Quella di Wilson, asso dei campionati studenteschi, rimase “nascente”, perché a 17 anni fu ucciso a Chicago da un colpo di pistola. Grazie a un film, il mondo può ancora ammirare il suo sconfinato talento
“Sapessi come gioca quel bambino, il figlio del fruttivendolo…”. “Vorrei tanto che tu un giorno venissi a vederlo…”. “Non vorrei dire, ma ha le stesse movenze di Van Basten…”.
Parole che ogni tanto intercettano la nostra esistenza di (incurabili) appassionati di sport. Pronunciate da amici e parenti a proposito di giovani e giovanissimi talenti visti alle prese con un pallone in un cortile da condominio, su una spiaggia, nel campetto di oratorio dove si gioca solo a porta unica.
Per farla semplice, novecentonovantanove volte su mille si tratta di abbagli, simpatiche esagerazioni, intenerimenti provocati da un paio di indovinate movenze che equivalgono a un nonnulla nel repertorio richiesto al Campione. Poi però c’è quella millesima, fatidica volta, ovvero l’emozione davvero provata dall’infermiere di Vicenza che, guardando i bambini giocare a calcio sotto casa, un bel giorno “scoprì” Roberto Baggio, o lo stupore del diplomatico inglese a cui capitò in sorte di segnalare il talento infinito di Sailen Tudu, la prima superstar indiana nella storia del rugby.
Sono due storie a cui stava per assomigliare quella di Benjamin Wilson, per gli amici Benji, nero americano che nacque il 18 marzo 1967 nella stessa Chicago dove è cresciuto ed è diventato senatore l’attuale presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Il quale, da gran tifoso di basket, essendo di poco più vecchio, nei primi anni ’80 avrà senz’altro avuto modo di sentir parlare di Benji, e magari di vederlo giocare con addosso la maglia numero 25 della Simeon, la squadra del suo liceo. Una galoppata straordinaria, quella della Simeon, nel campionato statale scolastico del 1984. Quando, contro ogni pronostico, grazie ai numeri e alla visione di gioco di Benji, si aggiudica il titolo sconfiggendo in finale la favorita di sempre, che di nome faceva, e fa, Evanston High.
Qualcuno assicura che fu meglio di Jordan
Per Benji sembra il prologo di una dorata carriera prima nei campionati universitari, e poi nella Nba che, nei palasport del campionato di basket più famoso del mondo, esibisce da sempre la meglio gioventù americana in calzoncini al ginocchio. Tanto che di lui si favoleggia come dell’erede designato di Wilt Chamberlain, Bill Russell e altri grandi campioni della pallacanestro a stelle e strisce. Il problema si rivela però vivere a Chicago, in “quella Chicago” dei primi anni ’80, all’epoca una delle metropoli più violente del mondo. Dove, solo nel 1984, i morti ammazzati per strada fanno da soli un cimitero. Quello indicato nell’ordine con il numero 669 è Benji Wilson, freddato da un coetaneo che quel giorno era uscito di casa con la pistola tirata su per vendicarsi di dieci dollari rubati.
Da quel triste 20 novembre dell’84 sono trascorsi quasi trent’anni, ma non sono certo stati sufficienti a offuscare la stella di Benji Wilson. Del quale, chi l’ha visto palleggiare, servire, ed entrare a canestro,dopo avere “scherzato” con un gioco d’anca i malcapitati avversari, assicura che sarebbe stato addirittura meglio di quel Michael Jordan destinato, proprio con la maglia dei Chicago Bulls addosso, a essere indicato qualche anno più tardi come il più grande di sempre.
Meglio Benji o Michael? Domanda che basta porla per rendersi conto della sua inconsistenza, tanto grandi sono le differenze fra i due giocatori, e tanto imparagonabili sono i contesti in cui hanno giocato a basket. Eppure… C’è sempre spazio per un eppure in casi del genere. Perché, palmares e record a parte, la lirica materia è identica. Ed è quella della grazia, della forza, del carisma e della sorte che si armonizzano nel corpo e nella storia del Campione, così come ci si tramanda sin dai tempi dell’antica Grecia. Dove, possiamo starne certi, il canto di un Pindaro o di un altro poeta olimpico dell’epoca si sarebbe soffermato più sulla vita spezzata di Benji che su quella gloriosa di Michael.
Le vite spezzate che restano nel tempo
D’altra parte, che l’abbiano o meno visto giocare, a Chicago “sanno” quanto era forte, probabilmente invincibile. A cominciare da quanti, militando nelle squadre della città, hanno ottenuto di indossare la medesima maglia numero 25 di Benji. Come Derrick Rose, che quella casacca pretese al momento di guidare la Simeon alla conquista di due titoli consecutivi di Public League, prima di diventare la guardia superstar dei Bulls oggi ammirata in tutto il mondo.
Rose, Jordan, Wilson. Tre nomi, legati non solo da uno sport e una città, ma anche da un qualcosa che non sappiamo bene come definire. Un po’ Destino, un po’ magia, un po’ feeling, un po’ tradizione, un po’ talento.
Sono elementi la cui sintesi esatta non risulta possibile. Però è forse avvicinabile. Lo rammenta la toccante visione di “Benji”, il documentario che il duo registico Coodie & Chike ha dedicato alla breve vita del fuoriclasse mai approdato all’Nba. Scommessa vinta contro il tempo trascorso ma non perduto, se è vero che proprio la distanza che ormai intercorre da allora dona calore struggente e fascino malinconico alle immagini e ai ricordi di quanti sono stati testimoni del Fuoco agonistico che fiammeggiava nelle leve, nelle mani e nel cervello di Ben Wilson. Uno capace, il giorno di una storica vittoria ottenuta alla guida dei suoi Simeon contro Farragut, di trascinare tutte le gang giovanili di Chicago al palasport. Non per rubare, ma per ammirare la stella nascente del basket mondiale.
“Nascente”, e mai nata. Useremmo il participio passato se il destino di Benji si fosse compiuto del tutto. Invece dobbiamo ricorrere al presente, perché in realtà è come fosse ancora qui con noi. Intento solo a stoppare, servire, infilare palloni nel cesto. Perché, come insegnano le esistenze spezzate dei martiri, degli operai morti sul lavoro, dei soldati caduti al fronte, o dei ragazzi che si schiantano per strada, sono proprio le vite incompiute a essere ricordate più facilmente. A restare. A sfidare il tempo. A farci sperare in un’Eternità.
Stefano Ferrio
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