Secondo mio marito non ho il dono della sintesi. Deve essere per questo che ascolta circa un decimo delle cose che gli dico, e ammetto che potrebbe essere un metodo dotato di un suo senso, se non fosse che a volte tra i nove decimi che non ascolta ci sono informazioni fondamentali, tipo che la macchina ha il serbatoio vuoto.
Secondo mio marito non ho il dono della sintesi. Deve essere per questo che ascolta circa un decimo delle cose che gli dico, e ammetto che potrebbe essere un metodo dotato di un suo senso, se non fosse che a volte tra i nove decimi che non ascolta ci sono informazioni fondamentali, tipo che la macchina ha il serbatoio vuoto (trovo molto più comodo avvisare mio marito, piuttosto che andare dal benzinaio; è anche più economico come metodo).
Comunque, dicevamo, non avendo il dono della sintesi, faccio ora un grande sforzo nel tentativo di definire la buona madre (per quanto il mio abbordabile obiettivo esistenziale sia di essere una madre decente, mi accontento).
La donna, nonostante si cerchi da ogni parte di negare questa semplice evidenza, è chiamata principalmente a dare la vita, in tutti i modi che le siano possibili. Una vita che non è solo biologica, quella che dà ai figli, ma che può essere anche solo la vicinanza, la prossimità a coloro che le si avvicinano. Una vita da dare ai figli, al marito, agli amici, a volte anche ai genitori. “La donna, come scrive Joseph Ratzinger, conserva l’intuizione che il meglio della sua vita è fatto di attività orientate al risveglio dell’altro, alla sua crescita, alla sua protezione”. È innegabile che la donna profondamente realizzata, come l’ha pensata Dio, abbia uno stile materno anche nel lavoro, cioè lavori per tirare fuori il meglio dagli altri, e non per schiacciarli. Infatti le donne in carriera, quelle che rinnegano la loro maternità nella professione, sono una caricatura di se stesse.
Questa chiamata alla donna viene dal fatto di essere creatura: la sua identità non è scelta, ma donata, e proprio per questa speciale vocazione. La donna è programmata per dare la vita, tutto in lei serve a questo, il corpo in grado di trasformarsi, la capacità di fare più cose insieme (tutte male, mi dicono in famiglia), un orecchio capace di decifrare il linguaggio dei bambini che ancora non parlano (non esiste al mondo un uomo che sappia distinguere un pianto di neonato che ha una colichetta da uno che ha solo sonno). Alcune di noi poi si mettono in testa di usare questo speciale traduttore di cui sono dotate anche con gli uomini adulti, cercando di indovinarne pensieri e desideri, e facendoli regolarmente arrabbiare, ma questo è un altro discorso.
A me sembra che la donna che neghi questa sua speciale e definitiva vocazione sia profondamente infelice, anche quando cerchi di nascondere questa infelicità persino a se stessa, soprattutto all’età in cui il tempo dei figli è finito (anche se i giornali non lo ricordano mai, e trattano con naturalezza neo madri quarantenni, primipare tardive, in realtà a 35 anni la fertilità di una donna si riduce della metà, per poi declinare rapidamente). Allora comincia a pretenderlo, questo figlio prima rifiutato, o non messo al primo posto della lista delle priorità. A inseguirlo a qualsiasi costo, tentando tutte le vie possibili qui in Italia o magari andando all’estero.
Conosco tantissime donne – in certi ambienti di lavoro direi che sono anzi la maggioranza – che si accorgono a un certo punto di avere buttato la propria vita dietro le chiacchiere dei giornali e dei film, che le hanno invitate a cercare se stesse e a realizzarsi, prima di essere pronte a dare la vita. Solo che purtroppo, contrariamente a quanto dicono i film, non è vero che non è mai troppo tardi, non è vero che c’è sempre una seconda possibilità, non è vero che tutte le porte sono sempre aperte. Sono donne spesso molto tristi, arrabbiate, ferite dalla vita.
Il rifiuto e la pretesa della maternità sono due mostri generati dallo stesso peccato (che poi è sempre quello, quello originale): il negare di essere creatura, di avere dei limiti biologici e temporali, di non essere, noi uomini, arbitri della realtà, quindi il non voler accettare che noi non sappiamo da soli neanche cosa sia meglio per noi.
La contraccezione, la liberalizzazione dei costumi sessuali, le tecniche di manipolazione in vitro ci hanno messo in mano un potere che non sappiamo gestire, perché neanche noi stessi sappiamo cosa c’è nel nostro cuore, e se lo seguiamo lasciandoci guidare da lui rischiamo di sbagliare, e di sbagliare pesantemente, senza contare il male che facciamo ai bambini che trattiamo come se noi fossimo i padroni delle loro vite.
La Chiesa è nostra madre, e con saggezza materna ci insegna quello che ci fa stare bene, e quando ci dice come è meglio vivere la sessualità non la fa perché è sadica, e si diverte a toglierci il piacere. Sa che vivere la sessualità secondo Dio ci custodisce, ci impedisce di trovarci a un certo punto della vita soli e infecondi (ed è tutta un’altra cosa quando i figli non arrivano, ma non perché ci si è chiusi a questa possibilità, e si può vivere con accoglienza anche questa dolorosa mancanza, che magari può diventare apertura verso altre necessità, perché il mondo ha sempre e in mille modi bisogno di madri e padri generosi).
E allora? – come direbbero i miei figli quando mi invitano a stringere, a tagliare corto con la predichella, come la chiamano loro. Allora il compito di noi cattolici, e soprattutto cattoliche – perché sono soprattutto le donne chiamate a custodire la vita – è mostrare con la nostra vita la profonda ragionevolezza, la convenienza, oserei dire, di un’apertura alla vita nel matrimonio così come ce la insegna nostra madre, la Chiesa. Di fronte alla nostra felicità le paladine della maternità come diritto – sono io che decido se, e come, e quando – e non come dono – Dio sa cosa è meglio per noi e per i suoi figli che ci vuole affidare – di fronte a questa felicità, dicevo, non ci saranno proteste e manifestazioni di piazza e rivendicazioni che terranno.
Costanza Miriano
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