Una solitudine abitata dall'amore

Qual è dunque l'ultimo, il supremo grado dell'umiltà? Ignazio lo presenta così: seguire e imitare Cristo umile, crocefisso, abbandonato. È l'umiltà dei folli di Dio, di quelli che non cercano gli applausi delle platee di questo mondo... È la croce il luogo dove la solitudine raggiunge il suo vertice perché lì abita Dio separato da Dio...

Una solitudine abitata dall’amore

da Teologo Borèl

del 03 settembre 2005

C’è nella seconda settimana degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola - testo la cui bellezza e ricchezza di umanità oltre che di spiritualità non cessa di stupire – un brano in cui egli presenta i tre gradi dell’umiltà.

 

Ignazio dice che il primo grado dell’umiltà è quello di obbedire ai comandamenti, di osservare la legge: è il compimento del precetto, la legalità. A questo livello, la solitudine è vinta dalla sicurezza di obbedire alla legge. Ma questo non è ancora perfezione.

 

C’è un secondo grado dell’umiltà: è quello di chi si fa indifferente a ricchezza e povertà, cioè di chi è pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui. I mistici definiranno questo grado la resignatio ad infernum, cioè l’amare Dio fino al punto di essere pronti ad andare all’inferno se Dio lo volesse, amandolo dunque non per le sue ricompense, ma di un amore così puro da volere soltanto quello che lui possa volere per noi, perfino l’inferno; ma anche questo non è perfezione.

 

Qual è dunque l’ultimo, il supremo grado dell’umiltà? Ignazio lo presenta così: seguire e imitare Cristo  umile, crocefisso, abbandonato. È l’umiltà dei folli di Dio, di quelli che non cercano gli applausi delle platee di questo mondo, di quelli che vogliono essere nascosti con Cristo in Dio, abitare nella solitudine divina, non per disprezzo del mondo, ma come nel luogo dell’amore.

 

Solo la consegna della croce, solo l’abbandono del Figlio - «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» - è solitudine scelta per amore.

 

È questo il vangelo della croce: non la ridicolizzazione del dolore del mondo, anzi, al contrario, l’estrema presa sul serio del dolore del mondo, al punto che Dio fa suo questo dolore, che Dio comunione, Trinità d’amore, abita la solitudine.

 

La croce è l’ora della morte in Dio.

 

La croce è l’ora in cui si sperimenta il dolorosissimo momento dell’abbandono, perché nella compagnia dei senza Dio e dei maledetti da Dio il Figlio di Dio fatto peccato per noi, «maledetto» come dice Paolo (Gal 3,13), possa poi portare noi, gli abbandonati, i senza Dio, i maledetti da Dio nella comunione con Dio.

 

È la croce il luogo dove la solitudine raggiunge il suo vertice perché lì abita Dio separato da Dio, lì è la morte che tocca il cuore divino, non l’atea e banale morte di Dio, ma la tragica, serissima e dolorosissima morte in Dio. Un evento che tocca il mistero della divinità.

 

Entrato nell’abisso della solitudine, Dio vince però la solitudine: è il momento della risurrezione, inseparabile dalla croce. Non si possono contrapporre questi due momenti: la croce è rivelazione del Deus crucifixus come diceva Agostino, essa è tutta abitata da Colui che vince la morte, e Colui che vince la morte è e resterà l’Agnello sgozzato in piedi, Colui che porta le piaghe della croce nel cuore stesso di Dio.

 

La croce è dunque storia trinitaria, come lo è la resurrezione. In altre parole, restituendo lo Spirito al Figlio che è entrato nella comunione dei senza Dio, il Padre raggiunge nel Figlio la nostra solitudine («L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo»: Rm 5,5).

 

Questo è il vangelo di Paolo, il vangelo di una comunione possibile nonostante la nostra solitudine, il vangelo di un amore che può nascere lì dove sembrerebbe che non ci sia amore: è il vangelo – direbbe Karl Barth – della  «impossibile possibilità» di Dio, della solitudine vinta, non perché svuotata della sua tragicità, ma perché abitata dall’amore, da un amore che ama di più e amando di più fa compagnia a Dio nel suo dolore e dunque ai senza Dio nel loro dolore.

 

Questa è la vittoria di Pasqua, questa è la possibilità promessa, questo è il dono dello Spirito che solo colma la solitudine di comunione e la comunione di solitudine vera.

 

Dopo la morte e la resurrezione, è questo il momento dell’effusione dello Spirito in noi: che cos’è lo Spirito che vive in noi se non la solitudine di Dio nella solitudine dell’uomo e la solitudine dell’uomo nella solitudine di Dio, al punto che da questa solitudine scaturisca la profondissima comunione, la gioia della vita? Questo è vivere secondo lo Spirito.

 

 

Da Bruno Forte, Solitudine dell’uomo solitudine di Dio, Morcelliana 2003.

 

mons. Bruno Forte

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