Giovani carissimi,
voi mi avete più volte dimandato, giovani carissimi, di scrivervi qualche cosa intorno al vostro compagno Savio Domenico; ed io ho fatto quello che ho potuto per appagare questo vostro pio desiderio. Eccovi la vita di lui descritta con quella brevità e semplicità che so tornare a voi di gradimento.
Due difficoltà si opponevano alla pubblicazione di questo lavoro; la prima è la critica a cui per lo più va soggetto chi scrive cose delle quali havvi moltitudine di testimoni viventi. Questa difficoltà credo di aver superato col farmi uno studio di narrare unicamente le cose che da voi o da me furono vedute, e che quasi tutte conservo scritte e segnate di vostra mano medesima.
Altro ostacolo era il dovere più volte parlare di me, perciocché essendo questo giovane vissuto circa tre anni in questa casa, mi tocca sovente di riferire cose, a cui ho preso parte. Questo ostacolo credo pure di aver superato tenendomi al dovere dello storico, che è di scrivere la verità dei fatti, senza badare alle persone. Tuttavia se troverete qualche fatto, ove io parli di me con qualche compiacenza, attribuitela al grande affetto che io portava all'amico defunto e che porto a tutti voi; il quale affetto mi fa aprire a voi l'intimo del mio cuore, come farebbe un padre, che parla ai suoi amati figli.
Taluno di voi dimanderà, perché io abbia scritto la vita di Savio Domenico e non quella di altri giovani che vissero tra noi con fama di specchiata virtù. È vero, miei cari, la Divina Provvidenza si degnò di mandarci parecchi modelli di virtù; tali furono Fascio Gabriele, Rua Luigi, Gavio Camillo, Massaglia Giovanni', ed altri: ma le azioni di costoro non sono state ugualmente note e speciose come quelle del Savio, il cui tenor di vita fu notoriamente maraviglioso.
Per altro, se Dio mi darà sanità e grazia, ho in animo di raccogliere le azioni di questi vostri virtuosi compagni, per essere in grado di appagare i vostri ed i miei desiderii col darvele a leggere e ad imitare in quello che è compatibile col vostro stato.
In questa quinta edizione poi, ho aggiunto varie notizie che spero la renderanno interessante anche a coloro che hanno già letto quanto si è nelle antecedenti edizioni stampato'.
Intanto cominciate a trar profitto da quanto vi verrò descrivendo; e dite in cuor vostro quanto diceva S. Agostino: Si ille, cur non ego? Se un mio compagno, della stessa mia età, nel medesimo luogo, esposto ai medesimi e forse maggiori pericoli, tuttavia trovò tempo e modo di mantenersi fedele seguace di Gesù Cristo, perché non posso anch'io fare lo stesso? Ricordatevi bene che la religione vera non consiste in sole parole; bisogna venire alle opere'. Quindi, trovando qualche cosa degna d'ammirazione, non contentatevi di dire questo è bello, questo mi piace. Dite piuttosto: voglio adoperarmi per far quelle cose che lette di altri, mi eccitano alla maraviglia.
Dio doni a voi e a tutti i lettori di questo libretto sanità e grazia per trar profitto di quanto ivi leggeranno; e la Vergine Santissima, di cui il giovane Savio era fervoroso divoto, ci ottenga di poter fare un cuor solo ed un'anima sola per amare il nostro Creatore, che è il solo degno di essere amato sopra ogni cosa, e fedelmente servito in tutti i giorni di nostra vita.
I genitori del giovinetto, di cui intraprendiamo a scrivere la vita, furono Savio Carlo e Brigida di lui consorte", poveri, ma onesti concittadini di Castelnuovo d'Asti, paese distante dieci miglia da Torino.
L'anno 1841, trovandosi i buoni coniugi in gravi strettezze e privi di lavoro, andarono a dimorare in Riva, paese distante due miglia da Chieri, ove il marito si diede a fare il fabbro-ferraio, mestiere a cui erasi nella sua giovinezza esercitato. Mentre dimoravano in questo paese, Dio benedisse il loro matrimonio concedendo un figliuolo, che doveva esser la loro consolazione. La nascita di lui avvenne il 2 di aprile 1842. Quando lo portarono ad esser rigenerato nelle acque battesimali, gl'imposero il nome di Domenico, la qual cosa, sebben per sé sia indifferente, tuttavia fu soggetto di alta considerazione per il nostro fanciullo, siccome vedremo.
Le sollecitudini dei buoni genitori erano tutte rivolte a dare una cristiana educazione al loro fanciullo, che fin d'allora formava l'oggetto delle loro compiacenze. Egli aveva sortito dalla natura un'indole buona, un cuore propriamente nato per la pietà. Apprese con maravigliosa facilità le preghiere del mattino e della sera, ed all'età di soli quattro anni già recitavate da sé. Anche in quella età di naturale divagazione egli dipendeva in tutto e per tutto dalla sua genitrice; e se qualche volta da lei si allontanava era solamente per mettersi in qualche cantuccio della casa e fare con maggior libertà preghiere lungo il giorno.
«Fin dalla più tenera età, affermano i suoi genitori, nella quale per mancanza di riflessione i fanciulli sono un disturbo e cruccio continuo per le madri, età in cui tutto vogliono vedere, toccare e per lo più guastare, il nostro Domenico non ci diede mai il minimo dispiacere. Non solo era ubbidiente, pronto a qualsiasi nostro comando, ma si studiava di prevenire le cose, che egli scorgeva tornare a noi di gradimento».
Erano poi curiose e nel tempo stesso piacevoli le accoglienze che faceva al padre quando lo vedeva giungere a casa, dopo i suoi ordinari lavori. Correva ad incontrarlo e presolo per mano e talor saltandogli al collo, «caro papà, gli diceva, quanto siete stanco! non è vero? voi lavorate tanto per me ed io non sono buono ad altro che a darvi fastidio; io pregherò il buon Dio che doni a voi la sanità, e che mi faccia buono». Così dicendo lo accompagnava in casa, gli presentava la sedia o lo scanno perché vi si sedesse; gli teneva compagnia e gli faceva mille carezze. Questo, dice il padre, era per me un dolce conforto nelle mie fatiche, ed io era come impaziente di giungere a casa per imprimere un tenero bacio al mio Domenico, che possedeva tutti gli affetti del mio cuore.
La sua divozione cresceva più dell'età, ed a soli quattro anni non occorreva più di avvisarlo di recitare le preghiere del mattino e della sera, prima e dopo il cibo, dell'Angelus; che anzi egli medesimo invitava gli altri di casa a recitarle qualora se ne fossero dimenticati.
Avvenne che un giorno i suoi parenti distratti da alcuni schiamazzi si posero senz'altro a desinare. «O papà, disse l'attento Domenico, non abbiamo ancora invocato la benedizione del Signore sopra i nostri cibi». Ciò detto cominciò egli stesso a fare il segno della santa croce e a recitare la solita preghiera. Altra volta un forestiere accolto in casa sua si pose parimenti a mangiare senza fare alcun atto di religione.
Domenico non osando avvisarlo si ritirò afflitto in un angolo della casa. Interrogato di poi dai suoi parenti intorno a tale novità rispose: «Io non ho osato pormi a tavola con uno che si mette a mangiare come fanno le bestie».
Qui ci sono cose che appena si crederebbero, se chi le asserisce non escludesse i nostri dubbi. Io mi attengo alla relazione che il cappellano di quella borgata (11) ebbe la cortesia dì farmi intorno a quel suo caro alunno.
«Nei primi giorni, egli dice, che io sono venuto a questa borgata di Morialdo, vedeva spesse volte un fanciullo di forse cinque anni venire alla chiesa in compagnia di sua madre. La serenità del suo sembiante, la compostezza della persona, il suo atteggiamento divoto, trassero sopra di lui gli sguardi miei e gli sguardi degli altri. Che se giunto alla chiesa l'avesse trovata chiusa, allor succedeva un ameno spettacolo. Ben lungi dallo scorrazzare o schiamazzare da sé o con altri, come sogliono fare i ragazzi di tale età, egli recavasi sul limitare della porta, si metteva in ginocchio e col capolino chinato e colle innocenti manine giunte dinanzi al petto fervorosamente pregava finché venisse aperta la chiesa. Si noti che talvolta il terreno era coperto di fango, oppure cadeva neve o pioggia; ma egli a nulla badava e vi si metteva egualmente ginocchioni a pregare'''. Maravigliato e mosso da pia curiosità ho voluto sapere chi fosse quel fanciullo, che era divenuto l'oggetto della mia ammirazione, e seppi essere il figliuolo del ferrai Carlo Savio.
Quando poi m'incontrava per la strada cominciava di lontano a dar segni di compiacenza, e con un'aria veramente angelica preveniva rispettosamente il mio saluto. Cominciò egli pure a venire alla scuola, e poiché era fornito d'ingegno ed assai diligente nell'adempimento dei suoi doveri, fece in breve tempo notevole progresso nello studio. Egli era costretto a conversare con giovani discoli e divagati, ma non mi è mai accaduto di vederlo in contesa. Se poi fosse avvenuto qualche alterco, egli, sopportando con pazienza gl'insulti dei compagni, tosto da loro si allontanava. Né mi ricordo di averlo veduto a prendere parte a divertimenti pericolosi, a dare il minimo disturbo nella scuola. Anzi molti compagni lo invitavano ad andare seco loro a fare delle burle a persone d'età avanzata, a scagliar sassi, a rubar frutta altrui o a cagionar guasti nelle campagne; ma egli destramente sapeva disapprovare la loro condotta e rifiutavasi dal prendervi parte.
La pietà già dimostrata pregando sul limitare della chiesa non venne meno col crescere dell'età. Di cinque anni egli aveva già imparato a servire la santa Messa e la serviva divotissimamente. Ogni giorno vi andava, e se altri voleva servirla, egli la ascoltava, altrimenti vi si prestava con un contegno il più edificante. Siccome era giovane d'età e piccolo di statura, non poteva trasportare il messale; ed era cosa curiosa il vederlo avvicinarsi ansioso all'altare, levarsi sulla punta dei piedi, tendere quanto poteva le braccia, fare ogni sforzo per toccare il leggio. Se il sacerdote od altri avesse voluto fargli la cosa più cara al mondo, doveva non già trasportare il messale, ma avvicinargli il leggio tanto che lo potesse raggiugnere; ed allora egli con gioia lo portava all'altro lato dell'altare".
Si confessava con frequenza, e come fu capace di distinguere il pane celeste dal pane terreno, venne ammesso alla santa comunione, che egli riceveva con una divozione veramente ammirabile. Alla vista di quei belli lavori, che la grazia Divina compieva in quell'anima innocente, ho più volte detto tra me: Ecco un giovinetto di ottime speranze. Dio voglia che gli si apra una strada per condurre a maturità frutti così preziosi» (fin qui il cappellano di Morialdo).
Nulla mancava a Domenico per essere ammesso alla prima comunione. Sapeva a memoria tutto il piccolo catechismo; aveva chiara cognizione di questo augusto sacramento, e ardeva dal desiderio di accostarvisi. Soltanto l'età se gli opponeva, perciocché nei villaggi ordinariamente non si ammettono i fanciulli a fare la prima comunione se non agli undici o dodici anni compiuti". Il Savio correva soltanto il settimo anno di sua età. Oltre la fanciullesca sembianza" aveva un corpicciuolo che lo faceva parer ancor più giovane; sicché il cappellano esitava a promuoverlo. Ne dimandò anche consiglio ad altri sacerdoti, i quali ponderata bene la cognizione precoce, l'istruzione ed i vivi desideri di Domenico, lasciarono da parte tutte le difficoltà, e lo ammisero a partecipare per la prima volta al cibo degli angeli".
È assai difficile esprimere gli affetti di santa gioia, di cui gli riempì il cuore un tale annunzio. Corse a casa e lo disse con trasporto alla madre; ora pregava, ora leggeva; passava molto tempo in chiesa prima e dopo la messa, e pareva che l'anima sua abitasse già cogli angeli del cielo. La vigilia del giorno fissato per la comunione' 9 chiamò la sua genitrice: «Mamma, le disse, domani vo a fare la mia comunione; perdonatemi tutti i dispiaceri che vi diedi per il passato: per l'avvenire vi prometto di essere molto più buono; sarò attento alla scuola, ubbidiente, docile, rispettoso a quanto sarete per comandarmi». Ciò detto fu commosso e si mise a piangere. La madre, che da lui non aveva ricevuto altro che consolazioni, ne fu ella pure commossa e rattenendo a stento le lacrime lo consolò dicendogli: «Va' pure tranquillo, caro Domenico, tutto è perdonato: prega Iddio che ti conservi sempre buono, pregalo anche per me e per tuo padre».
Al mattino di quel memorando giorno si levò per tempo e, vestitosi dei suoi abiti più belli, andò alla chiesa che trovò ancor chiusa. S'inginocchiò, come già aveva fatto altre volte, sul limitare di quella e pregò finché giungendo altri fanciulli ne fu aperta la porta. Tra le confessioni, preparazione e ringraziamento della comunione la funzione durò cinque ore. Domenico entrò il primo in chiesa e ne usci l'ultimo. In tutto quel tempo egli non sapeva più se fosse in cielo o in terra.
Quel giorno fu per lui sempre memorabile e si può chiamare vero principio o piuttosto continuazione di una vita, che può servire di modello a qualsiasi fedel cristiano. Parecchi anni dopo facendolo parlare della sua prima comunione, gli si vedeva ancor trasparire la più viva gioia sul volto. «Oh! quello, soleva dire, fu per me il più bel giorno ed un gran giorno». Si scrisse alcuni ricordi che conservava gelosamente in un libro di divozione e che spesso leggeva. Io ho potuto averli tra le mani e li inserisco qui nella loro originale semplicità. Erano di questo tenore: «Ricordi fatti da me Savio Domenico l'anno 1849 quando ho fatta la prima comunione essendo di 7 anni. 1° Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore mi darà licenza. 2° Voglio santificare i giorni festivi. 3° I miei amici saranno Gesù e Maria. 4° La morte, ma non peccati».
Questi ricordi, che spesso andava ripetendo, furono come la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Se tra quelli che leggeranno questo libretto vi fosse mai chi avesse ancora da fare la prima comunione, io vorrei caldamente raccomandargli di farsi modello il giovane Savio. Ma raccomando poi quanto so e posso ai padri, alle madri di famiglia e a tutti quelli che esercitano qualche autorità sulla gioventù, di dare la più grande importanza a questo atto religioso. Siate persuasi che la prima comunione ben fatta pone un solido fondamento morale per tutta la vita"; e sarà cosa strana che si trovi alcuno che abbia compiuto bene quel solenne dovere, e non ne sia succeduta una vita buona e virtuosa. Al contrario si contano a migliaia i giovani discoli, che sono la desolazione dei genitori e di chi si occupa di loro; ma se si va alla radice del male si conosce, che la loro condotta cominciò ad apparire tale nella poca o nessuna preparazione alla prima comunione. È meglio differirla, anzi è meglio non farla, che farla male.
Compiute le prime scuole, Domenico avrebbe già dovuto molto prima essere inviato altrove per proseguire i suoi studi, il che non poteva fare in una cappellania di campagna. Ciò desiderava Domenico, ciò eziandio stava molto a cuore ai genitori di lui. Ma come effettuarlo mancando affatto i mezzi pecuniari? Iddio, padrone supremo di tutte le cose, provvederà i mezzi necessari affinché questo fanciullo possa camminare per quella carriera a cui lo chiama. «Se io fossi un uccello, diceva talvolta Domenico, vorrei volare mattina e sera a Castelnuovo e così continuare le mie scuole».
Il suo vivo desiderio di studiare gli fece superare ogni difficoltà e risolse di recarsi alla scuola municipale del paese, sebbene vi fosse la distanza di quasi due miglia. Ed ecco un fanciullo appena di dieci anni intraprendere un cammino di sei miglia al dì tra andata e ritorno dalla scuola21. Talvolta vi è un vento molesto, un sole che cuoce, un fango, una pioggia che opprimono. Non importa, si tollerano tutti i disagi e si superano tutte le difficoltà; egli vi trova l'ubbidienza ai suoi genitori, un mezzo per imparare la scienza della salute, e questo basta per fargli tollerare con piacere ogni incomodo. Una persona alquanto attempata vedendo un giorno Domenico solo andare a scuola alle due pomeridiane mentre sferzava un cocente sole, quasi per sollevarlo gli si avvicinò e gli tenne questo discorso:
- Caro mio, non hai timore a camminare tutto solo per queste strade?
- Io non sono solo, ho l'angelo custode che mi accompagna in tutti i passi.
- Almeno ti sarà penosa la strada per questo caldo, dovendola fare quattro volte al giorno!
- Niente è penoso, niente è fatica quando si lavora per un padrone che paga molto bene.
- Chi è questo padrone?
- È Dio creatore che paga un bicchiere d'acqua dato per amor suo".
Quella medesima persona raccontò questo episodio ad alcuni suoi amici, e finiva sempre il suo discorso dicendo: «Un giovinetto di così tenera età, che già nutriste tali pensieri, farà certamente parlare di sé in quella carriera che sarà per intraprendere».
Nell'andare e venire da scuola egli corse un grave pericolo per l'anima a motivo di alcuni compagni.
Sogliono molti giovanetti nei caldi estivi andarsi a bagnare ora nei fossi, ora nei ruscelli, ora negli stagni e simili. Il trovarsi più fanciulli insieme, svestiti e talvolta in luoghi pubblici a bagnarsi, riesce cosa pericolosa per il corpo, a segno che noi dobbiamo pur troppo spesse volte lamentare annegamenti di ragazzi e di altre persone, che terminano la loro vita affogati nell'acqua; ma il pericolo è assai maggiore per l'anima. Quanti giovanetti deplorano la perdita della loro innocenza ripetendone la cagione dall'essere andati a bagnarsi con quei compagni in quei luoghi malaugurati!
Parecchi condiscepoli del Savio avevano l'abitudine di andarvi. Non paghi di andarvi eglino stessi, volevano condurre seco loro anch'esso ed erano riusciti a sedurlo una volta. Ma essendo stato avvertito che tal cosa era male, si mostrò profondamente addolorato; né fu mai possibile indurvelo di nuovo, anzi deplorò e pianse più volte il pericolo in cui si era messo riguardo all'anima e riguardo al corpo". Tuttavia due compagni dei più disinvolti e ciarlieri gli diedero un nuovo assalto, parlando così:
- Domenico vuoi venire con noi a fare una partita?
- Che partita?
- Una partita a nuotare?
- Oh no! io non ci vado, non sono pratico, temo di morir nell'acqua.
- Vieni, fa molto piacere. Quelli che vanno a nuotare non sentono più il caldo, hanno molto buon appetito, ed acquistano molta sanità.
- Ma io temo di morire nell'acqua.
- Oibò, non temere, noi t'insegneremo quanto è necessario; comincerai a vedere come facciamo noi, e poi farai tu altrettanto. Tu ci vedrai a camminare nell'acqua come pesci, e faremo salti da gigante.
- Ma non è peccato l'andar in quei luoghi dove sono tanti pericoli?
- Niente affatto; anzi ci vanno tutti.
- L'andarvi tutti non dimostra che non sia peccato.
- Se non vuoi tuffarti nell'acqua, comincerai a vedere gli altri.
- Basta, io sono imbrogliato, e non so che dire".
- Vieni, vieni: sta' sulla nostra parola: non c'è male, e noi ti libereremo da ogni pericolo.
- Prima di fare quanto mi dite, voglio dimandare licenza a mia madre: se ella mi dice di sì ci andrò; altrimenti non ci vado.
- Sta' zitto, minchione; guardati bene dal dirlo a tua madre; essa non ti lascerà certamente venire, anzi lo dirà ai nostri genitori e ci faranno passare il caldo con buoni colpi di bacchetta.
- Oh! se mia madre non mi lascia andare, è segno che è cosa malfatta; perciò non ci vado; se poi volete che vi parli schiettamente, vi dirò che fui ingannato e vi andai una volta sola, ma non ci andrò mai più per l'avvenire; perché in tali luoghi havvi sempre pericolo o di morire nell'acqua, o di offendere altrimenti il Signore". Né statemi più a parlarmi di nuoto; se tal cosa dispiace ai vostri genitori, voi non dovreste più farla; perché il Signore castiga quei figliuoli che fanno cose contrarie ai voleri del padre e della madre.
Così il nostro Domenico, dando una savia risposta a quei cattivi consiglieri, evitava un grave pericolo, in cui se si fosse precipitato, avrebbe forse perduto l'inestimabile tesoro dell'innocenza a cui tengono dietro mille tristi conseguenze.
Nel frequentare questa scuola, egli cominciò ad imparare il modo di regolarsi coi suoi compagni. Se egli vedeva un compagno attento alla scuola, docile, rispettoso, che sapesse bene le lezioni, che facesse i suoi lavori, e che fosse lodato dal maestro, questi diveniva tosto l'amico di Domenico. Eravi un discolo, un insolente, che trascurasse i suoi doveri, parlasse male o bestemmiasse? Domenico lo fuggiva come la peste. Quelli poi che erano un po' indolenti ei li salutava, loro rendeva qualche servizio, qualora ne fosse caso, ma non contraeva seco loro alcuna famigliarità.
La condotta da lui tenuta nella scuola di Castelnuovo d'Asti può servire di modello a qualsiasi giovane studente, che desideri progredire nella scienza e nella pietà. Su tal proposito io trascrivo la giudiziosa relazione scritta dal suo maestro D. Allora sac. Alessandro, tuttora maestro comunale di questo capoluogo di mandamento". Eccone il tenore:
«Molto mi compiaccio di esporre il mio giudicio intorno al giovinetto Savio Domenico che in breve tempo seppe acquistarsi tutta la mia benevolenza, sicché io l'ho amato colla tenerezza di un padre. Aderisco di buon grado a questo invito, perché conservo ancora viva, distinta e piena memoria del suo studio, della sua condotta e delle sue virtù.
Non posso dire molte cose della sua condotta religiosa, perché, dimorando assai distante dal paese era dispensato dalla congregazione, a cui se fosse intervenuto avrebbe certamente fatto risplendere la sua pietà e divozione.
Compiuti gli studi di la elementare in Morialdo, questo buon fanciullo chiese ed ottenne distintamente l'ammissione alla mia scuola di 2a elementare, propriamente il 21 giugno 185229; giorno dagli scolari dedicato a S. Luigi, protettore della gioventù. Egli era di una complessione alquanto debole e gracile, di aspetto grave misto al dolce con un non so che di grande e piacevole. Era d'indole mitissima e dolcissima, di un umore sempre uguale. Aveva costantemente tale contegno nella scuola e fuori, in chiesa ed ovunque, che quando l'occhio, il pensiero od il parlare del maestro volgevasi a lui, vi lasciava la più bella e gioconda impressione. La qual cosa per un maestro si può chiamare uno dei cari compensi delle dure fatiche, che spesso gli tocca di sostenere indarno nella coltura di aridi e mal disposti animi di certi allievi. La onde posso dire che egli fu Savio di nome e tale pur sempre si mostrò col fatto, vale a dire nello studio, nella pietà, nel conversare coi suoi compagni ed in ogni sua azione. Dal primo giorno che entrò nella mia scuola sino alla fine di quell'anno scolastico e nei quattro mesi dell'anno successivo ei progredì nello studio in modo straordinario. Egli si meritò costantemente il primo posto di suo periodo, e le altre onorificenze della scuola e quasi sempre tutti i voti di ciascuna materia, che di mano in mano si andava insegnando. Tal felice risultato nella scienza non è solo da attribuirsi all'ingegno non comune, di cui egli era fornito, ma eziandio al grandissimo suo amore allo studio ed alla sua virtù.
È poi degna di speciale ammirazione la diligenza con cui procurava di adempiere i più minuti doveri di scolaro cristiano e segnatamente l'assiduità e la costanza mirabile nella frequenza della scuola. Di modo che, debole quale egli fu sempre di salute, percorreva ogni giorno oltre 4 chilometri di strada, il che ripeteva pur quattro fiate tra l'andata ed il ritorno. E ciò faceva con maravigliosa tranquillità d'animo e serenità di aspetto anche sotto l'intemperie della stagione invernale, per crudo freddo, per pioggia o neve, cosa che non poteva a meno di essere riconosciuta dal proprio maestro per prova ed esempio di raro merito. Ammalando frattanto sì degno alunno nel corso dello stesso anno 1852-53, ed i parenti di lui mutando successivamente domicilio, fu cagione che con mio vero rincrescimento non ho più potuto continuare l'insegnamento ad un sì caro allievo, le cui sì grandi e bellissime speranze andavano scemando col crescere dei timori, ch'io aveva che non potesse più proseguire gli studi per mancanza di salute o di mezzi di fortuna. Mi riuscì poi di grande consolazione quando seppi che egli era stato accolto fra i giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, essendogli così aperta la via alla coltura del raro suo ingegno e della sua luminosa pietà» (fin qui il maestro di scuola)".
Pare che la divina provvidenza abbia voluto far vedere a questo giovanetto che codesto mondo è un vero esilio ove andiamo di luogo in luogo pellegrinando32; o meglio abbia voluto che egli andasse a farsi conoscere in diversi paesi e così mostrarsi in più luoghi esimio specchio di virtù.
Sul finire dell'anno 1852 i genitori di Domenico da Morialdo andarono a fissar la loro dimora in Mondonio", che è un piccolo paese confinante con Castelnuovo. Egli continuò colà nel tenor di vita praticato in Morialdo ed a Castelnuovo; perciò dovrei ripetere le cose che di lui scrissero gli antecedenti suoi maestri; giacché il signor D. Cugliero (34), che l'ebbe a scolaro, fa una relazione quasi simile. Io trascelgo da essa solamente alcuni fatti speciali, omettendo il rimanente per non fare ripetizioni.
«Io posso dire, egli scrive, che in venti anni da che attendo ad istruire i ragazzi non ne ebbi mai alcuno che abbia pareggiato il Savio nella pietà. Egli era giovane di età, ma assennato al pari di un uomo perfetto. La sua diligenza, assiduità allo studio, e l'affabilità si cattivavano l'affetto del maestro e lo rendevano la delizia dei compagni. Quando lo rimirava in chiesa, io era compreso da alta meraviglia nel vedere tanto raccoglimento in un giovanetto di così tenera età. Più volte ho detto tra me stesso: Ecco un'anima innocente, cui si aprono le delizie del paradiso, e che coi suoi affetti va ad abitare cogli angeli del cielo».
Tra i fatti speciali il suo maestro annovera il seguente: «Un giorno fu fatta una mancanza tra i miei allievi, e la cosa era tale che il colpevole meritava l'espulsione dalla scuola. I delinquenti prevengono il colpo, e portandosi dal maestro si accordano di gettare tutta la colpa sopra il buon Domenico. Io non poteva crederlo capace di simile disordine; ma gli accusatori seppero dare tale colore di verità alla calunnia che dovetti crederla. Entro adunque nella scuola giustamente sdegnato per il disordine avvenuto; parlo al colpevole in genere; poi mi volgo al Savio, e "Questo fallo, gli dico, bisognava che fosse commesso da te? non meriteresti di essere sull'istante cacciato dalla scuola? Buon per te che è la prima che mi fai di questo genere, altrimenti..., fa' che sia pur l'ultima". Domenico avrebbe potuto dire una parola sola in discolpa, e la sua innocenza sarebbe stata conosciuta. Ma egli si tacque: chinò il capo, e a guisa di chi è con ragione rimproverato, più non alzò gli occhi. Ma Dio protegge gl' innocenti, e il dì seguente furono scoperti i veri colpevoli e così palesata l'innocenza di Domenico. Pieno di rincrescimento pei rimproveri fatti al supposto colpevole, il presi da parte, e, "Domenico, gli dissi, perché non mi hai subito detto che tu eri innocente?". Domenico rispose: "Perché quel tale essendo già colpevole di altri falli sarebbe forse stato cacciato di scuola; dal canto mio sperava di essere perdonato, essendo la prima mancanza di cui era accusato nella scuola; d'altronde pensava anche al nostro Divin Salvatore, il quale fu ingiustamente calunniato"". Tacqui allora, ma tutti ammirarono la pazienza del Savio, che aveva saputo render bene per male, disposto a tollerare anche un grave castigo a favore del medesimo calunniatore» (così D. Cugliero)".
Le cose che sono per raccontare posso esporle con maggior corredo di circostanze, perché sono quasi tutte avvenute sotto gli occhi miei, e per lo più alla presenza di una moltitudine di giovani che tutti vanno d'accordo nell'asserirle. Correva l'anno 1854 quando il nominato D. Cugliero venne a parlarmi di un suo allievo per ingegno e per pietà degno di particolare riguardo. «Qui in sua casa, egli diceva, può avere giovani uguali, ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un S. Luigi». Fummo intesi che me lo avrebbe mandato a Morialdo all'occasione che sono solito di trovarmi colà coi giovani di questa casa per far loro godere un po' di campagna, e nel tempo stesso fare la novena e celebrare la solennità del Rosario di Maria Santissima.
Era il primo lunedì d'ottobre di buon mattino", allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicinava per parlarmi. Il volto suo ilare, l'aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i miei sguardi.
- Chi sei, gli dissi, onde vieni?
- Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato D. Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.
Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.
Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età.
Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole: «Ebbene che gliene pare? mi condurrà a Torino per istudiare?».
- Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.
- A che può servire questa stoffa?
- A fare un bell'abito da regalare al Signore.
- Dunque io sono la stoffa; ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito per il Signore.
- Io temo che la tua gracilità non regga per lo studio.
- Non tema questo; quel Signore che mi ha dato finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l'avvenire.
- Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare? — Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente di abbracciare lo stato ecclesiastico.
- Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture cattoliche), di quest'oggi studia questa pagina, domani ritornerai per recitarmela.
Ciò detto lo lasciai in libertà d'andarsi a trastullare con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: «Se vuole, recito adesso la mia pagina». Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.
- Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Si, ti condurrò a Torino e fin d'ora sei annoverato tra i miei cari figliuoli, comincia anche tu fin d'ora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà.
Non sapendo egli come esprimere meglio la sua contentezza e la sua gratitudine, mi prese la mano, la strinse, la baciò più volte e infine disse: «Spero di regolarmi in modo che non abbia mai a lamentarsi" della mia condotta».
Egli è proprio dell'età volubile della gioventù di cangiar sovente proposito intorno a quello che si vuole; perciò non di rado avviene che oggi si delibera una cosa, dimani un'altra; oggi una virtù praticata in grado eminente, domani l'opposto; e qui se non havvi chi vegli attento, spesso va a terminare con mal esito un'educazione che forse poteva riuscire delle più fortunate. Del nostro Domenico non fu così. Tutte quelle virtù, che noi abbiamo veduto nascere e crescere nei vari stadi di sua vita, crebbero ognora maravigliosamente e crebbero insieme senza che una fosse di nocumento all'altra.
Venuto nella casa dell'Oratorio, si recò in mia camera per darsi, come egli diceva, interamente nelle mani dei suoi superiori". Il suo sguardo si portò subito su di un cartello, sopra cui a grossi caratteri sono scritte le seguenti parole che soleva ripetere S. Francesco di Sales: Da mihi animas, coetera tolle". Fecesi a leggere attentamente, ed io desiderava che ne capisse il significato. Perciò l'invitai, anzi l'aiutai a tradurle e cavar questo senso: O Signore, datemi anime, e prendetevi tutte le altre cose. Egli pensò un momento e poi soggiunse: «Ho capito; qui non havvi negozio di danaro, ma negozio di anime, ho capito; spero che l'anima mia farà anche parte di questo commercio».
Il suo tenor di vita per qualche tempo fu tutto ordinario; né altro in esso ammiravasi che un'esatta osservanza delle regole della casa». Si applicò con impegno allo studio. Attendeva con ardore a tutti i suoi doveri. Ascoltava con delizia le prediche. Aveva radicato nel cuore che la parola di Dio è la guida dell'uomo per la strada del cielo; quindi ogni massima udita in una predica era per lui un ricordo invariabile che più non dimenticava.
Ogni discorso morale, ogni catechismo, ogni predica quantunque prolungata era sempre per lui una delizia. Udendo qualche cosa che non avesse ben inteso, tosto facevasi a dimandarne la spiegazione, Di qui ebbe cominciamento quell'esemplare tenor di vita, quel continuo progredire di virtù in virtù, quella esattezza nell'adempimento dei suoi doveri, oltre cui difficilmente si può andare.
Per essere ammaestrato intorno alle regole e disciplina della casa, egli con bel garbo procurava di avvicinarsi a qualcheduno dei suoi superiori42; lo interrogava, gli dimandava lumi e consigli, supplicando di volerlo con bontà avvisare ogni volta che lo vedesse trasgredire i suoi doveri. Né era meno commendevole il contegno che egli serbava coi suoi compagni. Vedeva egli taluno dissipato, negligente nei proprii doveri, o trascurato nella pietà? Domenico lo fuggiva. Eravi un compagno esemplare, studioso, diligente, lodato dal maestro? Costui diveniva tosto amico e famigliare di Domenico.
Avvicinandosi la festa dell'Immacolata Concezione di Maria, il direttore diceva tutte le sere qualche parola d'incoraggiamento ai giovani della casa, affinché ciascuno si desse sollecitudine a celebrarla in modo degno della gran madre di Dio, ma insistette specialmente a voler chiedere a questa celeste protettrice quelle grazie di cui ciascuno avesse conosciuto maggior bisogno.
Correva l'anno 1854 in cui i cristiani di tutto il mondo erano in una specie di spirituale agitazione perché trattavasi a Roma della definizione dogmatica dell'immacolato concepimento di Maria". Anche tra di noi si faceva quanto la nostra condizione comportava per celebrare quella solennità con decoro e con frutto spirituale dei nostri giovani.
Il Savio era uno di quelli che sentivansi ardere dal desiderio di celebrarla santamente. Scrisse egli nove fioretti, ovvero nove atti di virtù da praticarsi estraendone a sorte uno per giorno. Si preparò e fece con piacere dell'animo suo la confessione generale, e si accostò ai santi sacramenti col massimo raccoglimento.
La sera di quel giorno, 8 dicembre, compiute le sacre funzioni di chiesa, col consiglio del confessore, Domenico andò avanti l'altare di Maria, rinnovò le promesse fatte nella prima comunione, di poi disse più e più volte queste precise parole: «Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei! ma per pietà, fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».
Presa così Maria per sostegno della sua divozione, la morale di lui condotta apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù che ho cominciato fin d'allora a notarli per non dimenticarmene.
Giunto a questo punto a descrivere le azioni del giovane Savio, io mi veggo davanti un complesso di fatti e di virtù che meritano speciale attenzione e in chi scrive ed in chi legge. Onde per maggior chiarezza giudico bene di esporre le cose non secondo l'ordine dei tempi, ma secondo l'analogia dei fatti che hanno tra di loro special relazione od hanno rapporto colla medesima materia. Dividerò pertanto le cose in altrettanti capitoli, cominciando dallo studio del latino, che fu motivo principale per cui venne e fu accolto in questa casa di Valdocco".
Egli aveva studiato i principii di latinità a Mondonio; e perciò colla sua grande assiduità nello studio e colla non ordinaria sua capacità ottenne in breve di essere classificato nella quarta, o come diciamo oggidì, nella seconda grammatica latina".
Fece egli questo corso presso il pio e caritatevole professore Bonzanino Giuseppe; imperciocché allora non erano ancora stabilite le scuole ginnasiali nella casa dell'Oratorio, come sono presentemente". Io dovrei anche qui esprimere il suo contegno, profitto e la sua esemplarità colle stesse parole degl'antecedenti suoi maestri. Laonde esporrò solamente alcune cose che in quest'anno di latinità e nei due susseguenti furono notate con particolare ammirazione" da coloro che lo conobbero. Il professore Bonzanino ebbe più volte a dire che non ricordavasi di aver avuto alcuno più attento, più docile, più rispettoso, quale era il giovane Savio". Egli compariva modello in tutte le cose. Nel vestito e nella capigliatura non era punto ricercato; ma in quella modestia di abiti e nella umile sua condizione egli appariva pulito, ben educato, cortese, in guisa che i suoi compagni di civile ed anche di nobile condizione, i quali in buon numero intervenivano alla detta scuola, godevano assai di potersi trattenere con Domenico non solo per la scienza e pietà, ma anche per le sue civili e piacevoli maniere di trattare. Se poi fosse avvenuto al professore di ravvisare qualche scolaro un po' ciarliero, mettevagli Domenico ai fianchi, ed egli con destrezza studiavisi di indurlo al silenzio, allo studio, all'adempimento dei suoi doveri.
Egli è nel decorso di quest'anno, che la vita di Domenico ci somministra un fatto che ha dell'eroismo, e che è appena credibile in quella giovanile sua età. Esso riguarda a due suoi compagni di scuola che vennero tra di loro ad una rissa pericolosa. Il litigio cominciò da alcune parole dettesi scambievolmente in dispregio della loro famiglia. Dopo alcuni insulti si dissero villanie e si sfidarono a far valere le loro ragioni a colpi di pietra. Domenico giunse a scoprire quella discordia; ma come impedirla, essendo i due rivali maggiori di forze e di età? Si provò di persuaderli a desistere da quel progetto facendo ad ambidue osservare che la vendetta è contraria alla ragione ed alla santa legge di Dio; scrisse lettere all'uno e all'altro; li minacciò di riferire la cosa al professore ed anche ai loro parenti; ma tutto invano, i loro animi erano così inaspriti, che tornava inutile ogni panila. Oltre il pericolo di farsi grave male alla persona, commettevasi grande offesa contro Dio. Domenico era oltre modo crucciato, desiderava di opporsi e non sapeva come. Dio lo inspirò di fare così. Li attese dopo la scuola, e come poté parlare ad ambidue da parte, disse: «Poiché persistete nel bestiale vostro divisamento, vi prego almeno di voler accettare una condizione». «L'accettiamo, risposero, purché non impedisca la nostra sfida». «Egli è un birbante», replicò tosto un di loro. «Ed io non sarò in pace con lui, soggiungeva l'altro, finché egli od io non abbiamo rotta la testa». Savio tremava a quel brutale diverbio, tuttavia, nel desiderio d'impedire maggior male, si frenò e disse: «La condizione che sono per mettervi non impedisce la sfida».
- Qual è questa condizione?
- Vorrei soltanto dirvela al luogo dove volete misurarvi a sassate.
- Tu ci minchioni, o studierai di metterci qualche incaglio.
- Sarò con voi, e non vi minchionerò; state tranquilli.
- Forse tu vorrai andare a chiamare qualcheduno.
- Dovrei farlo, ma non lo farò; andiamo, io sarò con voi. Mantenetemi soltanto la parola.
Glielo promisero; andarono nei così detti prati della Cittadella fuori di Porta Susa.
Tanto era l'odio dei due contendenti che a stento il Savio poté impedire che non venissero alle mani nel breve tratto di strada che era a farsi.
Giunti al luogo stabilito, il Savio fece una cosa che certamente niuno sarebbesi immaginato. Lasciò che si ponessero in una certa distanza; già avevano le pietre in mano, cinque caduno, quando Domenico parlò così: «Prima di effettuare la vostra sfida voglio che adempiate la condizione accettata». Ciò dicendo trasse fuori il piccolo crocifisso, che aveva al collo, e tenendolo in una mano, «voglio, disse, che ciascheduno fissi lo sguardo in questo crocifisso, di poi, gettando una pietra contro di me, pronunzi a chiara voce queste parole: Gesù Cristo innocente morì perdonando ai suoi crocifissori 52, io peccatore voglio offenderlo e far una solenne vendetta».
Ciò detto andò ad inginocchiarsi davanti a colui che mostravasi più infuriato dicendo: «Fa' il primo colpo sopra di me: tira una forte sassata sul mio capo». Costui, che non si aspettava simile proposta, cominciò a tremare. «No, disse, e mai no. Io non ho alcuna cosa contro di te e vorrei difenderti, se qualcuno ti volesse oltraggiare».
Domenico, ciò udito, corse dall'altro dicendo le stesse parole. Egli pure ne fu sconcertato, e tremando diceva, che essendo egli suo amico, non gli avrebbe mai fatto alcun male.
Allora Domenico si rizzò in piedi, e prendendo un aspetto serio e commosso: «Come, loro disse, voi siete ambedue disposti ad affrontare anche un grave pericolo per difendere me, che sono una miserabile creatura, e non siete capaci di perdonarvi un insulto ed una derisione fattavi nella scuola per salvare l'anima vostra, che costò il sangue del Salvatore, e che voi andate a perdere con questo peccato?». Ciò detto si tacque, tenendo sempre il crocifisso alto colla mano.
A tale spettacolo di carità e di coraggio i compagni furono vinti. «In quel momento, asserisce uno di loro, io fui intenerito; un freddo mi corse per le membra, e mi sentii pieno di vergogna per aver costretto un amico sì buono, come era Savio, ad usare misure estreme per impedire l'empio nostro divisamento. Volendogli almeno dare un segno di compiacenza perdonai di cuore a chi mi aveva offeso, e pregai Domenico di suggerirmi qualche paziente e caritatevole sacerdote per andarmi a confessare. Egli mi appagò; ed alcuni giorni dopo andai col mio rivale a fare la confessione. In questa guisa dopo di essermi novellamente fatto suo amico fui riconciliato col Signore, che coll'odio e col desiderio di vendetta aveva di certo gravemente offeso».
Esempio è questo ben degno di essere imitato da ogni giovane cristiano qualora gli avvenga di vedere il suo simile in atto di far vendetta, od essere da altri in qualche maniera offeso, oppure ingiuriato.
Quello poi che in questo fatto onora singolarmente la condotta e la carità del Savio si è il silenzio in cui seppe tenere quanto era accaduto. Ed ogni cosa sarebbe stata totalmente ignorata, se coloro stessi, che vi ebbero parte, non l'avessero ripetutamente raccontata.
L'andata poi ed il ritorno da scuola, che è tanto pericoloso pei giovanetti che dai villaggi vengono nelle grandi città, per il nostro Domenico fu un vero esercizio di virtù. Costante nell'eseguire gli ordini dei suoi superiori, andava a scuola, ritornava a casa senza neppur dare un'occhiata, o porre ascolto a cosa che ad un giovane cristiano non convenisse. Se avesse veduto alcuno a fermarsi, correre, saltellare, tirar pietre, o andar a passar in luoghi non permessi, egli tosto da costui si allontanava. Che anzi un giorno fu invitato ad andare a far una passeggiata senza permesso; un'altra volta venne consigliato ad omettere la scuola per andarsi a divertire, ma egli seppe sempre rispondere con un rifiuto. «Il mio divertimento più bello, loro rispondeva, è l'adempimento dei miei doveri: e se voi siete veri amici, dovete consigliarmi ad adempirli con esattezza e non mai a trasgredirli». Nulladimeno ebbe la sventura di aver alcuni compagni che lo molestarono a segno, che il Savio si trovò sul punto di cadere nei loro lacci. E già risolvevasi di andare con loro e così per quel giorno tralasciare la scuola. Ma fatto breve tratto di cammino si accorse che seguiva un cattivo consiglio, ne provò gran rimorso, chiamò i tristi consiglieri, e loro disse: «Miei cari, il dovere m'impone di andare a scuola ed io vi voglio andare: noi facciamo cosa che dispiace a Dio ed ai nostri superiori. Sono pentito di quello che ho fatto; se mi darete altra volta somiglianti consigli, voi cesserete di essere miei amici».
Quei giovani accolsero l'avviso del loro amico; andarono seco lui a scuola, e per l'avvenire non cercarono più di distoglierlo dai suoi doveri. Nel fine dell'anno, mediante la sua buona condotta e la sua costante sollecitudine allo studio, meritò di essere promosso fra gli ottimi alla classe superiore. Ma sul principio del terzo anno di grammatica la sanità di Domenico apparendo alquanto deteriorata, si giudicò bene di lasciargli fare il corso privato qui nella casa dell'Oratorio a fine di potergli usare i dovuti riguardi nel riposo, nello studio e nella ricreazione.
L'anno di umanità o di 1 a retorica sembrando meglio in salute, fu mandato dal benemerito signor professore D. Picco Matteo". Esso aveva già più volte udito a parlare delle belle doti che adornavano il Savio, sicché di buon grado l'accolse gratuitamente nella sua scuola che passava fra le migliori approvate in questa nostra città.
Molte sono le cose edificanti o dette o fatte dal Savio nell'anno di terza grammatica e di prima retorica; e noi le andremo esponendo di mano in mano che racconteremo i fatti che con quelle sono collegati.
Dato così un cenno sullo studio fatto nelle classi di latinità, parleremo ora della grande sua deliberazione di farsi santo.
Erano sei mesi da che il Savio dimorava all'Oratorio quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull'animo di Domenico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi"; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl'infiammò tutto il cuore d'amore di Dio. Per qualche giorno disse nulla, ma era meno allegro del solito, sicché se ne accorsero i compagni e me ne accorsi anch'io.
Giudicando che ciò provenisse da novello incomodo di sanità, gli chiesi se pativa qualche male. «Anzi, mi rispose, patisco qualche bene». «Che vorresti dire?». «Voglio dire che mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo: io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, io voglio assolutamente, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica adunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa».
Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell'animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria: e consigliandolo ad essere perseverante nell'adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni.
Un giorno gli dissi di volergli fare un regalo di suo gusto; ma esser mio volere che la scelta fosse fatta da lui. «Il regalo che domando, prontamente egli soggiunse, è che mi faccia santo. Io mi voglio dare tutto al Signore, per sempre al Signore", e sento un bisogno di farmi santo, e se non mi fo santo io fo niente. Iddio mi vuole santo, ed io debbo farmi tale».
In una congiuntura il direttore voleva dare un segno di speciale affetto ai giovani della casa e fece loro facoltà di chiedere con un biglietto qualunque cosa fosse a lui possibile, promettendo che l'avrebbe concessa. Quivi può ognuno facilmente immaginarsi le ridicole e le stravaganti dimande fatte dagli uni e dagli altri. Il Savio, preso un pezzetto di carta, scrisse queste sole parole: «Dimando che mi salvi l'anima" e mi faccia santo».
Un giorno si andavano spiegando alcune parole secondo la etimologia. «E Domenico, egli disse, che cosa vuoi dire?». Fu risposto: «Domenico vuol dire del Signore». «Veda, tosto soggiunse, se non ho ragione di chiederle che mi faccia santo: fino il nome dice che io sono del Signore. Dunque io debbo e voglio essere tutto del Signore e voglio farmi santo e sarò infelice finché non sarò santo».
La smania che egli dimostrava di volersi fare santo non derivava dal non tenere una vita veramente da santo, ma ciò diceva, perché egli voleva far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera, le quali cose erangli dal direttore proibite, perché non compatibili colla sua età e sanità e colle sue occupazioni.
La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnar anime a Dio; perciocché non havvi cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fin l'ultima goccia del prezioso suo sangue". Conobbe Domenico l'importanza di tale pratica, e fu più volte udito a dire: «Se io potessi guadagnare a Dio tutti i miei compagni, quanto sarei felice!». Intanto non lasciava sfuggire alcuna occasione per dare buoni consigli, avvisar chi avesse detto o fatto cosa contraria alla santa legge di Dio.
La cosa che gli cagionava grande orrore e che recava non piccolo danno alla sua sanità, era la bestemmia, o l'udir nominare il santo nome di Dio invano. Se mai nelle vie della città o altrove gli fosse accaduto di udire alcuna di somiglianti parole, egli tosto abbassava dolente il capo, e diceva con cuor divoto: «Sia lodato Gesù Cristo»".
Passando un giorno per mezzo ad una piazza della città, un compagno lo vide a togliersi il cappello e proferire sotto voce alcune parole: «Che fai? gli disse, che dici?». «Non hai udito?, Domenico rispose, quel carrettiere nominò il santo nome di Dio invano. Se avessi creduto utile sarei corso ad avvisarlo di non farlo mai più: ma temendo di fargli dire cose peggiori, mi limito a togliermi il cappello e dire: Sia lodato Gesù Cristo. E questo con animo di riparare qualche poco l'ingiuria fatta al santo nome del Signore».
Il compagno ammirò la condotta ed il coraggio di Domenico, e va tuttora con piacere raccontando tale episodio ad onore dell'amico e ad edificazione dei compagni.
Nel ritornare dalla scuola una volta udì un cotale di età alquanto avanzata che proferì un'orribile bestemmia. Il nostro Domenico tremò all'udirla; lodò Dio in cuor suo, dipoi fece una cosa certamente ammirabile. Con aria la più rispettosa corse verso l'incauto bestemmiatore e gli domandò se sapeva indicargli la casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. A quell'aria di paradiso, l'altro depose quella specie di ferocia, e «Non so, caro ragazzino, mi rincresce».
- Oh! se non sapete questo, voi potreste farmi un altro piacere.
- Dimmelo pure, volentieri.
Domenico gli si avvicinò quanto poté all'orecchio, e piano che altri non capisse, «Voi, soggiunse, mi farete un gran piacere se nella vostra collera direte altre parole senza bestemmiare il santo nome di Dio».
- Bravo, disse l'altro, pieno di stupore e di ammirazione; bene, hai ragione: è questo un vizio maledetto che voglio vincere a qualunque costo".
Un giorno avvenne che un fanciullo di forse nove anni si pose ad altercare con un compagno in vicinanza della porta della casa, e nella rissa proferì l'adorabile nome di Gesù Cristo. Domenico a tale parola, sebbene sentisse un giusto sdegno in cuor suo, tuttavia con animo pacato s'intromise tra i due contendenti e li acquetò; poi disse a chi aveva nominato il nome di Dio invano: «Vieni meco e sarai contento». I suoi bei modi indussero il fanciullo ad accondiscendere. Lo prese per mano, lo condusse in chiesa avanti all'altare, di poi lo fece inginocchiare vicino a lui dicendogli: «Dimanda al Signore perdono dell'offesa che gli hai fatta col nominarlo invano». E poiché il ragazzo non sapeva l'atto di contrizione, lo recitò egli seco lui. Dopo soggiunse: «Di' con me queste parole per riparare l'ingiuria fatta a Gesù Cristo: Sia lodato Gesù Cristo, e il suo santo e adorabile nome sia sempre lodato».
Leggeva di preferenza la vita di quei santi che avevano lavorato in modo speciale per la salute delle anime. Parlava volentieri dei missionari, che faticano tanto in lontani paesi per il bene delle anime, e non potendo mandar loro soccorsi materiali, offeriva ogni giorno al Signore qualche preghiera, e almeno una volta alla settimana faceva per loro la santa comunione.
Più volte l'ho udito esclamare: «Quante anime aspettano il nostro aiuto nell'Inghilterra: oh, se avessi forza e virtù vorrei andarvi sul momento, e colle prediche e col buon esempio vorrei guadagnarle tutte al Signore»". Si lagnava spesso con sé medesimo, e spesso ne parlava ai compagni del poco zelo che molti hanno per istruire i fanciulli nelle verità della fede. «Appena sarò chierico, diceva, voglio andare a Mondonio, e voglio radunare tutti i fanciulli sotto di una tettoia e voglio far loro il catechismo, raccontare tanti esempi e farli tutti santi. Quanti poveri fanciulli forse andranno alla perdizione per mancanza di chi li istruisca nella fede!».
Ciò che diceva con parole lo confermava coi fatti, poiché per quanto comportava la sua età ed istruzione faceva con piacere il catechismo nella chiesa dell'Oratorio, e se qualcheduno ne avesse avuto bisogno, gli faceva scuola e lo ammaestrava nel catechismo a qualunque ora del giorno ed in qualunque giorno della settimana, ad unico scopo di poter parlare di cose spirituali e far loro conoscere l'importanza di salvar l'anima.
Un giorno un compagno indiscreto voleva interromperlo mentre raccontava un esempio in tempo di ricreazione. «Che te ne fa di queste cose?» gli disse. «Che me ne fa?, rispose, me ne fa perché l'anima dei miei compagni è redenta col sangue di Gesù Cristo; me ne fa perché siamo tutti fratelli e come tali dobbiamo amare vicendevolmente l'anima nostra; me ne fa perché Iddio raccomanda di aiutarci l'un l'altro a salvarci; me ne fa perché se riesco a salvare un anima, metterò anche in sicuro la salvezza della mia».
Né questa sollecitudine per il bene delle anime in Domenico si rallentava nel breve tempo di vacanza, che passava nella casa paterna. Ogni immagine, medaglia, crocifisso, libretto od altro oggetto che egli si fosse guadagnato nella scuola o nel catechismo mettevalo da parte per servirsene quando fosse in vacanza. Anzi prima di partire dall'Oratorio soleva fare speciale dimanda ai suoi superiori, che gli volessero dare simili oggetti per far stare allegri, come egli diceva, i suoi amici di ricreazione. Giunto appena in patria, vedevasi tosto circondato da fanciulli suoi pari, più piccoli, ed anche più grandi, che provavano un vero piacere trattenendosi con lui. Egli poi distribuendo i suoi regali a tempo opportuno, eccitavali a star attenti alle dimande, che loro faceva ora sul catechismo ora sui loro doveri.
Con questi bei modi riusciva a condurne parecchi con lui al catechismo, alla preghiera, alla messa e ad altre pratiche di pietà.
Sono assicurato che egli impiegò non poco tempo per istruire un compagno. «Se giungerai, dicevagli, a far bene il segno della santa croce, ti fo dono d'una medaglia, di poi ti raccomanderò ad un prete che ti doni un bel libro. Ma vorrei che fosse ben fatto, e che dicendo le parole colla bocca, la mano destra partisse dalla fronte, si portasse al petto, indi andasse a toccar bene la spalla sinistra, poscia la destra e terminasse col giungere veramente le mani dicendo: Così sia». Egli desiderava ardentemente che questo segno di nostra redenzione fosse ben fatto, ed egli stesso facevalo più volte alla loro presenza, invitando gli altri a fare altrettanto.
Oltre l'esattezza nell'adempimento d'ogni più minuto suo dovere, egli prendevasi cura poi di due fratellini, cui insegnava a leggere, scrivere, recitare il catechismo e li assisteva nella preghiera del mattino e della sera. Li conduceva in chiesa, porgeva loro l'acqua benedetta, mostrava loro il vero modo di far il segno della santa croce.
Il medesimo tempo che avrebbe passato qua e là trastullandosi, egli lo passava raccontando esempi ai parenti, o ad altri compagni che l'avessero voluto ascoltare. Anche in patria era solito a fare ogni giorno una visita al santissimo Sacramento; ed era per lui un vero guadagno quando poteva indurre qualche compagno ad andargli a tenere compagnia. Onde si può dire che non presentavasi a lui occasione di far opera buona, di dare un buon consiglio, che tendesse al bene dell'anima, che egli la lasciasse sfuggire.
Il pensiero di guadagnar anime a Dio lo accompagnava ovunque. In tempo libero era l'anima della ricreazione; ma quanto diceva o faceva tendeva sempre al bene morale o di sé o di altri. Aveva ognor presente quei bei principii di educazione, di non interrompere gli altri quando parlano. Se per altro i compagni facevano silenzio, egli tosto metteva fuori questioni di scuola, di storia, di aritmetica, ed aveva sempre alla mano mille storielle, che rendevano amabile la sua compagnia. Se mai taluno avesse rivolto il discorso intorno a cose che fossero mormorazioni o simili, egli lo interrompeva e metteva fuori qualche facezia od anche una favola o altra cosa per far ridere, e intanto distoglieva il discorso dalla mormorazione ed impediva l'offesa di Dio trai suoi compagni.
La sua aria allegra, l'indole vivace lo rendevano caro anche ai compagni meno amanti della pietà, per modo che ognuno godeva di potersi trattenere con lui, e prendevano in buona parte quegli avvisi che di quando in quando suggeriva.
Un giorno un suo compagno desiderava andarsi a mascherare, ed egli non voleva. «Saresti contento, gli diceva, di divenir realmente quale vuoi vestirti, con due corna sulla fronte, con un naso lungo un palmo, con un abito da ciarlatano?». «Mai no, rispose l'altro». «Dunque, soggiunse Domenico, se non desideri avere questo sembiante, perché vuoi comparir tale e deturpare le belle fattezze che Dio ti ha donato?».
Una volta in tempo di ricreazione accadde che un uomo si avanzò in mezzo ai giovani che si divertivano; e voltosi ad uno di loro si mise a discorrere, ma con voce alta che tutti i circostanti potevano udire. L'astuto, onde trarli vicino a sé, da principio si diede a raccontare cose strane per far ridere. I giovani tratti dalla curiosità in breve gli furono attorno affollati, e attenti pendevano dal suo labbro nell'udire quelle stranezze. Appena si vide così circondato, fece cadere il discorso su cose di religione, e, come suol fare tal sorta di gente, gettava giù degli strafalcioni da far inorridire, mettendo in burla le cose più sante e screditando tutte quante le persone ecclesiastiche. Alcuni degli astanti, non potendo soffrire tali empietà e non osando opporsegli, si contentarono di ritirarsi. Un buon numero incautamente continuava ad ascoltarlo. Intanto per caso sopraggiunse il Savio. Appena poté conoscere di che genere fosse quel discorso, rotto ogni rispetto umano, subito si rivolse ai compagni: «Andiamocene, disse, lasciamo solo quest'infelice; egli ci vuol rubare l'anima». I giovani ubbidienti alla voce di un sì amabile e virtuoso compagno, tutti quanti si allontanarono prontamente da quell'inviato del demonio. Questi vedutosi così da tutti abbandonato, se ne partì senza più lasciarsi vedere".
Altra volta alcuni volevano andarsi a bagnare, la qual cosa, se è altrove pericolosa, lo è assai più nel circondario di Torino, ove, senza parlare dei pericoli d'immoralità, trovansi acque sì profonde ed impetuose, che" spesso i giovani restano vittima infelice del nuoto. Se ne accorse Domenico, e cercava di trattenersi con loro raccontando or questa, or quell'altra novità. Ma quando li vide decisi di volersene assolutamente andare, allora si pose a parlare risoluto:
- No, disse, io non voglio che andiate.
- Noi non facciamo alcun male.
- Voi disubbidite ai vostri superiori", voi vi esponete al pericolo di dare o ricevere scandalo, e di rimaner morti nell'acqua, e questo non è male?
- Ma noi abbiamo un caldo che non ne possiamo più.
- Se non potete più tollerare il caldo di questo mondo, potrete poi tollerare il caldo terribile dell'inferno, che voi vi andate a meritare?
Mossi da queste parole cangiarono divisamento e si posero seco lui a fare ricreazione, e all'ora dovuta andarono in chiesa per assistere alle sacre funzioni.
Alcuni altri giovani dell'Oratorio amanti del bene dei loro compagni si unirono in una specie di società per darsi alla conversione dei discoli. Savio vi apparteneva ed era dei più zelanti. Se avesse avuto un confetto, un frutto, una croce, un'immagine o simili, la riserbava per questo scopo. «Chi lo vuole, chi lo vuole», andava dicendo. «Io, io», da tutti si gridava correndo verso di lui. «Adagio, egli diceva, voglio darlo a chi meglio mi risponderà ad una domanda di catechismo». Intanto egli interrogava solo i più discoli, ed appena essi davano risposta alquanto soddisfacente faceva loro quel piccolo regalo.
Altri poi erano guadagnati in altre maniere: li prendeva, li invitava a passeggiare con lui, li faceva discorrere, se occorreva, giocava con loro. Fu talvolta veduto con un grosso bastone sulle spalle che sembrava Ercole colla clava, giocare alla rana, volgarmente cirimella, e mostrarsi perdutamente affezionato a quel giuoco". Ma ad un tratto sospendeva la partita e diceva al compagno: «Vuoi che sabato ci andiamo a confessare?». L'altro per la distanza del tempo e per ripigliare presto la partita e anche per compiacerlo rispondeva di sì. Domenico ne aveva abbastanza e continuava il giuoco. Ma non lo perdeva più di vista: ogni giorno o per un motivo o per l'altro gli richiamava sempre quel sì alla memoria, e gli andava insinuando il modo di confessarsi bene. Venuto il sabato, qual cacciatore che ha colto buona preda, l'accompagnava in chiesa, lo precedeva nel confessarsi, per lo più ne preveniva il confessore, si tratteneva seco dopo a fare il ringraziamento. Questi fatti, che pur erano frequenti, tornavano a lui della più grande consolazione e di grande vantaggio ai compagni; perciocché spesso avveniva che taluno non riportasse alcun frutto da una predica udita in chiesa, mentre arrendevasi alle pie insinuazioni di Domenico.
Avveniva qualche volta che taluno il lusingava tutta la settimana e poi al sabato non lasciavasi più vedere per l'ora di confessarsi. Come poi lo vedeva di nuovo, quasi scherzando gli diceva: «Eh! birichino! me l'hai fatta». «Ma vedi, dicea l'altro, non era disposto, non mi sentiva...». «Poverino, soggiungeva Domenico, hai ceduto al demonio che era assai ben disposto a riceverti; ma ora ancor più sei indisposto, anzi ti vedo tutto di mal umore. Orsù fa' la prova di andarti a confessare, fa' uno sforzo e procura di confessarti bene e vedrai di quanta gioia sarà ripieno il tuo cuore». Per lo più dopo che quel tale erasi confessato andava tosto da Domenico col cuore pieno di contentezza: «È vero, diceva, sono veramente contento; per l'avvenire voglio andarmi a confessare più sovente».
Nelle comunità di giovani sogliono esservene alcuni che o per essere alquanto rozzi, ignoranti, meno educati o crucciati da qualche dispiacere, sono per lo più lasciati da parte dai loro compagni. Costoro soffrono il peso dell'abbandono, quando avrebbero maggior bisogno del conforto di un amico.
Questi erano gli amici di Domenico". Loro si avvicinava, li ricreava con qualche buon discorso, loro dava buoni consigli; quindi spesso è avvenuto che giovani, decisi di darsi in preda al disordine, animati dalle caritatevoli parole del Savio, ritornavano a buoni sentimenti.
Per questo motivo tutti quelli che avevano qualche incomodo di salute di-mandavano Domenico per infermiere, e quelli che avevano delle pene provavano conforto esponendole a lui. In questa guisa egli aveva la strada aperta ad esercitare continuamente la carità verso il prossimo ed accrescersi merito davanti a Dio.
Fra i doni, di cui Dio lo arricchì, era eminente quello del fervore nella preghiera. Il suo spirito era così abituato a conversare con Dio, che in qualsiasi luogo, anche in mezzo ai più clamorosi trambusti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il cuore a Dio.
Quando poi si metteva a pregare in comune pareva veramente un angioletto: immobile e composto a divozione in tutta la persona, senza appoggiarsi altrove, fuorché sopra le ginocchia, colla faccia ridente, col capo alquanto chino, cogli occhi bassi; l'avresti detto un altro S. Luigi.
Bastava vederlo per esserne edificati. L'anno 1854 fu eletto il signor conte Cays priore della compagnia di S. Luigi, eretta in quest'Oratorio". La prima volta che prese parte alle nostre funzioni vide egli un giovanetto che pregava con atteggiamento così divoto, che nè fu pieno di stupore. Terminate le sacre funzioni volle informarsi e sapere chi fosse quel fanciullo che era stato il soggetto della sua ammirazione: quel fanciullo era Domenico Savio.
La stessa sua ricreazione era quasi sempre dimezzata; una parte per lo più era passata in pia lettura, oppur in qualche preghiera che egli andava a fare in chiesa con alcuni compagni in suffragio delle anime del purgatorio o in onore di Maria Santissima.
La divozione verso la Madre di Dio in Domenico era grande assai. In onore di lei faceva ogni giorno qualche mortificazione. Non rimirava mai in faccia persone di sesso diverso; andando a scuola non alzava mai gli occhi. Talvolta passava vicino a pubblici spettacoli, che dai compagni rimiravansi con tale ansietà da non saper più dove si fossero. Interrogato il Savio se quelli spettacoli gli fossero piaciuti rispondeva, che nulla aveva veduto. Di che quasi incollerito una volta un compagno lo rimproverò dicendo: «Che vuoi dunque fare degli occhi, se non te ne servi a rimirare queste cose?». «Io voglio servirmene, rispondeva, per rimirare la faccia della nostra celeste Madre Maria, quando, se coll'aiuto di Dio ne sarò degno, andrò a trovarla in paradiso».
Aveva una speciale divozione all'immacolato cuore di Maria. Tutte le volte che recavasi in chiesa andava avanti all'altare di lei per pregarla ad ottenergli la grazia di conservare il suo cuore sempre lontano da ogni affetto impuro. «Maria, dicea, io voglio essere sempre vostro figliuolo: ottenetemi di morire prima che io commetta un peccato contrario alla virtù della modestia».
Ogni venerdì poi sceglieva un tempo di ricreazione, si portava in chiesa con altri compagni per recitare la corona dei sette dolori di Maria, o almeno le litanie di Maria addolorata".
Non solo egli era divoto di Maria SS., ma godeva assai quando poteva condurre qualcheduno a prestarle pratiche di pietà. Un giorno di sabato aveva invitato un compagno a recarsi con lui in chiesa a recitare il vespro della B. Vergine'''. Questi si arrendeva di mala voglia, adducendo aver freddo alle mani. Domenico si levò i guanti dalle mani e glieli diede, e così andarono ambidue in chiesa. Altra volta si tolse il martelletto dalle proprie spalle, per imprestarlo ad un altro, affinché andasse volentieri con lui in chiesa a pregare. Chi non sentesi compreso d'ammirazione a tali atti di generosa pietà?
In nessun tempo Domenico appariva maggiormente infervorato verso la celeste nostra protettrice Maria quanto nel mese di maggio. Si accordava con altri per fare ogni giorno di quel mese qualche pratica particolare oltre a quanto aveva luogo nella pubblica chiesa. Preparavasi una serie di esempi edificanti, che egli andava con gran piacere raccontando per animare altri ad essere divoti di Maria. Ne parlava spesso in ricreazione; animava tutti a confessarsi e frequentare la santa comunione specialmente in quel mese. Egli ne dava l'esempio accostandosi ogni giorno alla mensa eucaristica con tal raccoglimento, che maggiore non si può desiderare.
Un curioso episodio fa vedere la tenerezza del suo cuore per la divozione di Maria. Gli alunni della camera, ove egli dormiva, deliberarono di fare a spese proprie un elegante altarino, che servisse a solennizzare la chiusura del mese di Maria. Domenico era tutto in faccende per questo affare; ma venendosi alla quota che ciascuno avrebbe dovuto sborsare: «Ohimè!, esclamò, sì che stiamo bene! per questi affari ci vogliono danari; ed io non ho un quattrino in tasca. Pure voglio fare qualche cosa a qualunque costo». Andò, prese un libro, che eragli stato donato in premio, e chiestone il permesso dal superiore, ritornò pieno di gioia dicendo: «Compagni, eccomi in grado di concorrere anch'io per onorar Maria: prendete questo libro, cavatene quell'utilità che potete; questa è la mia oblazione».
Alla vista di quell'atto spontaneo e così generoso s'intenerirono i compagni, e vollero essi pure offerir libri ed altri oggetti. Con essi fu fatta una piccola lotteria, il cui prodotto fu abbondante per sopperire alle spese che occorrevano.
Terminato l'altare, i giovani desideravano di celebrare la loro festa colla massima sontuosità. Ognuno se ne dava grande sollecitudine, ma non essendosi potuto totalmente terminare l'apparato, era mestiere lavorare la notte precedente alla festa. «Io, disse il Savio, io passerò volentieri la notte lavorando». Ma i suoi compagni, perché aveva poco prima fatto una malattia, l'obbligarono di andarsi a coricare. Non voleva arrendersi, e solo andò a letto per ubbidienza. «Almeno, disse ad uno dei compagni, appena sia tutto terminato, vienmi tosto a risvegliare, affinché io possa essere dei primi a rimirare l'altare addobbato in onore della nostra cara madre».
Egli è comprovato dall'esperienza che i più validi sostegni della gioventù sono il sacramento della confessione e della comunione. Datemi un giovanetto, che frequenti questi sacramenti, voi lo vedrete crescere nella giovanile, giungere alla virile età e arrivare, se così piace a Dio, fino alla più tarda vecchiaia con una condotta, che è l'esempio di tutti quelli che lo conoscono. Questa massima la comprendano i giovanetti per praticarla; la comprendano tutti quelli che si occupano dell'educazione dei medesimi per insinuarla.
Prima che il Savio venisse a dimorare all'Oratorio frequentava questi due sacramenti una volta al mese secondo l'uso delle scuole. Di poi li frequentò con assai maggiore assiduità. Un giorno udì dal pulpito questa massima: «Giovani, se volete perseverare nella via del cielo, vi si raccomandano tre cose: accostatevi spesso al sacramento della confessione, frequentate la santa comunione, sceglietevi un confessore cui osiate aprire il vostro cuore, ma non cangiatelo senza necessità». Comprese Domenico l'importanza di questi consigli".
Cominciò egli a scegliersi un confessore, che tenne regolarmente tutto il tempo che dimorò tra noi. Affinché questi potesse poi formarsi un giusto giudizio di sua coscienza, volle, come si disse, fare la confessione generale.
Cominciò a confessarsi ogni quindici giorni, poi ogni otto giorni, comunicandosi colla medesima frequenza. Il confessore osservando il grande profitto che faceva nelle cose di spirito, lo consigliò a comunicarsi tre volte per settimana e nel termine di un anno gli permise anche la comunione quotidiana.
Fu qualche tempo dominato dagli scrupoli; perciò voleva confessarsi ogni quattro giorni ed anche più spesso; ma il suo direttore spirituale non lo permise e lo tenne all'obbedienza della confessione settimanale.
Aveva con lui una confidenza illimitata. Anzi parlava col medesimo con tutta semplicità delle cose di coscienza anche fuori di confessione. Qualcheduno lo aveva consigliato a cangiar qualche volta confessore, ma egli non volle mai arrendersi. «Il confessore, diceva, è il medico dell'anima, né mai si suole cangiar medico se non per mancanza di fiducia in lui, o perché il male è quasi disperato. Io non mi trovo in questi casi. Ho piena fiducia nel confessore che con paterna bontà e sollecitudine si adopera per il bene dell'anima mia; né io vedo in me alcun male che egli non possa guarire». Tuttavia il direttore ordinario lo consigliò a cangiar qualche volta confessore, specialmente in occasione degli spirituali esercizi; ed egli senza opporre difficoltà prontamente ubbidiva.
Il Savio godeva di se medesimo. «Se ho qualche pena in cuore, egli diceva, vo dal confessore, che mi consiglia secondo la volontà di Dio; giacché Gesù Cristo ha detto che la voce del confessore per noi è come la voce di Dio72. Se poi voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l'ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est", cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull' altare».
Con questi pensieri Domenico traeva i suoi giorni veramente felici. Di qui nasceva quella ilarità, quella gioia celeste che traspariva in tutte le sue azioni. Né pensiamoci che egli non comprendesse l'importanza di quanto faceva, e non avesse un tenor di vita cristiana, quale si conviene a chi desidera di far la comunione frequente". Perciocché la sua condotta era per ogni lato irreprensibile. Io ho invitato i suoi compagni a dirmi se nei tre anni, che dimorò fra noi, avessero notato nel Savio qualche difetto da correggere o qualche virtù da suggerire; ma tutti asserirono d'accordo che in lui non trovarono mai cosa che meritasse correzione; né avrebbero saputo quale virtù aggiungere in lui.
Il suo apparecchio a ricevere la santa eucaristia era il più edificante. La sera che precedeva la comunione, prima di coricarsi faceva una preghiera a questo scopo e conchiudeva sempre così: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Al mattino poi premetteva una sufficiente preparazione; ma il ringraziamento era senza limite. Per lo più, se non era chiamato, dimenticava la colazione, la ricreazione e talvolta fino la scuola, standosi in orazione, o meglio in contemplazione della divina bontà che in modo ineffabile comunica agli uomini i tesori della sua infinita misericordia.
Era per lui una vera delizia il poter passare qualche ora dinanzi a Gesù sacramentato. Almeno una volta al giorno andava invariabilmente a fargli visita, invitando altri ad andarvi in sua compagnia. La preghiera a lui prediletta era una coroncina al Sacro Cuore di Gesù per compensare le ingiurie che riceve dagli eretici, dagli infedeli e dai cattivi cristiani.
Affinché le sue comunioni fossero più fruttuose e nel tempo stesso in ciascun giorno gli dessero novello eccitamento a farle con fervore egli si era prefisso ogni dì un fine speciale.
Ecco come distribuiva le comunioni lungo la settimana:
Domenica. In onore della santissima Trinità.
Lunedì. Per i miei benefattori spirituali e temporali.
Martedì. In onore di S. Domenico e del mio angelo custode.
Mercoledì. A Maria Addolorata per la conversione dei peccatori.
Giovedì. In suffragio delle anime del purgatorio.
Venerdì. In onore della passione di Gesù Cristo.
Sabato. Ad onore di Maria santissima per ottenere la sua protezione in vita ed in morte.
Prendeva parte con trasporto di gioia a tutte le pratiche, le quali riguardassero al santissimo Sacramento. Se gli fosse capitato d'incontrare il viatico quando veniva portato a qualche infermo, egli si inginocchiava tosto ovunque fosse; e, se il tempo glielo permetteva, l'accompagnava finché fosse terminata la funzione.
Un giorno passavagli vicino il viatico mentre pioveva e le strade erano fangose. Non avendo miglior sito, si pose ginocchioni in mezzo alla fanghiglia. Un compagno lo rimproverò di poi, osservandogli non essere necessario imbrattarsi così gli abiti, né il Signore comandare tal cosa. Egli rispose semplicemente: «Ginocchia e calzoni è tutto del Signore, perciò tutto deve servire a rendergli onore e gloria.
Quando passo vicino a lui non solo mi getterei nel fango per onorarlo, sibbene mi precipiterei in una fornace, perché così sarei fatto partecipe di quel fuoco di carità infinita che lo spinse ad istituire questo gran Sacramento».
In simile congiuntura vide un giorno un militare che se ne stava in piedi nel momento appunto che passava vicino il santissimo Sacramento. Non osando invitarlo ad inginocchiarsi, trasse di saccoccia il piccolo suo moccichino, lo stese sul terreno insudiciato, poi fe' cenno al militare a volersene servire. Il soldato si mostrò da prima confuso, poi lasciando a parte il moccichino, si inginocchiò in mezzo della medesima strada".
Alla festa del Corpus Domini fu con altri compagni vestito da chierico, e mandato alla processione della parrocchia. Egli vi andò con sommo piacere, ed ebbe tal cosa come prezioso regalo, che maggiore niuno gli avrebbe potuto fare.
La sua età, la sanità cagionevole, l'innocenza di sua vita l'avrebbero certamente dispensato da ogni sorta di penitenza; ma egli sapeva che difficilmente un giovane può conservare l'innocenza senza la penitenza, e questo pensiero faceva sì che la via dei patimenti per lui sembrava coperta di rose. Per penitenza non parlo del sopportare pazientemente le ingiurie e i dispiaceri, non parlo della continua mortificazione e compostezza di tutti i suoi sensi nel pregare, nella scuola, nello studio, nella ricreazione. Queste penitenze in lui erano continue.
Io parlo solamente delle penitenze afflittive del corpo. Nel suo fervore avea stabilito di digiunare ogni sabato a pane ed acqua in onore della Beata Vergine, ma il confessore glielo proibì; voleva digiunare la quaresima, ma dopo una settimana la cosa venne a notizia del direttore della casa, e tosto gli fu vietata. Voleva almeno lasciare la colazione, ed anche tal cosa gli venne proibita. La ragione per cui non gli si permettevano quelle penitenze era per impedire che la sua cagionevole sanità non venisse rovinata interamente. Che fare adunque? Proibito di fare astinenza nel cibo, prese ad affliggere il corpo in altre maniere. Cominciò a mettersi schegge di legno e pezzi di mattone in letto per rendersi molesto il medesimo riposo; voleva portare una specie di cilicio; le quali cose gli vennero eziandio tutte proibite. Egli si appigliò ad un novello mezzo. In tempo d'autunno e d'inverno lasciò inoltrare la stagione senza accrescere coperte al letto, sicché eravamo a gennaio, ed egli era tuttora coperto da estate. Un mattino rimasto a letto per qualche incomodo, il direttore l'andò a visitare. Al vederlo tutto aggomitolato gli si avvicinò, e si accorse che non aveva altro addosso che una sottile copertura. «Perché hai fatto questo, gli disse? Vuoi morire di freddo?». «No, rispose, non morrò di freddo. Gesù nella capanna di Betlemme, e quando pendeva in croce, era meno coperto di me».
Allora gli fu assolutamente proibito di intraprendere penitenze di qualsiasi genere, senza prima dimandarne espressa licenza; al quale comando, sebben con pena, si sottomise. Una volta lo incontrai tutto afflitto, che andava esclamando: «Povero me! io sono veramente imbrogliato. Il Salvatore dice, che se non fo penitenza, non andrò in paradiso"; ed a me è proibito di farne: quale adunque sarà il mio paradiso?».
- La penitenza, che il Signore vuole da te, gli dissi, è l'ubbidienza. Ubbidisci, e a te basta.
- Non potrebbe permettermi qualche altra penitenza?
- Sì: ti si permettono le penitenze, di sopportare pazientemente le ingiurie qualora te ne venissero fatte; tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza e tutti gli incomodi di salute che a Dio piacerà di mandarti.
- Ma questo si soffre per necessità.
- Ciò che dovresti soffrire per necessità offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l'anima tua.
Contento e rassegnato a questi consigli se ne andò tranquillo.
Chi mirava il Savio nella sua compostezza esteriore ci trovava tanta naturalezza che avrebbe facilmente detto essere stato così creato dal Signore. Ma quelli che lo conobbero da vicino, od ebbero cura della sua educazione, possono assicurare che vi era grande sforzo umano coadiuvato dalla grazia di Dio.
I suoi occhi erano vivacissimi, ed egli doveva farsi non piccola violenza per tenerli raccolti. «Da prima, egli ripeté più volte con un amico, quando mi son fatto una legge di voler assolutamente dominare gli occhi miei, incontrai non poca fatica: e talvolta ebbi a patire grave male di capo».
La riservatezza dei suoi sguardi fu tale che di tutti quelli che lo conobbero niuno si ricorda di averlo veduto a dare una sola occhiata, la quale eccedesse i limiti della più rigorosa modestia. «Gli occhi, egli soleva dire, sono due finestre. Per le finestre passa ciò che si fa passare. E noi per queste finestre possiamo far passare un angelo, oppure il demonio colle sue corna e condurre l'uno e l'altro ad essere padroni del nostro cuore».
Un giorno avvenne, che un giovanetto estraneo alla casa inconsideratamente portò seco un giornale sopra cui erano figure sconce ed irreligiose. Una turba di ragazzi lo circonda per vedere le maraviglie di quelle figure, che avrebbero fatto ribrezzo ai turchi ed ai pagani medesimi. Corre pure il Savio, pensandosi di lontano, che colà si facesse vedere qualche immagine devota.
Ma quando ne fu vicino fece atto di sorpresa, poi quasi ridendo prese il foglio, e lo fece a minuti pezzi. Rimasero i suoi compagni pieni di stupore, sicché l'uno guardava l'altro senza parlare.
Egli allora parlò così: «Poveri noi! il Signore ci ha dato gli occhi per contemplare la bellezza delle cose da lui create, e voi ve ne servite per mirare tali sconcezze inventate dalla malizia degli uomini a danno dell'anima nostra? Avete forse dimenticato quello che tante volte fu predicato? Il Salvatore ci dice, che dando un solo sguardo cattivo macchiamo di colpa l'anima nostra; e voi pascete i vostri occhi sopra oggetti di questa fatta?».
- Noi, rispose uno, andavamo osservando quelle figure per ridere.
- Sì, sì, per ridere, intanto vi preparate per andare all'inferno ridendo..., ma riderete ancora se aveste la sventura di cadervi?
- Ma noi, ripigliò un altro, non ci vediamo tanto male in quelle figure.
- Peggio ancora; il non vedere tanto male in guardar simili sconcezze è segno che i vostri occhi sono già abituati a rimirarle; e queste abitudini non vi scusano dal male, ma vi rendono più colpevoli. O Giobbe, o Giobbe! tu eri vecchio, tu eri un santo, tu eri oppresso da una malattia per cui giacevi sdraiato sopra un letamaio; nulladimeno facesti un patto coi tuoi occhi di non dar loro la minima libertà intorno alle cose invereconde!
A quelle parole tutti si tacquero e niuno più osò di fargli alcun rimprovero, neppure altra osservazione.
Alla modestia degli occhi era congiunta una gran riservatezza nel parlare. O per torto o per ragione quando alcuno parlava, egli taceva e più volte troncava la propria parola per dar campo ad altri di parlare. I suoi maestri e gli altri suoi superiori vanno tutti d'accordo nell'asserire, che non ebbero mai alcun motivo di soltanto avvisarlo d'aver detto anche una sola parola fuori di proposito nello studio, nella scuola, nella chiesa o mentre aveva luogo l'adempimento di qualche dovere di studio o pietà. Anzi in quelle stesse occasioni che riceveva qualche oltraggio, sapeva moderare la lingua e la bile.
Un giorno egli aveva avvisato un compagno di una cattiva abitudine. Costui invece di accogliere con gratitudine la fatta ammonizione si lasciò trasportare a brutali eccessi. Lo coprì di villanie, di poi lo percosse con pugni e calci. Il Savio avrebbe potuto far valere la sua ragione coi fatti, poiché era maggiore di età e di forze. Egli per altro non fece altra vendetta se non quella dei cristiani. Divenne bensì tutto rosso nella faccia, ma frenando l'impeto della collera si limitò a queste parole: «Io ti perdono; hai fatto male; non trattar con altri in simile guisa».
Che diremo poi della mortificazione degli altri sensi del corpo? Mi restringo ad accennare soltanto alcuni fatti.
In tempo d'inverno egli pativa i geloni alle mani. Ma comunque ne sentisse dolore, non fu mai udito a fare parola o dar segno di lamento. Piuttosto pareva che ne avesse piacere. «Più sono grossi i geloni, egli diceva, e più faranno bene alla sanità», volendo indicare la sanità dell'anima. Molti suoi compagni asseriscono, che nei crudi freddi invernali egli soleva andare a scuola a passo lento e ciò per il desiderio di patire e fare penitenza in ogni cosa che gliene porgesse occasione. «Più volte il vidi, depone un suo compagno, nel più rigido inverno squarciarsi la pelle ed anche la carne con aghi e con punte di penna, affinché tali lacerazioni convertendosi in piaghe lo rendessero più simile al suo divin maestro».
Nelle comunità di giovani se ne incontrano di quelli che non sono mai contenti di nulla. Ora si lamentano delle funzioni religiose, ora della disciplina, ora del riposo, o degli apprestamenti di tavola; in tutto trovano di che disapprovare. Costoro sono una vera croce pei superiori; perché il malcontento di uno solo si comunica agli altri compagni, talvolta con non piccolo danno della comunità. La condotta del Savio era totalmente opposta a costoro. Non mai il suo labbro proferiva voce di lamento né per il caldo dell'estate, né per il freddo dell'inverno. Facesse bello o cattivo tempo egli era sempre ugualmente allegro. Checché gli si fosse apprestato a mensa mostravasi in tutto soddisfatto. Anzi con un'arte ammirabile trovava ivi un mezzo onde mortificarsi. Quando una cosa era censurata da altri, perché troppo cotta o troppo cruda, meno o molto salata, egli all'opposto mostravasi contento, dicendo essere quello appunto il suo gusto.
Era sua pratica ordinaria trattenersi in refettorio dopo i suoi compagni, raccogliere i minuzzoli di pane lasciati sopra la tavola o dispersi sul pavimento, e quelli mangiarseli come cosa saporita. Ad alcuni che ne facevano le maraviglie egli copriva il suo spirito di penitenza dicendo: «Le pagnotte non si mangiano intere e se sono ridotte in briciole è già un lavoro fatto pei denti». Ogni rimasuglio di minestra, di pietanza, di altra qualità di cibo era da lui colto e mangiato. Né ciò faceva per ghiottoneria, perciocché spesso egli donava la medesima sua porzione agli altri compagni. Interrogato perché si desse tanta sollecitudine per raccogliere quegli avanzi che avrebbero mosso taluno a schifo, egli rispondeva: «Quanto abbiamo nel mondo, tutto è dono prezioso fattoci da Dio; ma di tutti i doni, dopo la sua santa grazia, il più grande è l'alimento con cui ci conserva la vita. Perciò la più piccola parte di questo dono merita la nostra gratitudine, ed è veramente degno di essere custodito colla più scrupolosa diligenza»".
Il pulire le scarpe, spazzolare abiti ai compagni, prestare agli infermi i più bassi uffizi, scopare e fare altri simili lavori era per lui un gradito passatempo. «Ciascuno faccia quel che può, soleva dire: io non sono capace di far cose grandi, ma quello che posso, voglio farlo a maggior gloria di Dio; e spero che Iddio nella sua infinita bontà vorrà gradire queste miserabili mie offerte».
Mangiar cose contrarie al suo gusto, evitare quelle che gli sarebbero piaciute; domare gli sguardi anche nelle cose indifferenti; trattenersi ove sentisse ingrato odore; rinnegare la sua volontà; sopportare con perfetta rassegnazione ogni cosa che avesse prodotto afflizione al suo corpo od al suo spirito sono atti di virtù che da Domenico esercitavansi ogni giorno, e possiamo anche dire ogni momento di sua vita.
Taccio pertanto moltissimi altri fatti di questo genere che tutti concorrono a dimostrare quanto in Domenico fosse grande lo spirito di penitenza, di carità e di mortificazione in tutti i sensi della persona, e nel tempo stesso quanta fosse industriosa la sua virtù nel saper approfittare delle grandi e piccole occasioni, anzi delle stesse cose indifferenti per santificarsi ed accrescersi il merito davanti al Signore.
Tutta la vita di Domenico si può dire essere un esercizio di divozione verso Maria Santissima. Né lasciavasi sfuggire occasione alcuna a fine di tributarle qualche omaggio. L'anno 1854 il supremo gerarca della Chiesa definiva dogma di fede l'immacolato concepimento di Maria. Il Savio desiderava ardentemente di rendere tra di noi vivo e durevole il pensiero di questo augusto titolo dalla Chiesa dato alla Regina del Cielo. «Io desidererei, soleva dire, di fare qualche cosa in onore di Maria, ma di farlo presto, perché temo che mi manchi il tempo».
Guidato egli adunque dalla solita industriosa sua carità, scelse alcuni dei suoi fidi compagni e li invitò ad unirsi insieme con lui per formare una compagnia detta dell'Immacolata Concezione. Lo scopo era di procurarsi la protezione della gran Madre di Dio in vita e specialmente in punto di morte. Due mezzi proponeva il Savio a questo fine: esercitare e promuovere pratiche di pietà in onore di Maria Immacolata e la frequente comunione. D'accordo coi suoi amici compilò un regolamento e dopo molte sollecitudini nel giorno 8 di giugno 1856, nove mesi prima di sua morte, leggevalo con loro dinanzi all'altare di Maria santissima. Io lo trascrivo di buon grado nel pensiero che possa servire ad altri di norma a fare altrettanto". Eccone adunque il tenore:
«Noi Savio Domenico, ecc. (segue il nome di altri compagni) per assicurarci in vita ed in morte il patrocinio della Beatissima Vergine Immacolata e per dedicarci interamente al suo santo servizio, nel giorno 8 del mese di giugno, muniti tutti dei santi sacramenti della confessione e comunione, e risoluti di professar verso la Madre nostra una figliale e costante divozione, protestiamo davanti all'altare di Lei e col consenso del nostro spiritual direttore, di voler imitare per quanto lo permetteranno le nostre forze, Luigi Comollo. Onde ci obblighiamo:
1° Di osservare rigorosamente le regole della casa.
2° Di edificare i compagni ammonendoli caritatevolmente ed eccitandoli al bene colle parole ma molto più col buon esempio.
3° Di occupare esattamente il tempo. A fine poi di assicurarci della perseveranza nel tenor di vita, cui intendiamo di obbligarci, sottomettiamo il seguente regolamento al nostro direttore.
Ognuno era amico con Domenico: chi non lo amava, lo rispettava per le sue virtù. Egli sapeva poi passarsela bene con tutti. Era così rassodato nella virtù che fu consigliato di trattenersi anche con alcuni giovani alquanto discoli per far prova di guadagnarli al Signore. Ed egli approfittava della ricreazione, dei trastulli, dei discorsi anche indifferenti per tirarne vantaggio spirituale. Tuttavia quelli che erano inscritti nella società dell'Immacolata Concezione erano" i suoi amici particolari, coi quali, come si è detto, si radunava ora in conferenze spirituali, ora per compiere esercizi di cristiana pietà. Queste conferenze tenevansi con licenza dei superiori; ma erano assistite e regolate dagli stessi giovani. In esse trattavano del modo di celebrare le novene delle maggiori solennità, si ripartivano le comunioni, che ciascuno avrebbe avuto cura di fare in giorni determinati della settimana, si assegnavano a vicenda quei giovani che avevano maggior bisogno di assistenza morale e ciascuno lo faceva suo cliente, ovvero protetto, e adoperavano tutti i mezzi che suggerisce la carità cristiana per avviarlo alla virtù. Il Savio era dei più animati, e si può dire che in queste conferenze la faceva da dottore.
Si potrebbero accennare parecchi compagni del Savio che prendevano parte a queste conferenze e che trattarono molto con lui, ma essendo ancor essi tra i vivi, pare prudenza non parlarne". Ne accennerò solamente due, che sono già stati chiamati alla patria celeste. Questi sono Gavio Camillo di Tortona, e Massaglia Giovanni di Marmorito86. Il Gavio dimorò solamente due mesi tra noi, e questo tempo bastò per lasciare santa rimembranza di sé presso i compagni.
La sua luminosa pietà e il suo gran genio per la pittura e la scultura avevano risolto il municipio di quella città ad aiutarlo affinché potesse venire a Torino a proseguire gli studii per l'arte sua. Egli aveva fatto una grave malattia in patria; e come venne all'Oratorio, sia per essere convalescente, sia per trovarsi lontano dalla patria e dai parenti, sia anche per la compagnia dei giovinetti tutti sconosciuti, se ne stava osservando gli altri a trastullarsi, ma assorto in gravi pensieri. Lo vide il Savio, e tosto si avvicinò per confortarlo, e tenne secolui questo preciso discorso.
Il Savio cominciò: «Ebbene, mio caro, non conosci ancora alcuno, non è vero?».
- È vero, ma mi ricreo rimirando gli altri a trastullarsi.
- Come ti chiami?
- Gavio Camillo di Tortona. — Quanti anni hai?
- Ne ho quindici compiuti.
- Da che deriva quella malinconia che ti trasparisce in volto; sei forse stato ammalato?
- Sì, sono stato veramente ammalato; ho fatto una malattia di palpitazione, che mi portò sull'orlo della tomba, ed ora non ne sono ancora ben guarito. — Desideri di guarire, non è vero?
- Non tanto, desidero di far la volontà di Dio.
Queste ultime parole fecero conoscere il Gavio per un giovane di non ordinaria pietà, e cagionarono nel cuor del Savio una vera consolazione; sicché con tutta confidenza continuò:
- Chi desidera di fare la volontà di Dio, desidera di santificare se stesso"; hai dunque volontà di farti santo?
- Questa volontà in me è grande.
- Bene, accresceremo il numero dei nostri amici, tu sarai uno di quelli che prenderanno parte a quanto facciamo noi per farci santi.
- È bello quanto mi dici; ma io non so che cosa debba fare!
- Te lo dirò io in poche parole": sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d'oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria".
Questo discorso fu come un balsamo alle afflizioni del Gavio, che ne provò un vero conforto. Che anzi da quel giorno in poi egli divenne fido amico del Savio e costante seguace delle sue virtù. Ma la malattia che lo aveva portato sull'orlo della tomba, e che non era stata sradicata, in capo a due mesi ricomparve, e malgrado le sollecitudini dei medici e degli amici non le si poté più trovar rimedio. Dopo alcuni giorni di peggioramento, dopo di aver con grande edificazione ricevuti gli ultimi sacramenti, mandava l'anima al Creatore il 30 dicembre 1856 (avrebbe dovuto scrivere: 29 dicembre 1855).
Domenico andò più volte a visitarlo nel corso della malattia, e si offriva di passare le notti vegliando presso di lui, sebbene non gli venisse permesso. Quando seppe che era spirato, volle andarlo a vedere per l'ultima volta, e mirandolo estinto, commosso gli diceva: «Addio, o Gavio, io sono intimamente persuaso che91 tu sei volato al cielo; perciò prepara anche un posto per me. Io ti sarò sempre amico, ma finché il Signore mi lascerà in vita, pregherò per il riposo dell'anima tua».
Dopo andò con altri compagni a recitare l'uffizio dei morti nella camera del defunto, si fecero altre preghiere lungo il giorno; quindi invitò alcuni dei più buoni condiscepoli a fare la santa comunione, ed egli stesso la fece più volte in suffragio dell'amico defunto.
Fra le altre cose egli disse ai suoi amici: «Miei cari, non dimentichiamo l'anima del nostro amico. Io spero che a quest'ora egli goda già la gloria del cielo; tuttavia non cessiamo di pregare per il riposo dell'anima di lui». Tutto quello che ora facciamo per lui, Dio disporrà che altri lo faccia un giorno per noi.
Più lunghe e più intime furono le relazioni del Savio con Massaglia di Mar-monito, paese poco distante da Mondonio.
Vennero amendue contemporaneamente nella casa dell'Oratorio; erano confinanti di patria; avevano amendue la stessa volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, con vero desiderio di farsi santi.
- Non basta, un giorno Domenico diceva al suo amico, non basta il dire che vogliamo farci ecclesiastici, ma bisogna che ci adoperiamo per acquistare le virtù che a questo stato sono necessarie.
- È vero, rispondeva l'amico, ma se facciamo quello che possiamo dal canto nostro, Dio non mancherà di darci grazia e forza per meritarci un favore così grande quale si è diventar ministri di Gesù Cristo.
Venuto il tempo pasquale fecero cogli altri giovani gli spirituali esercizi con molta esemplarità. Terminati gli esercizi, Domenico disse al compagno:
- Voglio che noi siamo veri amici; veri amici per le cose dell'anima; perciò desidero che d'ora in avanti siamo l'uno monitore dell'altro in tutto ciò che può contribuire al bene spirituale. Quindi se tu scorgerai in me qualche difetto, dimmelo tosto, affinché me ne possa emendare: oppure se scorgerai qualche cosa di bene ch'io possa fare, non mancar di suggerirmelo.
- Lo farò volentieri per te, sebbene non ne abbisogni, ma tu lo devi fare assai più verso di me, che, come ben sai, per età, studio e scuola" mi trovo esposto a maggiori pericoli.
- Lasciamo i complimenti da parte ed aiutiamoci vicendevolmente a farci del bene per l'anima.
Da quel tempo il Savio ed il Massaglia divennero veri amici, e la loro amicizia fu durevole, perché fondata sulla virtù; giacché andavano a gara coll'esempio e coi consigli per aiutarsi a fuggire il male e praticare il bene.
Alla fine dell'anno scolastico, subiti gli esami, fu a ciascun giovane della casa data licenza di andar a passare le vacanze o coi genitori o con qualche altro parente. Alcuni, mossi dal desiderio di progredire nello studio ed attendere meglio agli esercizi di pietà" preferirono di rimanere all'Oratorio, e tra questi furono Savio e Massaglia. Sapendo io quanto fossero ansiosamente aspettati dai parenti, e quanto essi medesimi avessero bisogno di ristorare la loro stanchezza, dissi ad ambidue: «Perché non andate a passare qualche giorno in vacanza?». Essi invece di rispondere si misero a ridere. «Che cosa volete dirmi con questo ridere?». Domenico rispose: «Noi sappiamo che i nostri parenti ci attendono con piacere; noi eziandio li amiamo e ci andremmo volentieri; ma sappiamo che l'uccello finché trovasi in gabbia non gode libertà, è vero; è per altro sicuro dal falcone. Al contrario se è fuori di gabbia, vola dove vuole, ma da un momento all'altro può cadere negli artigli del falcone infernale»".
Ciò non ostante ho giudicato bene di mandarli qualche tempo a casa per il bene della loro sanità, e si arresero alla mia volontà soltanto per ubbidienza, restandovi quei soli giorni che erano stati strettamente loro comandati.
Se volessi scrivere i bei tratti di virtù del giovane Massaglia, dovrei ripetere in gran parte le cose dette del Savio, di cui fu fedele seguace finché visse. Egli godeva buona salute, e dava ottima speranza di sé nella carriera degli studi. Compiuto il corso di retorica, subì con esito felice l'esame per la vestizione clericale. Ma questo abito, da lui tanto amato e tanto rispettato poté soltanto portarlo alcuni mesi.
Colpito da una costipazione, che aveva aspetto di semplice raffreddore, non voleva nemmeno interrompere i suoi studi. Per il desiderio di fargli fare una cura radicale, e per toglierlo dall'occasione di studiare, i genitori lo condussero a casa. Fu nel tempo di questa sua dimora in patria che scrisse al suo amico una lettera del seguente tenore":
Caro amico.
Mi pensava di dover passare solamente alcuni giorni a casa e poi ritornare all'Oratorio, perciò ho lasciato tutti i miei arnesi di scuola costì. Ora per altro mi avveggo che le cose vanno a lungo e l'esito di mia malattia rendesi ognor più incerto. Il medico mi dice che va meglio. A me sembra che vada peggio. Vedremo chi ha ragione. Caro Domenico, io provo grande afflizione lungi da te e dall'Oratorio, perché qui non ho comodità di attendere agli esercizi di divozione. Solo mi conforto rammentando quei giorni che noi fissavamo per prepararci ed accostarci insieme alla santa comunione.
Spero nulladimeno che, sebbene separati di corpo, non lo saremo di spirito.
Intanto io ti prego di andare nello studio e di fare una visita da questore al mio cancello. Ivi troverai alcune carte Manoscritte, là vicino havvi il mio amico, il Kempis, ossia De imitatione Christi. Farai di tutto un pacco solo e me lo invierai. Bada bene che tal libro è latino; perché sebbene mi piaccia la traduzione, tuttavia è sempre traduzione, ove non trovo il gusto che provo nell'originale latino. Mi sento stanco dal fare niente; tuttavia il medico mi proibisce studiare. Fo molte passeggiate per la mia camera e spesso vado dicendo: Guarirò da questa malattia? Ritornerò a vedere i miei compagni? Sarà questa per me l'ultima malattia? Checché ne sia per essere di tutte queste cose, Dio solo il sa. Parmi di essere pronto a fare in tutti e tre i casi la santa ed amabile volontà di Dio.
Se hai qualche buon consiglio, procura di scrivermelo. Dimmi come va la tua sanità; ricordati di me nelle tue preghiere e specialmente quando fai la santa comunione. Coraggio, amami di tutto cuore nel Signore; che se non potremo trattenerci insieme lungo tempo nella vita presente, spero che potremo un giorno vivere felici in dolce compagnia nella beata eternità.
Saluta i nostri amici e specialmente i confratelli della compagnia dell'Immacolata Concezione. Il Signore sia con te e credimi sempre il tuo affezionatissimo
Massaglia Giovanni".
Domenico eseguì la commissione dell'amico, e, nel mandargli quanto gli chiedeva, univa la seguente lettera":
Mio caro Massaglia.
La tua lettera mi ha fatto piacere, perché con essa fui assicurato che tu vivi ancora, perciocché dopo la tua partenza noi non avevamo più avuto notizie di te e non sapeva se dovessi dirti il Gloria Patri o il De profundis. Riceverai gli oggetti che mi hai richiesto. Debbo soltanto notarti che il Kempis è un buon amico, ma egli è morto, né mai si muove di posto. Bisogna adunque che tu lo cerchi, lo scuota, lo legga adoperandoti per mettere in pratica quanto ivi andrai leggendo.
Tu sospiri la comodità che abbiamo qui per gli esercizi di pietà, ed hai ragione. Quando sono a Mondonio ho il medesimo fastidio. Io studiava di supplire con fare ogni giorno una visita al santissimo Sacramento, procurando di condur teco quanti compagni poteva. Oltre al Kempis leggeva il Tesoro nascosto nella santa messa del beato Leonardo". Se ti par bene fa' anche tu altrettanto. Mi dici di non sapere se ritornerai all'Oratorio a farci visita; la mia carcassa apparisce anche assai logora, e tutto mi fa presagire che mi avvicino a gran passi al termine dei miei studi e della mia vita. Ad ogni modo facciamo così: preghiamo l'uno per l'altro, perché ambi-due possiamo fare una buona morte. Colui che sarà il primo di noi ad andarsene al paradiso prepari un posto all'amico, e quando lo andrà a trovare, gli porga la mano per introdurlo nell'abitazione del cielo.
Dio ci conservi sempre in grazia sua, e ci assista a farci santi, ma presto santi, perché temo che ci manchi il tempo. Tutti i nostri amici sospirano il tuo ritorno all'Oratorio e ti salutano caramente nel Signore.
Io poi con fraterno amore ed affetto mi dichiaro sempre
Affezionatissimo amico
Savio Domenico.
La malattia del giovane Massaglia dapprima sembrava leggera; più volte parve perfettamente vinta, più volte ricadde, finché quasi inaspettatamente venne all'estremo della vita.
«Egli ebbe tempo, scriveva il teologo Valfrè direttore spirituale nelle vacanze", di ricevere colla massima esemplarità tutti i conforti di nostra santa cattolica religione; moriva della morte del giusto che lascia il mondo per volare al cielo».
Alla perdita di quell'amico il Savio fu profondamente addolorato, e sebbene rassegnato ai divini voleri lo pianse per più giorni. Questa è la prima volta che vidi quel volto angelico a rattristarsi e piangere di dolore. L'unico conforto fu di pregare e far pregare per l'amico defunto. Fu udito talvolta ad esclamare: «Caro Massaglia, tu sei morto, e spero che sarai già in compagnia di Gavio in paradiso, ed io quando andrò a raggiungervi nell'immensa felicità del cielo?».
Per tutto il tempo che Domenico sopravvisse al suo amico l'ebbe ognor presente nelle pratiche di pietà e soleva dire, che non poteva andar ad ascoltare la santa messa, od assistere a qualche esercizio divoto senza raccomandare a Dio l'anima di colui che in vita erasi cotanto adoperato per il suo bene. Questa perdita fu assai dolorosa al tenero cuor di Domenico, e la medesima sanità di lui fu notevolmente alterata.
Finora ho raccontate cose che presentano nulla di straordinario, se non vogliamo chiamare straordinaria una condotta costantemente buona, che si andò sempre perfezionando coll'innocenza della vita, con le opere di penitenza e coll'esercizio della pietà. Potrebbesi pur chiamare cosa straordinaria la vivezza di sua fede, la ferma sua speranza e l'infiammata sua carità e la perseveranza nel bene sino all'ultimo respiro. Qui per altro io voglio esporre grazie speciali ed alcuni fatti non comuni, che forse andranno soggetti a qualche critica. Per la qual cosa io stimo bene di notare al lettore, che quanto ivi riferisco ha piena somiglianza coi fatti registrati nella Bibbia e nella vita dei santi; riferisco cose che ho vedute cogli occhi miei, assicuro che scrivo scrupolosamente la verità, rimettendomi poi interamente ai riflessi del discreto lettore. Eccone il racconto.
Più volte andando in chiesa, specialmente nel giorno che Domenico faceva la santa comunione oppure era esposto il santissimo Sacramento, egli restava come rapito dai sensi; talmente che lasciava passare del tempo anche troppo lungo, se non era chiamato per compiere i suoi ordinari doveri. Accadde un giorno che mancò dalla colazione, dalla scuola, e dal medesimo pranzo, e niuno sapeva dove fosse; nello studio non c'era, a letto nemmeno. Riferita al direttore tal cosa, gli nacque sospetto di quello che era realmente, che fosse in chiesa, siccome già altre volte era accaduto. Entra in chiesa, va in coro e lo vede là fermo come un sasso. Egli teneva un piede sull'altro, una mano appoggiata sul leggio dell'antifonario, l'altra sul petto colla faccia fissa e rivolta verso il tabernacolo. Non moveva palpebra. Lo chiama, nulla risponde. Lo scuote, e allora gli volge lo sguardo e dice: «Oh è già finita la messa?». «Vedi, soggiunse il direttore, mostrandogli l'orologio, sono le due». Egli dimandò umile perdono della trasgressione delle regole di casa, ed il direttore lo mandò a pranzo, dicendogli: «Se taluno ti dirà: onde vieni? Risponderai, che vieni dall'eseguire un mio comando». Fu detto questo per evitare le dimande inopportune, che forse i compagni avrebbero fatte.
Un altro giorno, terminato l'ordinario ringraziamento della messa, io era per uscire dalla sacrestia, quando sento in coro una voce come di una persona che disputava. Vado a vedere e trovo il Savio che parlava e poi si arrestava, come chi dà campo alla risposta. Fra le altre cose intesi chiaramente queste parole: «Sì, mio Dio, ve l'ho già detto e ve lo dico di nuovo, io vi amo e vi voglio amare fino alla morte. Se voi vedete che io sia per offendervi, mandatemi la morte: sì, prima la morte, ma non peccare».
Gli ho talvolta dimandato che cosa facesse in quei suoi ritardi, ed egli con tutta semplicità rispondeva: «Povero me, mi salta una distrazione, e in quel momento perdo il filo delle mie preghiere, e parmi di vedere cose tanto belle, che le ore fuggono come un momento».
Un giorno entrò nella mia camera dicendo: «Presto, venga con me, c'è una bell'opera da fare». «Dove vuoi condurmi?», gli chiesi. «Faccia presto, soggiunse, faccia presto». Io esitava tuttora, ma instando egli, ed avendo già provato altre volte l'importanza di questi inviti, accondiscesi. Lo seguo. Esce di casa, passa per una via, poi un'altra, ed un'altra ancora, ma non si arresta, né fa parola; prende in fine un'altra via, io lo accompagno di porta in porta, finché si ferma. Sale una scala, monta al terzo piano e suona una forte scampanellata. «È qua, che deve entrare», egli dice, e tosto se ne parte.
Mi si apre: «Oh presto, mi vien detto; presto, altrimenti non è più a tempo. Mio marito ebbe la disgrazia di farsi protestante; adesso è in punto di morte e dimanda per pietà di poter morire da buon cattolico».
Io mi recai tosto al letto di quell'infermo, che mostrava viva ansietà di dar sesto alle cose della sua coscienza. Aggiustate colla massima prestezza le cose di quell'anima, giunge il curato della parrocchia di S. Agostino'", che già prima si era fatto chiamare. Esso poté appena amministrargli il sacramento dell'Olio Santo con una sola unzione, poiché l'ammalato divenne cadavere.
Un giorno ho voluto chiedere al Savio come egli avesse potuto sapere che colà eravi un ammalato, ed egli mi guardò con aria di dolore, di poi si mise a piangere. Io non gli ho più fatta ulteriore dimanda.
L'innocenza della vita, l'amor verso Dio, il desiderio delle cose celesti ave-ano portato la mente di Domenico a tale stato che si poteva dire abitualmente assorto in Dio. Talvolta sospendeva la ricreazione, voltava altrove lo sguardo e si metteva a passeggiare da solo. Interrogato perché lasciasse così i compagni, rispondeva: «Mi assalgono le solite distrazioni, e mi pare che il paradiso mi si apra sopra del capo, ed io debbo allontanarmi dai compagni per non dir loro cose che forse essi metterebbero in ridicolo».
Un giorno in ricreazione parlavisi del gran premio da Dio preparato in cielo a coloro che conservavano la stola dell'innocenza. Fra le altre cose dicevasi: «Gli innocenti sono in cielo i più vicini alla persona del nostro divin Salvatore, e gli canteranno speciali inni di gloria in eterno». Questo bastò per sollevare il suo spirito al Signore e, restando immobile, si abbandonò come morto nelle braccia di uno degli astanti".
Questi rapimenti di spirito gli succedevano nello studio, e nell'andata e ritorno dalla scuola e nella scuola medesima.
Parlava assai volentieri del romano pontefice, ed esprimeva il suo vivo desiderio di poterlo vedere prima di morire, asserendo ripetutamente che aveva cosa di grande importanza da dirgli. Ripetendo spesso le medesime cose, volli chiedergli qual fosse quella gran cosa che avrebbe voluto dire al Papa.
- Se potessi parlare al Papa, vorrei dirgli che in mezzo alle tribolazioni che lo attendono non cessi di occuparsi con particolare sollecitudine'" dell'Inghilterra; Iddio prepara un gran trionfo al cattolicismo in quel regno.
- Sopra quali cose appoggi tu queste tue parole?
- Lo dico, ma non vorrei che ne facesse parola con altri, per non espormi forse alle burle. Se però andrà a Roma, lo dica a Pio IX. Ecco dunque: un mattino, mentre faceva il ringraziamento della comunione, fui sorpreso da una forte distrazione, e mi parve di vedere una vastissima pianura piena di gente avvolta in densa nebbia.
Camminavano, ma come uomini che, smarrita la via, non vedono più ove mettono il piede. Questo paese, mi disse uno che mi era vicino, è l'Inghilterra. Mentre voleva dimandare altre cose vedo il sommo pontefice Pio IX tale quale aveva veduto dipinto in alcuni quadri. Egli maestosamente vestito, portando una luminosissima fiaccola tra le mani, si avanzava verso quella turba immensa di gente. Di mano in mano che si avvicinava, al chiarore di quella fiaccola, scompariva la nebbia, e gli uomini restavano nella luce come di mezzogiorno. Questa fiaccola, mi disse l'amico, è la religione cattolica che deve illuminare gl'Inglesi.
L'anno 1858 essendo andato a Roma, ho voluto raccontare tale cosa al sommo pontefice, che la udì con bontà e con piacere. «Questo, disse il Papa, mi conferma nel mio proposito di lavorare energicamente a favore dell'Inghilterra, a cui ho già rivolto le mie più vive sollecitudini. Tal racconto, se non altro, mi è come consiglio di un'anima buona».
Ometto molti altri fatti simiglianti, contento di scriverli, lasciando che altri li pubblichi, quando si giudicherà che possano tornare a maggior gloria di Dio.
Chi ha letto quanto abbiamo finora scritto intorno al giovine Savio Domenico, conoscerà di leggeri che la vita di lui fu una continua preparazione alla morte. Ma egli reputava la compagnia dell'Immacolata Concezione come un mezzo efficace per assicurarsi la protezione di Maria in punto di morte, che ognuno presagiva non essergli lontana. Io non so se egli abbia avuto da Dio rivelazione del giorno e delle circostanze di sua morte, o ne avesse egli solo un pio presentimento. Ma è certo che ne parlò molto tempo avanti che quella avvenisse, e ciò facea con tale chiarezza di racconto, che meglio non avrebbe fatto chi ne avesse parlato dopo la medesima di lui morte".
In vista del suo stato di salute gli si usavano tutti i riguardi per moderarlo nelle cose di studio e di pietà; tuttavia e per la naturale gracilità, e per alcuni incomodi personali ed anche per la continua tensione di spirito, gli si andavano ogni giorno diminuendo le forze.
Egli stesso se ne accorgeva, e talvolta andava dicendo: «Bisogna che io corra, altrimenti la notte mi sorprende per istrada»1". Volendo dire che gli restava poco tempo di vita e che doveva essere sollecito in fare opere buone prima che giungesse la morte.
Havvi l'uso in questa casa che i nostri giovani facciano l'esercizio della buona morte una volta al mese1°. Consiste questo esercizio nel prepararci a fare una confessione e comunione come fosse l'ultima della vita. Il regnante Pio IX nella sua grande bontà arricchì questo esercizio di varie indulgenze. Domenico lo faceva con un raccoglimento, che non si può dire maggiore. In fine della sacra funzione si suole recitare un Pater ed Ave per colui che tra gli astanti sarà il primo a morire. Un giorno scherzando egli disse: «In luogo di dire per colui che sarà il primo a morire, dica così: un Pater ed Ave per Savio Domenico che di noi sarà il primo a morire». Questo disse più volte.
Sul finire di aprile del 1856 egli si presentò al direttore e gli domandò come avrebbe dovuto fare per celebrare santamente il mese di Maria.
- Lo celebrerai, rispose, coll'esatto adempimento dei tuoi doveri, raccontando ogni dì un esempio in onore di Maria, e procurando di regolarti in modo da poter fare in ciascun giorno la santa coMunione.
- Ciò procurerò di fare puntualmente; ma quale grazia dovrò dimandare?
- Dimanderai alla santa Vergine che ti ottenga da Dio sanità e grazia per farti santo.
- Che mi aiuti a farmi santo, che mi aiuti a fare una santa morte, e che negli ultimi momenti di vita mi assista e mi conduca in cielo.
Di fatto egli dimostrò tale fervore nel decorso di quel mese, che sembrava un angelo vestito di umane spoglie. Se scriveva parlava di Maria, se studiava, cantava, andava a scuola, tutto era per onore di Lei. In ricreazione procurava di aver ogni giorno pronto un esempio per raccontarlo ora a questi, ora a quegli altri compagni radunati. Un compagno un giorno gli disse: «Se fai tutto in quest'anno, che cosa vorrai fare un altro anno?». «Lascia far da me, rispose: in quest'anno voglio fare quel che posso; l'anno venturo, se ci sarò ancora, ti dirò quello che sarò per fare»'''.
Per usare tutti i mezzi atti a fargli riacquistare la sanità ho fatto fare un consulto di medici. Tutti ammirarono la giovialità, la prontezza di spirito e l'assennatezza delle risposte di Domenico. Il dottor Francesco Vallauri, di felice memoria"', che era uno dei benemeriti consulenti, pieno di ammirazione: «Che perla preziosa, disse, è mai questo giovanetto!».
- Qual è l'origine del malore che gli fa diminuire la sanità ogni giorno più? gli dimandai.
- La sua gracile complessione, la cognizione precoce, la continua tensione di spirito, sono come lime che gli rodono insensibilmente le forze vitali.
- Qual rimedio potrebbe tornargli maggiormente utile?
- Il rimedio più utile sarebbe lasciarlo andare al paradiso, per cui mi pare assai preparato. L'unica cosa che potrebbe protrargli la vita si è l'allontanarlo intieramente qualche tempo dallo studio, e trattenerlo in occupazioni materiali adattate alle sue forze.
Lo sfinimento di forze in cui si trovava non era tale da tenerlo continuamente a letto; perciò talvolta andava a scuola, allo studio; oppure si occupava in affari domestici. Fra le cose in cui si occupava con gran piacere era il servire i compagni infermi qualora ve ne fossero stati nella casa.
- Io non ho alcun merito avanti a Dio, diceva, nell'assistere o visitare gl'infermi, perché lo fo con troppo gusto; anzi mi è un caro divertimento.
Mentre poi loro faceva dei servizi temporali, era accortissimo nel suggerire sempre qualche cosa di spirituale. «Questa carcassa, diceva ad un compagno incomodato, non vuol durare in eterno, non è vero? Bisogna lasciare che si logori poco per volta, finché vada alla tomba; ma allora, caro mio, l'anima nostra sciolta dagli impacci del corpo volerà gloriosa al cielo e godrà una sanità ed una felicità interminabile».
Avvenne che un compagno rifiutavasi di bere una medicina, perché amara. «Caro mio, dicevagli Domenico, noi dobbiamo prendere qualsiasi rimedio, perché così facendo obbediamo a Dio, che ha stabilito medici e medicine, perché sono necessari a riacquistare la perduta sanità; che se proviamo qualche ripugnanza per il gusto, avremo maggior merito per l'anima. Del resto credi che questa tua bevanda sia tanto amara ed aspra quanto era amaro il fiele misto con aceto di cui fu abbeverato l'innocentissimo Gesù sopra la croce?». Queste parole dette colla maravigliosa sua schiettezza facevano sì che niuno osava più opporre difficoltà.
Sebbene la sanità del Savio fosse divenuta assai cagionevole, tuttavia l'andare a casa era cosa per lui la più disgustosa, perciocché gli rincresceva interrompere gli studi e le solite sue pratiche di pietà. Alcuni mesi prima io ve l'aveva già mandato, ed egli vi dimorò solo pochi giorni e tosto me lo vidi ricomparire all'Oratorio. Io debbo dirlo, il rincrescimento era reciproco: io l'avrei tenuto in questa casa a qualunque costo, il mio affetto per lui era quello di un padre verso di un figliuolo il più degno di affezione. Pure il consiglio dei medici era tale, ed io voleva eseguirlo; tanto più che da alcuni giorni erasi in lui manifestata una ostinata tosse. Se ne avverte adunque il padre, e si stabilisce la partenza per il primo di marzo 1857.
Si arrese Domenico a tale deliberazione, ma solo per farne un sacrificio a Dio. «Perché, gli si domandò, vai a casa così di mal animo; mentre dovresti andarvi con gioia per godervi la compagnia dei tuoi amati genitori?». «Perché, rispose, desidero di terminare i miei giorni all'Oratorio».
- Andrai a casa, e, dopo che ti sarai alquanto ristabilito in salute, ritornerai. — Oh! questo poi no, no, io me ne vo e non ritornerò più.
La sera precedente alla partenza non poteva levarmelo d'attorno; sempre aveva cose da dimandare. Fra le altre diceva: «Qual è la cosa migliore che possa fare un ammalato per acquistar merito davanti a Dio?».
- Offrire spesso a Dio quanto egli soffre.
- Qual altra cosa potrebbe ancor fare?
- Offrire la sua vita al Signore.
- Posso esser certo che i miei peccati mi siano stati perdonati?
- Ti assicuro a nome di Dio che i tuoi peccati ti sono stati tutti perdonati.
- Posso essere certo di essere salvo?
- Sì, mediante la divina misericordia, la quale non ti manca, tu sei certo di salvarti.
- Se il demonio venisse a tentarmi che cosa gli dovrei rispondere?
- Gli risponderai che hai venduto l'anima a Gesù Cristo, e che egli l'ha comperata col prezzo del suo sanguem; se il demonio ti facesse ancora altra difficoltà, gli chiederai qual cosa abbia egli fatto per l'anima tua. Al contrario Gesù Cristo ha sparso tutto il suo sangue per liberarla dall'inferno e condurla seco lui al paradiso.
- Dal paradiso potrò vedere i miei compagni dell'Oratorio, ed i miei genitori?
- Sì, dal paradiso vedrai tutte le vicende dell'Oratorio, vedrai i tuoi genitori, le cose che li riguardano, ed altre cose mille volte ancor più belle.
- Potrò venire a far loro qualche visita?
- Potrai venire, purché tal cosa torni a maggior gloria di Dio.
Queste e moltissime dimande andava facendo, e sembrava una persona che avesse già un piede sulle porte del paradiso e che prima d'entrarvi volesse bene informarsi delle cose che entro vi erano.
Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l'esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. «Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte. Ché se mi accadesse di morire per la strada, sarei già comunicato». Il rimanente della mattinata lo impiegò tutto per mettere in sesto le cose sue. Aggiustò il baule mettendo ogni oggetto come se non dovesse toccarlo mai più. Dopo andava visitando un per uno i suoi compagni, a chi dava un consiglio, avvisava questo ad emendarsi di un difetto, incoraggiava quell'altro a perseverare nel bene. Ad uno cui doveva rimettere due soldim, il richiamò e gli disse: «Vien qua, aggiustiamo i nostri conti, altrimenti tal cosa mi cagionerà imbrogli nell'aggiustamento dei conti col Signore». Parlò ai confratelli della società dell'Immacolata Concezione, e colle più animate espressioni li incoraggiava ad essere costanti nell'osservanza delle promesse fatte a Maria santissima ed a riporre in lei la più viva confidenza. Al momento di partire mi chiamò e dissemi queste precise parole: «Ella adunque non vuole questa mia carcassa (carcame ovvero scheletro) ed io sono costretto a portarla a Mondonio. Il disturbo sarebbe di pochi giorni, ... poi sarebbe tutto finito; tuttavia sia fatta la volontà di Dio. Se va a Roma, si ricordi della commissione dell'Inghilterra presso il Papa; preghi affinché io possa fare una buona morte e a rivederci in paradiso». Eravamo giunti alla porta che mette fuori dell'Oratorio, ed egli mi teneva tuttora stretta la mano quando si volta ai compagni che lo attorniavano e disse114: «Addio, amati compagni, addio tutti, pregate per me e a rivederci colà dove saremo sempre col Signore»115. Era già sulla porta del cortile, quando lo vedo tornare indietro e dirmi:
- Mi faccia un regalo da conservare per sua memoria.
- Dimmi che regalo ti aggrada e te lo farò sull'istante. Vuoi tu un libro?
- No: qualche cosa di meglio.
- Vuoi danaro per il viaggio?
- Sì, appunto: danaro per il viaggio dell'eternità. Ella ha detto che ha ottenuto dal Papa alcune indulgenze plenarie in articolo di morte, metta anche me nel numero di quelli che ne possono partecipare.
- Sì, figlio mio, tu puoi ancora essere compreso in quel numero e vo subito a scrivere il tuo nome in quella carta.
Dopo di che egli lasciava l'Oratorio dove era stato circa tre anni con tanto piacere per sé, con tanta edificazione dei suoi compagni e dei medesimi suoi superiori, e lo lasciava per non ritornarvi mai più.
Noi eravamo tutti maravigliati di quei suoi insoliti saluti. Sapevamo che egli pativa molti incomodi di salute, ma poiché si teneva quasi sempre fuori di letto, non facevamo gran caso della sua malattia. Di più avendo un'aria costantemente allegra, niuno dal volto poteva scorgere, che egli patisse malori di corpo o di spirito. E sebbene quegli insoliti saluti ci avessero posti in afflizione, avevamo però la speranza di rivederlo presto a ritornare fra noi. Ma non era così, egli era maturo per il cielo; nel breve corso di vita erasi già guadagnata la mercede dei giusti, come se fosse vissuto a molto avanzata età, ed il Signore lo voleva sul fiore degli anni chiamare a sé per liberarlo dai pericoli in cui spesso fanno naufragio anche le anime più buone.
Partiva il nostro Domenico da Torino il primo marzo alle due pomeridiane in compagnia di suo padre, e il suo viaggio fu buono: anzi pareva che la vettura, la varietà de' paesi, la compagnia dei parenti gli avessero fatto del bene. Onde giunto a casa, per quattro giorni non si pose a letto. Ma veduto che gli si diminuivano le forze e l'appetito, e che la tosse si mostrava ognor più forte, fu giudicato bene di mandarlo a farsi visitare dal medico. Questi trovò il male assai più grave che non appariva. Comandò che andasse a casa e si mettesse tosto a letto, e giudicando che fosse malattia d'infiammazione fece uso dei salassi'''.
È proprio dell'età giovanile il provare grande apprensione pei salassi. Perciò il chirurgo nell'atto di cominciare l'operazione esortava Domenico a voltare altrove la faccia118, aver pazienza e farsi coraggio. Egli si pose a ridere e disse: «Che è mai una piccola puntura in confronto dei chiodi piantati nelle mani e nei piedi dell'innocentissimo nostro Salvatore?». Quindi con tutta pacatezza d'animo, faceziando e senza dar segno del minimo turbamento mirava il sangue ad uscire dalle vene in tutto il tempo dell'operazione119. Fatti alcuni salassi, la malattia sembrava volgere in meglio; cosi assicurava il medico, così credevano i parenti: ma Domenico giudicava altrimenti. Guidato dal pensiero che è meglio prevenire i sacramenti, che perdere i sacramenti, chiamò suo padre: «Papà! gli disse, è bene che facciamo un consulto col medico celeste. Io desidero di confessarmi e di ricevere la santa comunione».
I genitori che eziandio giudicarono la malattia in istato di miglioramento udirono con pena tale proposta, e solo per compiacerlo fu mandato a chiamare il prevosto, che lo venisse a confessare'20. Venne questi prontamente per la confessione, poscia sempre per compiacerlo gli portò il santo viatico. Ognuno può immaginarsi con quale divozione e raccoglimento sfasi comunicato. Tutte le volte che si accostava ai santi sacramenti sembrava sempre un san Luigi. Ora che egli giudicava esser veramente quella l'ultima comunione della sua vita, chi potrebbe esprimere il fervore, gli slanci di teneri affetti che da quell'innocente cuore uscirono verso l'amato suo Gesù?
Richiamò allora alla memoria le promesse fatte nella prima comunione. Disse più volte: «Sì, sì, o Gesù, o Maria, voi sarete ora e sempre gli amici dell'anima mia. Ripeto e lo dico mille volte: morire, ma non peccati». Terminato il ringraziamento, tutto tranquillo disse: «Ora sono contento; è vero che debbo fare il lungo viaggio dell'eternità, ma con Gesù in mia compagnia ho nulla a temere. Oh! dite pur sempre, ditelo a tutti: chi ha Gesù per suo amico e compagno non teme più alcun male, nemmeno la morte».
La sua pazienza fu esemplare in tutti gli incomodi sofferti nel corso della vita; ma in questa ultima malattia apparve un vero modello di santità. Non voleva che alcuno lo aiutasse negli ordinari bisogni. «Finché potrò, diceva egli, voglio diminuire il disturbo ai miei cari genitori; essi hanno già tollerati tanti incomodi e tante fatiche per me; potessi io almeno in qualche modo ricompensarli!». Prendeva con indifferenza i rimedi anche i più disgustosi; si sottomise a dieci salassi senza dimostrare il minimo risentimento.
Dopo quattro giorni di malattia, il medico si rallegrò coll'infermo, e disse ai parenti: «Ringraziamo la divina Provvidenza, siamo a buon punto, il male è vinto, abbiamo soltanto bisogno di fare una giudiziosa convalescenza». Godevano di tali parole i buoni genitori. Domenico però si pose a ridere e soggiunse: «Il mondo è vinto121, ho soltanto bisogno di fare una giudiziosa comparsa davanti a Dio». Partito il medico, senza lusingarsi di quanto eragli stato detto, chiese che gli fosse amministrato il sacramento dell'Olio Santo. Anche quivi i parenti accondiscesero per compiacerlo, perché né essi, né il prevosto scor-gevano in lui alcun pericolo prossimo di morte, anzi la serenità del sembiante e la giovialità delle parole il facevano realmente giudicare in istato di miglioramento. Ma egli o fosse mosso da sentimenti di devozione oppure fosse così inspirato da voce divina che gli parlasse al cuore, fatto sta che contava i giorni e le ore di vita come si calcolano colle operazioni dell'aritmetica, ed ogni momento era da lui impiegato a prepararsi a comparire dinanzi a Dio. Prima di ricevere l'Olio Santo fece questa preghiera: «Oh Signore, perdonate i miei peccati, io vi amo, vi voglio amare in eterno! Questo sacramento, che nella vostra infinita misericordia permettete che io riceva, scancelli dall'anima mia tutti i peccati commessi coll'udito, colla vista, colla bocca, colle mani e coi piedi; sia il mio corpo e l'anima mia santificata dai meriti della vostra passione: così sia».
Egli rispondeva a ciascuna occorrenza con tale chiarezza di voce e giustezza di concetti, che noi l'avremmo detto in perfetto stato di salute.
Eravamo al 9 marzo, quarto di sua malattia, ultimo di sua vita. Gli erano già stati praticati dieci salassi con altri rimedi e le sue forze erano intieramente prostrate, perciò gli fu data la benedizione papale. Disse egli stesso il Confiteor, rispondeva a quanto diceva il sacerdote. Quando intese a dirsi che con quell'atto religioso il Papa gli compartiva la benedizione apostolica coll'indulgenza plenaria provò la più grande consolazione. «Deo gratias, andava dicendo, et semper Deo gratias». Quindi si volse al crocifisso e recitò questi versi che gli erano molto famigliari nel corso della vita: Signor la libertà tutta vi dono, Ecco le mie potenze, il corpo mio / Tutto vi do, che tutto è vostro, o Dio / E nel vostro voler io m'abbandono.
È verità di fede che l'uomo raccoglie in punto di morte il frutto delle opere sue. Quae seminaverit homo, haec et metet'23. Se in vita sua ha seminato opere buone, egli raccoglierà in quegli ultimi momenti frutti di consolazione; se ha seminato opere cattive, allora raccoglierà desolazione sopra desolazione. Nulladimeno avviene talvolta che anime buone dopo una santa vita provino terrore e spavento all'avvicinarsi l'ora della morte. Questo accade secondo gli adorabili decreti di Dio, che vuole purgare quelle anime dalle piccole macchie che forse hanno contratto in vita e così assicurare e rendere loro più bella la corona di gloria in cielo. Del nostro Savio non fu così. Io credo che Iddio abbia voluto dargli tutto quel centuplo che alle anime dei giusti egli fa precedere alla gloria del paradiso. Difatti l'innocenza conservata fino all'ultimo momento di vita, la sua viva fede, e le continue preghiere, le lunghe sue penitenze e la vita tutta seminata di tribolazioni gli meritarono certamente quel conforto in punto di morte.
Egli adunque vedeva appressarsi la morte colla tranquillità dell'anima innocente; anzi sembrava che nemmeno il suo corpo provasse gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l'anima deve fare nel rompere i legami del corpo. Insomma la morte del Savio si può chiamare piuttosto riposo, che morte.
Era la sera del 9 marzo 1857, egli aveva ricevuto tutti i conforti di nostra santa cattolica religione. Chi l'udiva soltanto a parlare e ne mirava la serenità del volto, avrebbe in lui ravvisato chi giace a letto per riposo. L'aria allegra, gli sguardi tuttora vivaci, piena cognizione di se stesso, erano cose che facevano tutti maravigliare e niuno fuori di lui poteva persuadersi che egli si trovasse in punto di morte.
Un'ora e mezzo prima che tramandasse l'ultimo respiro il prevosto l'andò a visitare, e al vederne la tranquillità lo stava con istupore ascoltando a raccomandarsi l'anima. Egli faceva frequenti e prolungate giaculatorie, che tendevano tutte a manifestare il vivo di lui desiderio di andare presto al cielo.
«Quale cosa suggerire per raccomandare l'anima ad agonizzanti di questa fatta?», disse il prevosto124. Dopo aver recitato con lui alcune preghiere, il parroco era per uscire, quando Savio lo chiamò dicendo: «Signor prevosto, prima di partire mi lasci qualche ricordo». «Per me, rispose, non saprei che ricordo lasciarti». «Qualche ricordo, che mi conforti». «Non saprei dirti altro se non che ti ricordi della passione del Signore». «Deo gratias, rispose, la passione di nostro Signor Gesù Cristo sia sempre nella mia mente, nella mia bocca, nel mio cuore. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi in questa ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l'anima mia». Dopo tali parole si addormentò e prese mezz'ora di riposo. Indi svegliatosi volse uno sguardo ai suoi parenti: «Papà, disse, ci siamo».
- Eccomi, figliuol mio, che ti abbisogna?
- Mio caro papà, è tempo; prendete il mio Giovane provveduto (125) e leggetemi le preghiere della buona morte.
A queste parole la madre ruppe in pianto e si allontanò dalla camera dell'infermo. Al padre scoppiava il cuore di dolore, e le lagrime gli soffocavano la voce; tuttavia si fece coraggio e si mise a leggere quella preghiera. Egli ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me»126. Giunto alle parole: «Quando finalmente l'anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi»127. «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po' di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi... Oh! che bella cosa io vedo mai...». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento.
Va' pure, anima fedele al tuo Creatore, il cielo ti è aperto, gli angeli ed i santi ti hanno preparata una gran festa; quel Gesù che tanto amasti t'invita e ti chiama dicendo: «Vieni, servo buono e fedele, vieni, tu hai combattuto, hai riportato vittoria, ora vieni al possesso di un gaudio che non ti mancherà mai più: intra in gaudium Domini tui».
Quando il padre di Domenico il vide proferire parole nel modo che abbiamo riferito, e poi piegare il capo come per riposare, pensavasi realmente che avesse di nuovo preso sonno. Lo lasciò alcuni istanti in quella posizione, ma tosto volle chiamarlo, e si accorse che egli era già fatto cadavere. Lascio ad ognuno immaginare la desolazione dei genitori per la perdita di un figliuolo che alla innocenza, alla pietà univa i modi più graziosi e più atti a farsi amare!
Noi pure quivi nella casa dell'Oratorio eravamo ansiosi di avere notizie di questo venerato amico e compagno; quando ricevo dal padre di lui una lettera che incominciava così: «Colle lagrime agli occhi le annunzio la più trista novella: il mio caro figliuolo Domenico, di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigi Gonzaga, rese l'anima al Signore ieri sera 9 del corrente mese di marzo dopo aver nel modo più consolante ricevuto i santi sacramenti e la benedizione papale».
Tale notizia pose in costernazione i suoi compagni. Chi piangeva in lui la perdita di un amico, di un consigliere fedele; chi sospirava di aver perduto un modello di vera pietà. Alcuni si radunarono a pregare per il riposo dell'anima di lui. Ma il maggior numero andava dicendo: «Egli era santo, ora è già in paradiso». Altri cominciarono a raccomandarsi a lui come ad un protettore presso Dio. Tutti poi andarono a gara per avere qualche oggetto che avesse appartenuto a lui.
Recata quella notizia al prof. D. Picco, ne fu profondamente addolorato. Come furono radunati i suoi alunni, tutto commosso partecipava loro il tristo annunzio con queste parole:
«Non è molto tempo, o giovani carissimi, parlandovi a caso della caducità della vita umana, vi faceva osservare come la morte non risparmii talvolta anche la vostra florida età, e per esempio vi adduceva, come or sono due anni, in questi stessi giorni frequentava questa medesima scuola, sedeva qui presente ad ascoltarmi un giovane pieno di vita e di vigore, il quale, dopo l'assenza di pochi giorni, passava da questa vita, dai parenti e dagli amici compianto. Quando io vi rammentava quel caso doloroso era ben lungi dal pensare che il presente anno avesse ad essere funestato da un somigliante duolo, e che tale esempio si avesse a rinnovare sì presto in uno di quelli stessi che mi ascoltavano. Sì, miei cari, io debbo amareggiarvi con una dolorosa nuova. La falce della morte mieteva ieri l'altro la vita di uno tra i più virtuosi vostri compagni, del buon giovinetto Domenico Savio. Voi forse vi ricorderete, come negli ultimi giorni, in cui frequentò la scuola, si mostrasse tormentato da una tosse maligna che già mi faceva presagire una seria malattia, onde nissuno di noi si stupì quando udimmo che era stato da quella obbligato ad assentarsi dalla scuola. Per meglio curare il suo morbo, e già prevedendo, come replicatamente disse ad alcuni, il suo prossimo fine, egli secondò il consiglio dei medici e dei suoi superiori, e andò in seno della famiglia. Quivi la violenza del male si sviluppò oltre modo e dopo soli quattro giorni di malattia rese l'innocente suo spirito al Creatore.
Io lessi ieri la lettera, con cui il desolato genitore dava la dolorosa nuova, e questa nella sua semplicità faceva tale pittura della santa morte di quell'angelo, che mi commosse fino alle lagrime. Egli non trova espressioni più acconce a lodare l'amato suo figliuolo che col chiamarlo un altro S. Luigi Gonzaga sì nella santità della vita come nella beata rassegnazione alla morte. Io vi assicuro che assai mi duole, che egli abbia frequentato sì poco la mia scuola, e che in questo breve tempo la sua poca sanità non mi abbia permesso di conoscerlo e praticarlo più che si può fare in una scuola alquanto numerosa.
Perciò io lascio ai suoi superiori il dirvi quale fosse la santità dei suoi sentimenti, quale il suo fervore nella divozione e nella pietà; lascio ai suoi compagni ed amici, che quotidianamente lo avevano seco, e con lui domesticamente conversavano, il dirvi la modestia dei suoi costumi e di ogni suo portamento, la severità dei suoi discorsi; lascio ai suoi parenti il dirvi quale fosse la sua obbedienza, il suo rispetto, la sua docilità. E che potrò io ricordarvi che a tutti voi non sia noto? Io altro non dirò se non che sempre si rese commendevole per il suo contegno e per la sua tranquillità nella scuola, per la sua diligenza ed esattezza nell'adempimento di ogni suo dovere, e per la sua continua attenzione ai miei insegnamenti, e che io sarei beato se ognuno di voi si proponesse di seguirne il santo esempio.
Prima ancor che l'età e gli studi gli permettessero di frequentare la nostra scuola, essendo egli da tre anni annoverato tra quelli che hanno ricetto ed istruzione presso l'Oratorio di S. Francesco di Sales, io ne aveva più volte udito a fare parola dal direttore di quell'Oratorio, e lo aveva udito ad encomiare come uno tra i più studiosi e virtuosi giovani di quella casa. Tale era il suo ardore nello studio, tale il rapido progresso che aveva fatto nelle prime scuole di latinità, che sommo era il mio desiderio di porlo nel numero dei miei allievi e grande era 1' aspettazione che io aveva della felicità del suo ingegno. E prima di averlo in iscuola già l'aveva annunziato ad alcuno dei miei allievi come un emulo, con cui bello sarebbe stato il gareggiare non meno nello studio che nella virtù. E nelle frequenti mie visite all'Oratorio scorgendo in lui una fisionomia sì dolce, quale voi sapete essere stata la sua, scorgendo quel suo sguardo sì innocente, mai non lo vedeva che non mi sentissi tratto ad amarlo e ad ammirarlo. Alle belle speranze, che io ne aveva concepite, certamente egli non venne meno allorché nel presente anno scolastico prese a frequentare la mia scuola. A voi mi appello, giovani dilettissimi, che siete stati testimoni del suo raccoglimento e della sua applicazione non solamente nel tempo che il dovere lo chiamava ad ascoltarmi, ma in quello eziandio, il quale per lo più non si fanno scrupolo di perdere molti giovanetti, i quali non sono privi di docilità e diligenza. A voi domando, che gli eravate compagni non solo nella scuola, ma pur anche negli usi domestici della vita, se mai lo avete veduto a far cosa che lo mostrasse dimentico di alcuno dei suoi doveri.
Parmi ancora di vederlo, quando con quella modestia, che era tutta sua propria, entrava nella scuola, prendeva il suo luogo e in tutto il tempo dell'ingresso, lungi dal vano cicaleccio consueto dei giovani della sua età, ripeteva la sua lezione, scriveva annotazioni, oppure si tratteneva in qualche utile lettura; e quindi cominciata la scuola con quale applicazione io vedeva quel suo angelico volto pendere dalle mie parole! Perciò non fa maraviglia se non ostante la sua tenera età e la sua poca salute fosse grandissimo il profitto che col suo ingegno dagli studi ricavava. E prova ne sia che in un considerevole numero di giovani, la maggior parte di più che mediocre ingegno, benché già covasse in seno la malattia, che alfine lo trasse alla tomba, e fosse perciò obbligato a frequenti assenze, tuttavia egli tenne quasi sempre i primi posti della sua classe. Ma una cosa destava in modo affatto particolare la mia attenzione, e traeva a sé la mia ammirazione, ed era il vedere come quella giovanile sua mente si mostrasse unita a Dio, ed affettuosa e fervida nelle preghiere. Ella è cosa consueta anche nei giovani meno dissipati, che tratti dalla naturale vivacità e dalle distrazioni, a cui va soggetta questa fervida vostra età, pochissima riflessione facciano al senso delle orazioni, che sono invitati a recitare, e quasi con nessuno affetto del cuore le accompagnino. Onde avviene che in gran parte di essi niente altro vi ha che le labbra e la voce. Or se così abituale è la distrazione della gioventù anche nelle preghiere che indirizzano al Signore nel silenzio e nella tranquillità delle chiese, oppure nella solitudine delle proprie celle, nelle quotidiane orazioni, voi, o giovani, lo sapete quanto questo avvenga più facilmente in quelle brevissime preghiere che sogliono dirsi prima e dopo le lezioni della scuola. Ed è appunto in queste che mi fu dato di ammirare il fervore del nostro Domenico alla pietà, e l'unione dell'anima sua con Dio. Quante volte io l'osservai con quel suo sguardo rivolto al cielo, al cielo che sì presto doveva essere la sua dimora, raccogliere tutti i suoi sentimenti, e con quell'atto offrirli al Signore e alla beatissima sua madre, con quella pienezza di affetti che appunto richiedono le recitate preghiere! E questi sentimenti, o amatissimi giovani, erano poi quelli, che animavano i suoi pensieri nel compiere ogni suo dovere, erano quelli, che ogni suo atto, ogni sua parola santificavano, che tutta la sua vita interamente dirigevano alla gloria di Dio. O beati quei giovani che a tali concetti s'inspirano! Faranno la loro felicità in questa vita e nell'altra, e beati renderanno i parenti che li educano, i maestri che li istruiscono, tutte le persone che si occupano del loro bene.
Dilettissimi giovani, la vita è un dono preziosissimo, che Iddio ci fece, per darci il mezzo di acquistarci dei meriti per il cielo, e così sarà se tutto quello che noi facciamo è tale che offerir si possa a quel supremo Donatore, come appunto faceva il nostro Domenico. Ma che direm noi di quel giovane, che passa tutta intera la vita dimentico affatto del fine a cui Dio lo ha destinato, che mai non trova un momento, in cui pensi a dedicare i suoi affetti al Creatore, che nel suo cuore non dà mai luogo ad alcuna aspirazione che lo sollevi verso il suo Dio? Inoltre che diremo di quel giovane che fa quanto sta in lui per tenere da sé lontani simili sentimenti, o per combatterli e soffocarli, se li sente vicini a penetrare nel suo cuore? Deh! riflettete alquanto sulla santa vita e santo fine del carissimo vostro compagno, sulla invidiabile sorte, di cui possiamo avere fiducia che goda; e quindi ritornando col pensiero su voi stessi esaminate che cosa ancora vi manchi per somigliargli e quali voi essere vorreste, se al pari di lui vi trovaste sul punto di dovervi presentare a quel tribunale ove Dio chiederà a tutti stretto conto di ogni più leggero mancamento. Quindi se a questo confronto voi ritrovate che grande sia la differenza, proponetevelo per esempio, imitatene le cristiane virtù, disponete l'anima vostra ad essere come la sua, pura e monda agli occhi di Dio, acciocché all'improvvisa chiamata, la quale immancabilmente o tosto o tardi dovrà udirsi da tutti noi, le possiamo rispondere coll'ilarità sul volto, col sorriso sulle labbra, come fece l'angelico vostro condiscepolo. Ascoltate ancora un mio voto, con cui io conchiudo queste mie parole. Se io m'accorgerò che i miei allievi diano luogo nella loro condotta ad un notevole miglioramento, se li vedrò d'or innanzi più esatti nei loro doveri, e più compresi dell'importanza di una vera pietà, lo crederò effetto del santo esempio del nostro Domenico e lo riguarderò quale grazia di lassù impetrata dalle sue preghiere in premio di essergli stati per breve tempo voi compagni ed io maestro»'".
Così il professore D. Picco esponeva ai suoi allievi la profonda e dolorosa sensazione provata all'annunzio della morte del caro suo alunno Savio Domenico.
Chiunque ha letto le cose che abbiamo scritto intorno al giovanetto Savio Domenico non si maraviglierà che Dio siasi degnato di favorirlo di doni speciali, facendo risplendere le virtù di lui in molte guise. Mentre egli ancor viveva, molti si davano sollecitudine per seguirne i consigli, gli esempi ed imitarne le virtù; molti anche mossi dalla specchiata condotta, dalla santità della vita, dall'innocenza dei suoi costumi, si raccomandavano alle sue preghiere. E si raccontano non poche grazie ottenute per le preghiere fatte a Dio dal giovane Savio mentre egli era ancora nella vita mortale. Ma dopo morte crebbe assai verso di lui la confidenza e la venerazione.
Appena giunse tra noi la notizia di sua morte, parecchi suoi compagni lo andavano proclamando per santo. Si radunarono essi per recitare le litanie per un defunto; ma invece di rispondere ora pro eo, cioè Santa Maria, pregate per il riposo dell'anima di lui, non pochi rispondevano: ora pro nobis: Santa Maria, pregate per noi. «Perché, dicevano, a quest' ora Savio gode già la gloria del paradiso e non ha più bisogno delle nostre preghiere».
Altri poi soggiungevano: «Se non è andato direttamente al paradiso Domenico Savio, che tenne una vita così pura e così santa, chi potrà mai dirsi che ci possa andare?». Laonde fin d'allora diversi amici e compagni, che ammirarono le sue virtù in vita, studiavano di farselo modello nel bene operare e cominciavano a raccomandarsi a lui come a celeste protettore.
Quasi ogni giorno si raccontavano grazie ricevute ora per il corpo ora per l'anima. Io ho veduto un giovane che pativa mal di dente che lo faceva smaniare. Raccomandatosi al suo compagno Savio con breve preghiera, ebbe calma sull'istante, e finora non andò più soggetto a questo desolante malore. Molti si raccomandarono per essere liberati dalle febbri e ne furono esauditi. Io fui testimonio di uno che istantaneamente ottenne la grazia di essere liberato da gagliarda febbre. Ho sott'occhio molte relazioni di persone che espongono celesti favori da Dio ottenuti per intercessione del Savio. Ma sebbene il carattere e l'autorità delle persone che depongono questi fatti siano per ogni lato degne di fede, tuttavia essendo esse ancor viventi, stimo meglio di ometterli per ora e contentarmi di riferire qui soltanto una grazia speciale ottenuta da uno studente di filosofia, compagno di scuola di Domenico. L'anno 1858 questo giovane incontrò gravi incomodi di salute. La sua sanità fu così alterata che dovette interrompere il corso di filosofia, assoggettarsi a molte cure e in fine dell'anno non gli fu possibile di subire l'esame. Stavagli molto a cuore di potersi almeno preparare per l'esame di Tutti i Santi, perciocché in tale guisa avrebbe impedito la perdita di un anno di studio. Ma, aumentandosi i suoi incomodi, le sue speranze andavano ognor più scemando. Si recò a passare il tempo autunnale ora coi parenti in patria, ora con amici in campagna, e già parevagli di avere alquanto migliorato nella sanità.
Ma giunto a Torino e postosi per poco tempo a studiare, egli ricadde peggio di prima. «Io era vicino agli esami, egli depone, e la mia salute trovavasi in deplorevole stato. I malori di stomaco e di capo mi toglievano ogni speranza di poter subire il desiderato esame, che per me era cosa della massima importanza. Animato da quanto udiva raccontare del mio amato compagno Domenico, volli anch'io a lui raccomandarmi facendo a Dio una novena in onore di questo mio collega. Fra le preghiere che mi era prefisso di fare era questa: "Caro compagno, tu che a somma mia consolazione e fortuna mi fosti condiscepolo più di un anno, tu che santamente meco gareggiavi per primeggiare nella nostra classe, tu sai quanto io abbia bisogno di subire il mio esame. Impetrami adunque, ti prego, dal Signore un po' di salute, affinché io mi possa preparare".
Non era ancor compiuto il quinto giorno della novena, quando la mia salute cominciò a fare così notabile e rapido miglioramento, che tosto potei mettermi a studiare, e con insolita facilità imparare le materie prescritte e prendere benissimo l'esame. La grazia poi non fu di un momento, imperciocché attualmente io mi trovo in uno stato di regolare salute, che da oltre un anno non ho più goduto. Riconosco questa grazia ottenuta da Dio per intercessione di questo mio compagno, mio famigliare in vita, mio aiuto e conforto ora che gode la gloria del cielo. Sono oltre due mesi che tale grazia fu ottenuta, e la mia sanità continua ad essere la medesima con grande mia consolazione e vantaggio».
Con questo fatto io pongo termine alla vita del giovine Savio, riservandomi a stampare più sotto alcuni altri fatti in forma d'appendicem, nel modo che sembrano tornare a maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime. Ora, o amico lettore, giacché fosti benevolo di leggere quanto fu scritto di questo virtuoso giovanetto, vorrei che venissi meco ad una conclusione che possa apportar vera utilità a me, a te e a tutti quelli cui accadrà di leggere questo libretto; vorrei cioè che ci adoperassimo con animo risoluto ad imitare il giovane Savio in quelle virtù che sono compatibili col nostro stato. Nella povera sua condizione egli visse una vita la più lieta, virtuosa ed innocente, che fu coronata da una santa morte.
Ma non manchiamo d'imitare il Savio nella frequenza del sacramento della confessione, che fu il suo sostegno nella pratica costante della virtù, e fu guida sicura che lo condusse ad un termine di vita cotanto glorioso. Accostiamoci con frequenza e con le dovute disposizioni a questo bagno di salute nel corso della vita; ma tutte le volte che ci accosteremo al medesimo non manchiamo di volgere un pensiero sulle confessioni passate per assicurarci che siano state ben fatte, e se ne scorgiam il bisogno rimediamo ai difetti che per avventura fossero occorsi. A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte. E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia.
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