Il dolore, la sofferenza, il male che attanagliano i nostri ragazzi ci interpellano, ci toccano dentro e ci chiedono di fornire risposte. Non possiamo far finta di nulla o, peggio, fuggire.
Qualche giorno fa un amico mi ha chiesto se avessi visto il video-shock che tutti i TG avevano mostrato in televisione: due ragazze che si picchiavano brutalmente, attorniate da amici e conoscenti che, invece di separarle, tifavano chi per l’una, chi per l’altra, riprendendo la scena con i telefonini. Teatro della lite, l’esterno di una scuola a Bollate, in provincia di Milano.
La domanda mi ha colto di sorpresa, perché non ne sapevo nulla. Incuriosito, sono andato a leggere su internet un articolo che mi spiegasse l’accaduto.
Ho rinunciato a guardare il video, non era necessario aggiungere altro fango a quello che la TV e, ancora più spesso, il web ci presentano.
E poi due persone che si picchiano non hanno nulla di originale che meriti di essere visto. È sufficiente l’immaginazione – non ce ne vuole tanta – per rappresentarsi in tutto il suo squallore la scena mostrata dai TG.
Per la verità, in un video che riprende due ragazze che si picchiano, qualcosa di originale forse c’è: ed è il cinismo e l’indifferenza di chi fa le riprese mentre due esseri umani se le danno di santa ragione. Come se si trattasse di uno spettacolo al circo o, peggio, di un combattimento tra animali.
Di originale c’è che non te lo aspetti. Perché pensi che, davanti a due ragazze che si picchiano, la sensibilità umana sia scossa a tal punto da intervenire per separarle. A maggior ragione se si tratta di persone che conosci, compagne di classe, forse amiche.
Una sensibilità che a Bollate non c’è stata. O meglio, che probabilmente era seppellita da strati di fango, depositati sulle anime di chi urlando filmava e filmando si eccitava ancora di più.
La verità è che stiamo crescendo una generazione di ragazzi senza cuore, senz’anima, a cui noi adulti abbiamo rubato la capacità di amare. Una generazione che grida al mondo il suo bisogno di affetto ma che non trova nessuno pronto a rispondere a questo grido. Ragazzi che non hanno idea di cosa significhi amare. Lo desiderano, lo sognano, lo agognano – perché il cuore di ogni uomo è fatto per questo - ma ignorano completamente il linguaggio dell’amore.
Non conosco la storia dei ragazzi di Bollate, né delle vittime – le due ragazze che si picchiavano – né dei loro carnefici, i compagni che li filmavano come se fossero dentro un’arena. Carnefici che finiscono per essere essi stessi vittime.
Non conosco la loro storia. Conosco piuttosto molti ragazzi che vivono sulla loro pelle il dramma di famiglie distrutte, assenti, polverizzate. Un dramma che alcune volte si trasforma in rabbia violenta contro gli altri, contro la società, contro Dio; altre volte diventa insensibilità. A Bollate c’era la rabbia. E c’era anche l’insensibilità.
Alcuni giorni fa una ragazza che sta partecipando agli incontri sull’affettività mi ha scritto di non credere più all’amore, perché l’amore per lei è sempre stato fonte di sofferenza e dolore: "mi hanno sempre vista come qualcosa da usare", mi scriveva.
Non è la prima volta che raccolgo uno sfogo simile, che se da un lato mi mette davanti alle responsabilità che abbiamo noi adulti, dall’altro mi accende il cuore del desiderio di lenire la sofferenza di questi ragazzi. “Tu non sei una cosa, nessuno di noi è una cosa. Sei una persona da amare, e allo stesso tempo capace di voler bene agli altri“, le ho risposto. Il dialogo è continuato e ci siamo lasciati con la speranza reciproca che i prossimi incontri possano farle cambiare idea.
Ecco la ricetta per non perdere la speranza. Il dolore, la sofferenza, il male che attanagliano i nostri ragazzi ci interpellano, ci toccano dentro e ci chiedono di fornire risposte. Non possiamo far finta di nulla o, peggio, fuggire.
Di fronte a fatti come quelli di Bollate e alle analisi sociologiche che dipingono un futuro buio e pessimistico è facile scoraggiarsi e tirare in remi in barca. Che poi significa abdicare al ruolo educativo, rimanere bloccati dalla paura di sbagliare con i figli, o, nei casi peggiori, rinunciare a mettere al mondo figli per il timore di vederli soccombere in un mondo che sta diventando invivibile.
Gettare la spugna sarebbe una reazione comprensibile ma che, probabilmente, ci lascerebbe con l’amaro in bocca tipico di chi alza bandiera bianca.
Accogliere la sfida educativa significa rilanciare, credere che si può ancora cambiare, alimentare la speranza di far invertire la rotta ad un mondo che sembra andare verso il precipizio.
Gli adulti di domani sono quei ragazzi che oggi ci guardano e ci chiedono di mostrare loro che vale la pena giocarsi la vita per qualcosa di grande.
Basta davvero poco a riaccendere il cuore dei ragazzi.
È sufficiente accendere il nostro di cuore.
Il resto verrà da sé.
Saverio
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