Una testimonianza dal fronte: Leer è sotto il controllo dei ribelli, ma si teme un attacco dei governativi. Non ci sono vie di fuga. I missionari però non vogliono andare via.
Leer è il nuovo fronte: “Arrivano auto cariche di gente e soldati feriti, fuggono da Bentiu che è stata riconquistata dai governativi”. Padre Raimundo Rocha, missionario comboniano, vive nella città di Leer da luglio 2010. Ha già vissuto momenti di grande tensione, un anno e mezzo fa. Stavolta però, è peggio: “La gente sta scappando, è presa dalla paura. Sembra che i ribelli abbiano riconquistato Malakal e vogliano riprendere anche Bentiu. Qui a Leer non si combatte, al momento, ma i governativi potrebbero attaccare, per cacciare i ribelli. Noi siamo isolati, non abbiamo vie di fuga”.
Leer è quasi al confine con il Sudan: molto, troppo vicina a Bentiu (solo 130 chilometri più a nord), snodo fondamentale per l’esportazione del petrolio, la prima città occupata dai ribelli di Riek Machar, ex vicepresidente del Sud Sudan. Leer è nello Unity State, una delle regioni più importanti del Sud Sudan: ricca di oro bianco (è bagnata dalle acque del Nilo) e nero (nel sottosuolo vi è un’enorme quantità di petrolio, che alimenta il 98 per cento dell’economia locale). E’ una regione talmente ricca, da essere condannata alla catastrofe: molti corsi d’acqua sono contaminati dagli agenti chimici e dal petrolio. Commerci illeciti e corruzione sono ai massimi livelli. La guerra non a caso si combatte soprattutto qui, per il controllo dell’economia nazionale.
“Un possibile scenario è che i governativi bombardino Leer, la distruggano”, teme padre Raimundo. Qui la popolazione è in gran parte di etnia Nuer, mentre le forze governative fedeli al presidente Salva Kiir sono dinka. Il Presidente e il suo ex vice hanno trascinato in questi scontri i loro rispettivi gruppi etnici, divisi da secoli. Padre Raimundo ragiona ancora su cosa potrebbe accadere, nei prossimi giorni: “I governativi potrebbero fermarsi a Tharjath, dove ci sono i pozzi di petrolio. Non si capisce nulla. Anche noi, missionari, stiamo decidendo sul da farsi. Non vogliamo lasciare la missione, ma potremmo essere obbligati a farlo”.
Padre Raimundo è il parroco di San Giuseppe, una parrocchia che si estende su territorio vastissimo, più grande della Svizzera. “Essere qui, a Leer, in questo momento particolare della storia, lontano dalla mia terra natale, il Brasile, dalla mia famiglia e in situazione di guerra… mi fa sentire al posto giusto, come missionario”. Tutto questo, nonostante le tensioni: “Io ho paura di subire violenza o di un attacco, ma voglio restare qui. E non solo perché mi chiamano ‘baba’, papà, ma soprattutto perché mi sentono come un loro fratello. Stare qui con la gente significa dare loro speranza, non importano i rischi che corriamo”.
Padre Raimundo non è solo. Insieme a lui vi sono quattro suore e altrettanti sacerdoti, tutti Comboniani (dall’Italia, dal Costa Rica, dall’Ecuador, dal Togo e dall’Etiopia). La parrocchia aveva varie attività sociali, soprattutto rivolte alla tutela e all’educazione delle donne e dei bambini, le fasce più svantaggiate della società locale. “La violenza contro le donne, anche in famiglia, qui è molto diffusa”. E così sono stati promossi corsi e incontri di formazione per le donne, asili, ma anche molte altre attività: corsi di formazione agricola e professionale per carpentieri, muratori e informatici. Poi vi sono le iniziative promosse dalla Commissione giustizia e pace, rivolte prima di tutto al dialogo e al confronto fra i diversi gruppi etnici, i corsi per i leader locali gestiti dai volontari della parrocchia e dai catechisti. Lo scopo è far capire alla gente (e magari ai futuri leader) che non è normale che i diritti umani vengano sistematicamente violati e che un bene prezioso come l’acqua deve essere tutelato, non può essere inquinato dagli impianti di estrazione del petrolio. “La vita è molto dura qui, ma siamo stati accolti a braccia aperte da una popolazione religiosa e aperta ai valori del Vangelo”, padre Raimundo si apre a un sorriso.
Ora però, tutte questa attività sono ferme. La guerra vieta qualsiasi spostamento. Molte strade sono bloccate, i ponti distrutti, spesso anche le linee telefoniche sono bloccate. Il parroco di Bentiu, sudanese, di etnia Dinka, è dovuto fuggire nella capitale, Juba, quando i ribelli Nuer hanno occupato la città. I suoi assistenti si sono rifugiati a Leer. “Abbiamo già accolto degli sfollati nella nostra chiesa, e ci aspettiamo che ne arrivino ancora altri. Il mercato è chiuso da tempo ormai, si temono furti e saccheggiamenti. Non arrivano rifornimenti, perché anche le vie fluviali sono presidiate dai ribelli. Se la situazione non si sblocca, fra un po’ saremo ridotti alla fame”.
Due anni e mezzo fa, il 9 luglio 2011, a Leer si festeggiava l’indipendenza del Sud Sudan: “Ero qui, a condividere la gioia e le speranze della popolazione. Era incredibile, quel giorno! Avevamo grandi aspettative”. Ora però, per padre Raimundo e la sua gente, la situazione è ben diversa: “Nessuno pensava che potessimo ripiombare nella guerra già ora, dopo un conflitto contro il nord durato decenni. C’è grande insicurezza e incertezza sul futuro. Quando la paura prende il sopravvento, ricordo che la nostra protezione viene da Dio. Noi crediamo nel potere della preghiera. Ecco perché preghiamo e chiediamo le preghiere anche di chi ci segue, da qualsiasi angolo del mondo. Preghiamo per la fine di questo conflitto e per la pace, la giustizia e la riconciliazione in Sud Sudan”.
Davide Demichelis
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