA, LA CITTÀ FANTASMA CHE VUOLE RITORNARE A VIVERE 
È stata definita il «buco nero d'Europa»: gli abitanti erano 40mila, oggi sono tornate solo diecimila persone.
La «Fabbrica della salute», è scritto su un vecchio depliant di Srebrenica. Benvenuti nella Fiuggi bosniaca, l'antica 'Argentaria' d'epoca romana. Famosa nei tempi antichi per le sue sorgenti curative e le sue miniere di prezioso metallo. Tristemente nota in tempi moderni per l'ultimo genocidio del XX secolo. «Si parlerà di Srebrenica solo l'11 luglio, anniversario della strage. Che si celebri pure questo giorno, ma non si dimentichi che qui la vita prosegue anche negli altri 364», scuote la testa l'Efendje Damir Pestalic, 28 anni, il giovane imam della città. «Bisognerebbe cambiare l'immagine di questo luogo», aggiunge. A dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia, lo stigma del massacro qui è ancora marchiato a fuoco. Anzi. A colpi di armi automatiche, scolpito sulle facciate di quasi tutti gli edifici. Come i casermoni bianchi di 15 piani bucherellati di pallottole all'ingresso della cittadina. O le finestre sforacchiate sopra il Night Club Davidoff, uno pseudo-discobar nella semideserta piazza di Srebrenica. Un autolavaggio ha preso il posto di una delle 18 moschee che c'erano prima del conflitto. Tutte distrutte dopo la conquista dell'enclave da parte dei soldati serbo-bosniaci del generale Ratko Mladic, che da queste parti massacrarono in pochi giorni 8.000 uomini musulmani. L'unico minareto ricostruito - che si staglia alto e bianco sulla collina - è stato pagato dalla Malesia.
 
 
La locanda di Biancaneve 
«È chiaro: noi serbi siamo tutti colpevoli», sbotta con un ghigno sarcastico Snežana. Un nome che in serbo vuol dire 'Biancaneve', ma che si traduce in un caratteraccio come la matrigna della fiaba. Mentre serve una buona zuppa nella locanda dove lavora, si fa portavoce degli 'altri'. I 'colpevoli', appunto. I serbi di Bosnia. Che provano a scrollare di dosso da un intero popolo le colpe di un'élite scellerata, a Banja Luka come a Belgrado. «I mass-media non hanno orecchie per sapere che cosa è successo qui alla nostra comunità tra il 1992 e il 1995», s'indigna Željko Teofilovic, parroco ortodosso, anch'egli giovanissimo: 27 anni per un metro e novanta. Secondo la loro 'storiografia', l'Armata bosniaco-musulmana in quegli anni avrebbe ucciso circa duemila serbo-bosniaci nei villaggi circostanti. Come dimostrerebbe, dicono, il fatto che l'ex-poliziotto e poi comandante delle forze musulmane di Srebrenica Naser Oric sia rinchiuso nelle celle del Tribunale per l'ex-Jugoslavia, all'Aja, in attesa di giudizio con l'accusa di crimini di guerra. «Noi siamo da punire», incalza il pope. «Com'è possibile che dieci anni dopo la fine della guerra alcuni sfollati serbi vivano ancora in un albergo? Nessuno li aiuta». Li incontriamo a poche centinaia di metri dal campanile a cipolla della chiesa ortodossa. Abitano qui. In un edificio di cemento a cubi gialli con un'insegna luminosa, ormai spenta per sempre: 'Hotel Domavia', altro nome latino di Srebrenica.
 
 
Sfollati d'albergo 
«Chiedo solo che i miei figli abbiano un bagno tutto per sé», implora Jelika Trivkovic, 40 anni. Camera 306, terzo piano. La divide con il marito Djordjan, i piccoli Radovan, 8 anni, e Nebojša, 4, che sfreccia con un triciclo sulla moquette gualcita dell'albergo termale. «Abbiamo vissuto per alcuni anni nell'abitazione di un musulmano e quando il proprietario è tornato, l'abbiamo restituita». Dal 2003 abitano in questo strano bilocale: tinello-cucina di due metri per tre; qualche porta più in là, camera 315, una stanza da letto delle stesse dimensioni, per genitori e prole. Questi bambini sono 'figli' di Dayton, l'accordo firmato negli Usa alla fine del 1995 per sancire il confine della pulizia etnica lungo le frontiere del dolore. Il 49% della Bosnia Erzegovina andò ai serbo-bosniaci, il restante 51% alla Federazione croato-musulmana. Finì la guerra, non cominciòla pace.
 
 
Il «buco nero» d'Europa 
La Bosnia come «buco nero d'Europa», ha scritto Giuliano Amato, capo di una Commissione voluta dalla Ue per analizzare le contraddizioni di un post-conflitto mai finito. Non è facile metabolizzare un passato che continua a restituire i cadaveri del genocidio di dieci anni fa. Gli ultimi 240 scheletri delle vittime musulmane sono stati riesumati in questi giorni da una fossa comune a Liplje, una trentina di chilometri da Srebrenica. Ma restano da cercare quasi duemila corpi, in aggiunta ai seimila cadaveri già ritrovati, solo un terzo dei quali è stato identificato. Venerdì scorso sono stati arrestati almeno otto serbi, con l'accusa di aver partecipato ai massacri del 1995. Secondo il governo dell'Entità Serba, sono 892 i presunti assassini ancora liberi. In città, intanto, soltanto meno di 4.000 musulmani sono rientrati, seimila residenti sono serbi. Prima del conflitto erano in tutto 40.000. La madre di Kemal Spjodic, 90 anni, ha voluto tornare qui. Forse per finire i suoi giorni nella terra dove è nata. Da tre-quattro anni i rientri procedono con troppa lentezza. Suo figlio vive negli Stati Uniti. «Qui non c'è lavoro», si lamenta. Soprattutto per i giovani, nuove 'vittime'. Stavolta della disoccupazione. Trascorrono la giornata sorseggiando caffè turco nei tre bar cittadini. Il sabato sera s'infilano negli unici due locali dove si balla. Ma i ragazzi musulmani non mettono piede volentieri nel nuovo Caffè-Bar Don Corleone. Alla serata inaugurale un marcantonio coi capelli rasati indossava una strana maglietta nera. Sulla schiena la scritta: «Io so dove si nasconde Ratko Mladic».
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