Vincenzo Cimatti

il don Bosco del Giappone

Ricorre oggi 6 ottobre l'anniversario di morte del venerabile Vincenzo Cimatti, salesiano missionario in Giappone. Dai suoi scritti ripercorriamo alcuni stralci della sua vita.

La regione in cui io nacqui della Emilia e Romagna al presente è rossa, ma nel passato fu zona di pace e amante della fede che vi era fiorente. Mio papà era un lavoratore a giornata della città di Faenza: ebbe sei figli, ma tre di essi morirono in giovane età. Quando nacqui io avevo un fratello (Luigi) di 10 anni ed una sorella (Santina) di 16. Papà, oltre che ad essere molto occupato nel suo lavoro, morì allorché io avevo tre anni: per questo l'educazione dei figli fu opera quasi esclusiva della mamma (Rosa).
Il punto su cui ella maggiormente insisteva era: «I doveri verso Dio sempre, ovunque ed il meglio che sia possibile. Che, senza lasciarsi influenzare da questo o quello, bisogna avere un forte senso di responsabilità. Che una cosa per il solo fatto che è dovere, bisogna farla anche a costo di sacrificio». Non lasciava occasione propizia senza ripeterci questi suoi insegnamenti.
Ci diceva inoltre: «Prima di tutto il dovere e poi il divertimento». Pur noi essendo in un'età in cui si ama assai il divertimento Ella esigeva che senza eccezione di sorta si seguisse questo ordine. Inoltre mia mamma faceva molta attenzione ai compagni coi quali trattavamo. Tutte le volte che si tornava dalla scuola dovevamo fare relazione minuta di quanto c'era stato in quel giorno. Va, senza dirlo, che Ella non ci permetteva nessun apprezzamento sul cibo. Il nostro pasto consisteva in poca carne, e cibi naturali più che quelli manufatti. La nostra bevanda solita era l'acqua, alle volte con mescolato un po' di vino. Per dormire era in uso il duro pagliericcio e, secondo un proverbio italiano, si andava a dormire colle galline (presto alla sera), per alzarsi coi galli (presto al mattino). Nei giorni di vacanza poi ci mandava dai nostri parenti a dar loro una mano nei lavori campestri.
Tra gli insegnanti delle classi elementari ricordo quello di seconda. Era di statura alta ed aveva una faccia che incuteva timore, però si prendeva buona cura degli allievi. Ricordo ancora la sua persona allorché ci parlava di Nostro Signore circondato dai fanciulli.
Oltre a lui un'altra persona indimenticabile di quegli anni: il parroco! Oh, il suo aspetto quando saliva l'altare per la Santa Messa!... Le sue prediche che sgorgavano proprio dal cuore e la sua spiegazione del catechismo si imprimevano indelebilmente in coloro che lo ascoltavano. Quel vecchio sacerdote poteva benissimo applicare a sé le parole di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede, per me in Cielo già è preparata la corona di giustizia».
A nove anni sono entrato nel collegio salesiano: da allora sono stato educato secondo lo spirito del grande educatore San Giovanni Bosco. (Da un articolo del 1° luglio 1954.)

Nel 1877, proprio il 16 di maggio, quella sant'anima del nostro monsignor Taroni ebbe a Torino il suo primo incontro con Don Bosco e risale a quell'epoca la cordiale e profonda intesa spirituale fra i due santi, che stabilì fra il Seminario di Faenza e il Santuario di Valdocco quella corrente di spirituali rapporti che diedero i preziosi frutti che tutti abbiamo constatato e constatiamo.
Don Bosco asseriva: «I Faentini mi hanno rubato il cuore, e mi obbligano, e mi costringono ad andarli a trovare». E venne tra noi (proprio il 13 maggio 1882; se non erro proprio quest'anno festa della nostra cara Madonna delle Grazie). La mattina del 14 (domenica) Don Bosco celebrò in Duomo all'altare della Madonna, cui consacrò la nascente opera salesiana in Faenza.
 Alla sera predicò a centinaia di ragazzi. A don Giuseppe, Sacerdote di Faenza (13 aprile 1956)

Perdetti il padre (non l'ho conosciuto) e Gesù mi ha subito dato a Don Bosco, che ricordo di aver visto da piccino (tre anni, ed è uno dei pochissimi e fuggevoli ricordi d'infanzia) sul pulpito della Chiesa dei Servi di Maria a Faenza, mentre la mamma mi alzava sulle braccia sulla fitta moltitudine dicendo: «Guarda Don Bosco!». E Don Bosco ha fatto suo anche mio fratello Luigi e per un tratto d'ineffabile bontà della Provvidenza il Signore ha voluto don Vincenzo suo sacerdote. A don Filippo Rinaldi, Rettor Maggiore (18 marzo 1933).

Il fratello mi portava all'Oratorio fin dall'inizio della fondazione. Vestivo ancora i vestiti bambineschi. Mi piaceva la musica e mi facevano cantare le canzoni apprese all'asilo. Alle 11,30 suonava il campanello per il canto. Il sottoscritto correva all'uscio, e, piccolo di statura, non riusciva ad arrivare alla maniglia ed, anche alzandomi sulla punta dei piedi, finivo col cadere, e sempre battendo la fronte. Correvano ad alzarmi e a bagnare coll'acqua fresca la fronte e legarmela stretta con un fazzoletto, mettendo alle volte un soldo (sostanza fredda... da noi si usava così), perché non si formasse il gonfiore. Mi facevano sedere su un banco. Essi cantavano e Vincenzo dormiva... e così ero punito del desiderio musicale e della troppa fretta. A don Giuseppe Grigoletto, suo ex-allievo (28 aprile 1951).

Mi rivedo bambino e fanciullo, quando la mamma o la sorella, tutte le volte che si passava vicino alla Cattedrale, mi guidavano all'altare della Madonna delle Grazie. Mi rivedo sull'orchestra del Duomo quando, in feste speciali, era invitata la cantoria dell'Istituto Salesiano, cui appartenevo. A don Giuseppe, di Faenza (13 aprile 1956).

Quando ero bambino (no, fanciullo) in collegio cantavo come un (angelo). Poi venne il cambio di voce e mi dissero di non cantar più. E mi adontai... e per un po' non cantai... e ho avuto anche il pensiero: "Ora la musica perisce. A don Federico Barbaro, salesiano (1 agosto 1937).

Quanti ricordi di Faenza, dei superiori, dei compagni, delle vicende... i più vecchi del primo oratorio del Borgo, i Pifferi, i Brunori. Sono in relazione epistolare con Facchini di Bologna.... Ho l'indirizzo di alcuni dei nostri tempi (Valpondi - Mussolesi, ecc). Le mie relazioni coi compagni più che altro relazioni spirituali di preghiere. Certo anche il bravo Antonio vi è compreso. A Antonio Leardini, compagno di collegio (24 giugno 1959).

È nella casa salesiana di Este, in due anni consecutivi (mi pare 1894-95) negli esercizi spirituali, che si iniziò e maturò la mia vocazione salesiana. A don Antonio Griggio, salesiano ad Este (19 dicembre 1961).

Non è facile per il sottoscritto rispondere alla domanda: «Perché mi sono fatto sacerdote?». Il motivo è da trovarsi nel fatto che ho incominciato a percorrere la via al sacerdozio nel periodo di passaggio tra la fanciullezza all'adolescenza.
Era l'anno 1895 e stavo per finire i miei studi ginnasiali. Un giorno il mio Direttore del Collegio salesiano di Faenza mi chiamò e senz'altro mi chiese se volevo andare a Torino e là studiare assai di più. Naturalmente io desideravo andare a Torino. C'ero già stato una volta come membro della schola cantorum di cui facevo parte come soprano. Per di più mi piaceva assai viaggiare... Va da sé che accettai subito la proposta del mio Direttore.
Uscito dalla Direzione mi incontrai con un chierico assistente - il quale appena mi vide mi chiese a bruciapelo: «Che cosa ti ha detto il Direttore?». Io gli raccontai quanto era avvenuto e quanto mi aveva detto il Direttore. Non omisi di aggiungere: «Certamente andrò a Torino!». Il chierico assistente allora col volto tutto serio aggiunse: «Sai che cosa vuol dire andare a Torino? Appena sarai arrivato troverai all'ingresso dell'Oratorio Salesiano una botte piena di inchiostro... E ognuno dei giovani come te che vi entrano saranno immersi in essa, e saranno estratti dalla botte da Don Bosco tutto neri...». 
Era evidente che egli aveva voglia di scherzare.
«Che ne esca nero o bianco a me non importa. A me piace viaggiare e desidero vedere come è il mondo!» fu la mia risposta. Da un articolo (1950 circa).

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