Ciò che si può fare è soppesare costi e benefici di ogni opzione, conseguenze di breve e di lungo termine, locali e globali, senza che questo significhi indifferenza o puro calcolo utilitaristico.
Nel gioco delle accuse reciproche tra regime e ribelli, cui si sono aggiunti i rispettivi 'alleati', sembra diventare certezza che un attacco su larga scala con armi chimiche sia stato effettivamente compiuto mercoledì a Ghouta, nei sobborghi di Damasco. Un’ignobile azione che ha fatto almeno centinaia di vittime tra i civili, bambini compresi. L’orrore del conflitto interno siriano – che conta già forse centomila morti e milioni di sfollati – riesce ancora a mostrare volti inediti e terrificanti. Lo testimoniano le immagini di insopportabile strazio diffuse a ridosso della strage (con le cautele dovute a possibili manipolazioni).
Resta ora l’interrogativo chiave: chi è stato? Può essere Assad tanto folle e sanguinario da usare i gas nel momento in cui arrivano nel Paese gli ispettori internazionali? Possono essere tanto cinici e spietati i suoi oppositori da sparare nel proprio campo per indurre le potenze occidentali a intervenire? Soltanto queste due considerazioni mostrano quanto la crisi siriana si sia avvitata e rischi di essere a breve termine inestricabile. Le voci che nelle ultime ore reclamano con più forza un intervento armato esterno potrebbero essere il segno positivo di una rinnovata attenzione alla tragedia cui per troppo tempo si è assistito inerti o si è tentato di scongiurare con strategie miopi e inadeguate.
Ma a un’analisi più attenta, che valuti con lucidità il 'facciamo qualcosa subito' di fronte all’eccidio di vecchi e bambini avvelenati e soffocati, purtroppo le cose sono tremendamente più complicate. C’è un dovere di intervento per proteggere le popolazioni vittime di attacchi che compete alle Nazioni Unite quando gli Stati interessati non lo fanno, come ricordò Benedetto XVI nel suo discorso al Palazzo di Vetro nell’aprile del 2008. Ma quale potrebbe essere il fronte su cui agire militarmente? Se pensiamo che Assad non si faccia scrupolo di gasare i suoi concittadini, dobbiamo credere che cederà dopo qualche attacco missilistico? O è più probabile che incendi tutta la regione lasciando più macerie di quelle che già costellano molte zone di un Paese fino a due anni fa abbastanza prospero e tranquillo (seppure sotto la cappa di un regime per nulla tenero, forse più in passato che in tempi recenti)? E a chi consegnare le chiavi della nuova Siria, quando è evidente che la galassia degli insorti è ormai costituita in parte non minoritaria da gruppi del radicalismo islamico, più inclini alla sharia che non alle istituzioni democratiche e più ostili alla pacifica convivenza (soprattutto con i cristiani) di quanto lo sia l’attuale governo?
Si parla, nelle stanze dei generali Nato, di 'modello Kosovo' per una possibile azione a Damasco. Eppure, dovrebbe essere chiaro il parallelo anche per tutto quello che nel 1999 (e in seguito) nei Balcani non ha funzionato. La propaganda ebbe una parte nell’enfatizzare la persecuzioni di Milosevic sulla popolazione albanese. Si sbagliò a dare molto credito agli indipendentisti dell’Uck, rivelatosi più estremista e intollerante di quanto amava dipingersi. Non furono 'chirurgici' i bombardamenti su Belgrado e la provincia insorta. Non è stata gestita efficacemente la fase post-bellica, con un Paese lacerato che fa fatica a ritrovare la strada della riconciliazione, con la minoranza serba di fatto allontanata. E tutto questo accadeva su una scala molto più piccola rispetto allo scenario siriano. Bisognava, allora, lasciare il dittatore jugoslavo agire indisturbato? Si deve, oggi, rinunciare al tentativo di fermare il bagno di sangue in Siria?
Ciò che si può fare è soppesare costi e benefici di ogni opzione, conseguenze di breve e di lungo termine, locali e globali, senza che questo significhi indifferenza o puro calcolo utilitaristico. La riflessione a mente fredda non sembra consigliare un attacco dal cielo contro le truppe e i gangli del potere di Bashar Assad, se lo scopo è soltanto quello umanitario dichiarato a parole. Il mandato Onu, che anche Obama cerca, appare un miraggio dato il fermo 'no' di Russia e Cina. E nel Medio Oriente in subbuglio un’altra ingerenza occidentale non farebbe che aggravare le tensioni. Appellarsi alla consueta via diplomatica resta però una ben misera foglia di fico, visti i risultati finora raccolti.
L’unica, difficilissima, strada praticabile pare dunque quella di provare a isolare il regime, convincendo Mosca e Pechino che il loro 'pupillo' deve fare qualche concessione e aprire un vero tavolo di trattativa interna. Nel momento in cui le economie dei Brics rallentano e gli Stati Uniti si avviano a una fortunata autarchia energetica torneranno forse a valere le 'armi' delle minacce e delle mirate ritorsioni finanziarie e commerciali, cui anche l’Europa potrebbe associarsi. Ma, inutile sottolinearlo, si tratta di strumenti ad azione lenta, mentre in Siria si muore. E noi siamo spettatori, dettagliatamente informati di ogni atrocità, con lo sconforto di chi si sente terribilmente impotente.
Andrea Lavazza
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