È difficile raccontare chi esattamente sia Djokovic, è difficile raccontarlo come uomo, prima ancora che come tennista...
Era il 1991 quando Jelena Gencic, ex tennista serba, lo vide per la prima volta.
Un bimbo di quattro anni, dalle orecchie a sventola, puntava i suoi occhi vispi e azzurrissimi sul campo da tennis in cui la Gencic teneva le sessioni di allenamento, in una località montana a qualche chilometro di Belgrado.
Jelena Gencic, con una straordinaria intuizione, fu la prima a capire che quegli occhi di ghiaccio nascondevano un cuore d’oro, che quelle manine che si aggrappavano alla rete metallica del campo da tennis avrebbero prodotto meraviglie, che quel bimbo, spigliato e mingherlino, era destinato a scalare con tenacia e successo i più prestigiosi tornei del mondo.
Quel bambino si chiamava Novak Djokovic.
È difficile raccontare chi esattamente sia Djokovic, è difficile raccontarlo come uomo, prima ancora che come tennista.
Chi, come lui, cresce con il rombo nelle orecchie delle bombe NATO e passa la fanciullezza in una Belgrado tormentata da una guerra sanguinosa ha poco spazio per sognare, per coltivare il proprio talento.
Eppure Nole – come adesso si fa chiamare – quel sogno l’ha serbato nel cuore gelosamente: il tennis non è stato un modo per sfuggire ad un presente sanguinoso, ma la via per riscattarsi dalle brutture che la sua tanto adorata terra gli aveva regalato. La sua prima racchetta, vivacemente dipinta con tutti i colori dell’arcobaleno, è un po’ la sintesi della sua esistenza, della tenacia che non si arrende al dolore, della voglia di vivere che non cede di fronte alla guerra.
Non a caso, dopo esser fuggito da Belgrado ed essersi allenato nei migliori centri d’addestramento d’Europa, Djokovic torna a casa: le sue braccia paffutelle si sono ricoperte di muscoli, le sue mani prima morbide ora sono snelle e callose, i suoi occhi di ghiaccio si sono ormai posati sulla terra rossa del Roland Garros, sull’erba verde di Wimbledon, sul cemento azzurro dei campi dell’Australian Open.
Nole è ormai uno dei tennisti più talentuosi dell’era moderna, attualmente al secondo posto nel ranking ATP, immediatamente dopo il suo più acerrimo rivale, Rafael Nadal. Vederli giocare uno contro l’altro non è semplicemente un piacere per chi ama la bellezza di uno sport impegnativo come il tennis, ma è una vera e propria esperienza. Nelle loro dispute non entrano in campo solo racchette, dritti e voleè, ma entrano in gioco precisione e concentrazione, forza fisica e impegno psicologico.
E non bisogna essere certo degli esperti del settore per capire come il gioco di Djokovic sia semplicemente spettacolare, sempre elegante e composto, dai movimenti decisi ma al tempo stesso quasi armoniosi.
Nonostante il successo e la fama internazionale, Nole torna sempre a casa. E non perde mai il suo sorriso timido e dolce, nemmeno quando, quindici anni dopo, è tornato su ciò che resta dei campi da tennis su cui si allenava da bambino: qualche brandello di muro, miracolosamente lasciato intatto dalle bombe.
Nole torna sempre a casa e, anzi, la porta sempre con sé.
Dopo aver disputato e vinto la quarantunesima partita contro Nadal, tenutasi a Roma qualche settimana fa, il ragazzo dagli occhi di ghiaccio e dal cuore d’oro rivolge al pubblico italiano un appello per la sua terra, colpita in quei giorni da una disastrosa alluvione. Anzi, fa di più: “Ho donato i 150mila euro di premio (vinti a Roma, n.d.r.), dopo che avevo seguito giorno per giorno le news sull’alluvione nel mio Paese” dice davanti al pubblico parigino del Roland Garros qualche settimana dopo, aggiungendo che “Lo chiamo il mio Paese, perché non mi sarei mai aspettato, dopo anni di guerra, che Bosnia, Serbia e Croazia si ritrovassero solidali in un disastro non dissimile dai disastri bellici passati. Non sto dicendo che dovremo appartenere alla stessa nazione, ma spero tanto che una solidarietà, un’umanità simile continui per sempre”.
È difficile capire chi sia l’uomo Djokovic, ancor prima che il tennista. Difficile intuire quali siano i pensieri che si celano dietro gli occhi di questo ventisettenne serbo, dalla faccia pulita e dal cuore grande. Ma non è affatto difficile immaginare quali saranno le emozioni che proverà quando, il prossimo ottobre, diventerà per la prima volta padre. Perché tenere tra le braccia il proprio bambino appena nato è un’emozione intensa, paragonabile di certo a quella che si prova alzando al cielo alla coppa di Wimbledon.
E il bimbo che nascerà si troverà cullato dalle braccia più potenti e dolci allo stesso tempo.
Le braccia di Nole.
Elisa Bonaventura
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