La vecchiaia è così il tempo dell'anamnesi, del ricordo, e del racconto: si ha il bisogno di narrare, di dire la propria vita, per poterla assumere vedendola accolta da un altro che la ascolta e la rispetta. E questo racconto può divenire trasmissione di un'esperienza di fede...
del 01 gennaio 2002
«Io individuo quattro motivi per cui la vecchiaia sembra triste: primo, perché allontana dall’attività; secondo, perché indebolisce il corpo; terzo, perché nega quasi tutti i piaceri; quarto, perché non dista molto dalla morte.» A questo giudizio di Cicerone (De senectute), oggi noi potremmo aggiungere un ulteriore motivo che rende penosa la vecchiaia. Ed è questo: l’era della tecnica ha spiazzato e reso fuori luogo l’adagio che legava vecchiaia e sapienza e vedeva nell’anziano il depositario di una memoria, di un’esperienza che lo rendeva elemento fondamentale nel gruppo sociale. La «sapienza dell’anziano» pare relitto di un passato ormai remoto oppure ancora presente in civiltà non toccate dal progresso tecnologico e informatico che ci paiono ancora più distanti. L’anziano, nel contesto di una società che esalta la produttività, l’efficienza e la funzionalità, si trova emarginato, reso superfluo, inutile, e spesso egli stesso «si sente di peso» ai familiari e alla società. In simile contesto la vecchiaia appare come un passaggio faticoso da una condizione in cui si è definiti dal lavoro o dal ruolo sociale, a una sorta di zona morta di pura negatività, la «pensione», un limbo in cui si è definiti da ciò che non si è più e non si fa più.
Per quanto il discorso sulla vecchiaia sia in realtà un discorso plurale che deve diversificarsi in ogni anziano prestando attenzione alle particolari situazioni di salute fisica e mentale in cui ciascuno si viene a trovare, è pur vero che la vecchiaia è vita a pieno titolo, è una fase particolare di un cammino esistenziale, non una mera anticamera della morte. «La vecchiaia si offre all’uomo come la possibilità straordinaria di vivere non per dovere, ma per grazia» (K. Barth). Già di per sé essa è uno stadio della vita che non tutti arrivano a conoscere: lo stesso Gesù non ha conosciuto la vecchiaia. Dunque essa è anzitutto un dono che può essere vissuto con gratitudine e nella gratuità: si è più sensibili agli altri, alla dimensione relazionale, ai gesti di attenzione e di amicizia; inoltre è la grande occasione per operare la sintesi di una vita. Arrivare a dire «grazie» per il passato e «sì» al futuro significa compiere un’operazione spirituale veramente essenziale soprattutto in vista dell’incontro con la morte: l’integrazione della propria vita, la pacificazione con il proprio passato.
La vecchiaia è così il tempo dell’anamnesi, del ricordo, e del racconto: si ha il bisogno di narrare, di dire la propria vita, per poterla assumere vedendola accolta da un altro che la ascolta e la rispetta. E questo racconto può divenire trasmissione di un’esperienza di fede: il Salmo 71, la «preghiera di un vecchio», ne è un bell’esempio. Nell’indubbia decadenza fisica e mentale, nel venir meno delle forze, nella riduzione delle possibilità che la vecchiaia comporta vi è però anche la possibilità di affrontare in modo più diretto le domande che la vita pone, senza le evasioni e le illusioni che le molteplici attività potevano consentire quando si era più giovani. Che cosa valgo? Che senso ha la vita? Perché morire? Che significano le sofferenze e le perdite di cui l’esistenza è piena? E anche la domanda religiosa, anche la fede può acquisire coscienza e profondità: «Finché era più giovane, l’uomo poteva ancora immaginarsi di essere lui stesso ad andare incontro al suo Signore. L’età deve diventare per lui l’occasione per scoprire che invece è il Signore che gli viene incontro per assumere il suo destino» (K. Barth).
Vi è dunque un proprium di ciascuna fase della vita: anche di fronte alla vecchiaia si tratta anzitutto di accettarla pienamente e questo consentirà di non viverla come tempo di rimpianto e di nostalgia, ma di coglierla come tempo di essenzializzazione e di interiorizzazione proprio all’interno di quel movimento di «assunzione della perdita» che assimila la vecchiaia a un movimento di kénosi. «Ciò che la giovinezza troverà al di fuori, l’uomo nel suo meriggio deve trovarlo nell’interiorità» (C. G. Jung). Lì si svela la fecondità possibile della vecchiaia (cfr. Salmo 92, 15: «Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi»), una fecondità manifestata nella tenerezza e nella dolcezza, nell’equilibrio e nella serenità... È il tempo in cui una persona può affermare di valere per ciò che è e non per ciò che fa. Ovvio che questo non dipende solamente da lui, dall’anziano, ma anche e particolarmente da chi gli sta intorno e dalla società che può accompagnarlo nel compito di vivere la vecchiaia come compimento e non come interruzione O come fine. Anzi, la vecchiaia è un momento di verità che svela come la vita sia costitutivamente fatta di perdite, di assunzione di limiti e di povertà, di debolezze e negatività. La vecchiaia, ponendo l’uomo in una grande povertà, lo mette anche in grado di cogliersi nella sua verità, quella che si svela al di là di ogni orpello e di ogni esteriorità. Forse non è un caso che, per Luca, il Vangelo si apra con due figure di anziani: Simeone e Anna che riconoscono e indicano Gesù come Messia. L’anziano fa segno, indica, trasmette un sapere. Ed è, con la sua vecchiaia pacificamente assunta davanti a Dio e davanti agli uomini, un segno di speranza e un esempio di responsabilità.
Enzo Bianchi
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