Charles de Foucauld era un nobile visconte. Nelle sue vene correva sangue altero e abituato al comando. Innamoratosi di Cristo con la forza di un S. Francesco, ne ricercò nel Vangelo la personalità, il carattere, la vita.
Charles de Foucauld era un nobile visconte. Nelle sue vene correva sangue altero e abituato al comando. Innamoratosi di Cristo con la forza di un S. Francesco, ne ricercò nel Vangelo la personalità, il carattere, la vita. È raro trovare un uomo più passionatamente impegnato a scoprire i dettagli della vita di Gesù per imitarne l'atteggiamento, i gesti, le intenzioni recondite. Ebbene: in questa ricerca amorosa, fatta per trovare materia di imitazione fedele e vivente, Charles de Foucauld si stupisce soprattutto di una cosa: Gesù è un povero e un operaio. Nessuno può contraddire questo fatto. Il Figlio di Dio, che liberamente poteva scegliere - ciò che non capita a nessun altro, - scelse non solo una madre e un popolo, ma una situazione sociale, e volle essere un salariato. Bisogna dire che questa parola "manovale", "operaio", "salariato", ha un suono ben diverso nelle orecchie di un nobile da quello che può avere nelle mie. Per Charles de Foucauld, scegliere la situazione sociale di un operaio, significa l'abiezione, l'annientamento di se stesso. Ed è appunto questa posizione volontaria di Gesù di perdersi in un borgo anonimo del Medio Oriente, di annientarsi nella monotonia quotidiana di trent'anni di lavoro rude e misero, di scomparire dalla società "che conta", per morire in un anonimato totale, che maggiormente sconvolge il nobile convertito. Perché Gesù non fu scriba? Perché non volle nascere in una di quelle famiglie destinate al comando, alle responsabilità, all'influenza sociale e politica? Ed eccolo alla ricerca appassionata delle intenzioni che guidarono il Maestro divino nella scelta della sua vita, di tutta la sua vita. E non tarderà ad uscire in quella esclamazione che resterà, in fondo, la guida ascetica della vita del grande esploratore del Marocco e del mistico Sahariano: "Gesù ha talmente cercato l'ultimo posto, che ben difficilmente qualcuno potrà strapparglielo". Nazaret era l'ultimo posto: il posto dei poveri, degli anonimi, di coloro che non contano, della massa degli operai, degli uomini piegati alle dure esigenze della fatica per un po' di pane. Ma c'è di più. Gesù è il "Santo di Dio". Ebbene, il "Santo di Dio" realizza la sua santità con una vita non straordinaria, ma tutta impregnata di cose ordinarie, di lavoro, di vita familiare e sociale, con attività umane oscure, semplici, possibili a tutti gli uomini. La perfezione di Dio è colata su una materia che gli uomini quasi disprezzano, che in ogni caso non ricercano per la sua semplicità, per la "mancanza di interesse", perché è comune ai più. Una volta scoperta la realtà spirituale di Nazaret, Charles de Foucauld ne cercherà l'imitazione, la più fedele possibile. Cercherà di avere un convento piccolo come la casa di Nazaret, cercherà di perdersi, annientarsi nel silenzio di un borgo sconosciuto, imiterà Gesù lavorando manualmente, e vorrà i suoi piccoli fratelli alla ricerca sempre dell'ultimo posto, là dove ci sono i poveri, là dove il clima è più rude, il salario più piccolo, la fatica più grande. Nazaret vorrà dire tutto questo; ma non solo.
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L'imitazione di Nazaret non è piccola cosa. Quando penso che una porta, un assito, un muro può dividere una famiglia santa come quella di Gesù da quella di un vicino che, pur vivendo con lo stesso ritmo, la stessa fatica, la stessa giornata, ne è agli antipodi come tristezza, odio, impurità, cupidigia, e a volte disperazione, mi convinco della immensa ricchezza interiore portata dal messaggio evangelico. Le stesse azioni, compiute sotto la luce di Dio, trasformano radicalmente la vita di un uomo, d'una famiglia, d'una società. Gioia o tristezza, guerra o pace, amore o odio, purezza o adulterio, carità o cupidigia sono tremende realtà che fanno il loro spartiacque sul crinale dell'interiorità dell'uomo. Vivere le cose comuni, i rapporti con gli uomini, il lavoro quotidiano, l'amore dei nostri in un determinato modo può generare santi; in un determinato altro modo, può generare demoni. Gesù a Nazaret ci ha insegnato a vivere da santi tutte le ore del giorno. Tutte le ore del giorno sono valide e capaci di contenere l'ispirazione divina, la volontà del Padre, la contemplazione della preghiera: la santità, insomma. Tutte le ore del giorno sono sante; basta viverle come Gesù ci ha insegnato a viverle. E per questo non è nemmeno indispensabile chiudersi in un convento o stabilire alla nostra vita orari strani e qualche volta disumani. Basta accettare la realtà che viene dalla vita. Il lavoro è una di queste realtà; la maternità, l'educazione dei figli, la famiglia con tutti i suoi impegni è un'altra di queste realtà. Queste realtà devono essere santificate; e non dobbiamo pensare che si è santi solo perché abbiamo fatto dei voti. Questa strana mentalità di considerare come sola materia di vita spirituale le ore di lettura o di preghiera e di non tenere in nessun conto le ore di lavoro e di rapporti sociali, quindi le ore più numerose, è motivo di gravi deformazioni, di vere storture, e, nei migliore dei casi, di personalità religiose anemiche o rachitiche. Tutto l'uomo deve essere trasformato dal messaggio evangelico; non c'è azione in lui che possa essere indifferente; tutto contribuisce a santificarlo o a dannarlo. Nazaret è la vita d'un uomo, d'una famiglia in tutta l'ampiezza dell'attività umana; è la maniera di vivere per trent'anni, quindi per il più lungo tempo a disposizione per realtà umane destinate a passare nel crogiolo della fede, della speranza e della carità. Pochi hanno così bene riassunto la santità delle cose comuni come Gandhi nei suoi scritti. Ecco che cosa dice il grande mistico indiano: "Se quando s'immerge la mano nel catino dell'acqua, se quando si attizza il fuoco col soffietto, se quando si allineano interminabili colonne di numeri al proprio tavolo da contabile, se quando, scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia, se quando si è in piedi davanti alla fornace del fonditore, non si realizza la stessa vita religiosa proprio come se si fosse in preghiera in un monastero, il mondo non sarà mai salvo".
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Ma c'è ancora un aspetto di Nazaret che vorrei tratteggiare soprattutto per coloro che pensano che non sia possibile portare il messaggio evangelico senza strumenti, senza mezzi, senza denari. Gesù era Lui il portatore del messaggio; ed era ancora Lui l'intelligenza somma, capace di escogitare il modo migliore per farsi capire e per realizzare il piano divino. Ebbene; che cosa fece? Non aprì ospedali, non fondò orfanotrofi: si incarnò in un popolo e visse con lui per primo il messaggio nella sua interezza: "coepit facere": incominciò a fare. Questo far precedere alla parola l'esempio, questo presentare il "tipo" prima di spiegarlo agli uditori, è stato il modo di procedere di Gesù, che troppo facilmente dimentichiamo. In molti casi la catechesi è ridotta a "parole"più che a un "fatto", a conferenze più che a preoccupazione di santità personale. E qui forse sta il motivo degli scarsi risultati, e più ancora della tristezza e noia dei cristiani. Non c'è efficacia perché non c'è vita: non c'è vita perché non c'è esempio; non c'è esempio perché parole vuote han preso il posto della fede e della carità. "Voglio gridare il Vangelo con la vita" ripeteva sovente Charles de Foucauld; e si convinse che il più efficace metodo di apostolato era il vivere da cristiano. Specialmente oggi, in cui la gente, diventata scaltra, non vuol più intendere sermoni: vuol vedere. Nazaret è, prima dell'azione, il lungo tempo della preparazione, della preghiera, del sacrificio; il tempo del silenzio, della vita intima con Dio; il tempo della lunga solitudine, della purificazione, della conoscenza degli uomini, dell'esercizio del nascondimento: di ciò che conta, insomma, per dirsi cristiano. Da Nazaret uscirà l'apostolo.
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Ma quale apostolo? Su questa parola di "apostolo" s'è prodotta una delle più grandi inflazioni dei nostri tempi. Si parla di apostolato a dritta e a rovescia; tutti son diventati apostoli e... anche il trasportare una sedia è qualificato come attività apostolica. Forse s'è presa l'abitudine di usare parole grosse per imprimere alla vita parrocchiale o diocesana un ritmo un po' più celere ma, detto questo, le cose non cambiano e le parole rimangono parole. Non ho qui nessuna intenzione di analizzare il significato autentico della parola "apostolo", né di far problemi su l'ampiezza reale del così detto "campo dell'apostolato". Dio me ne guardi! Ma ciò che vorrei dire a tale proposito è che meditando a lungo su Nazaret ho sentito scaturire dal profondo di questo mistero una chiarificazione tra la vita del laico e la vita del sacerdote, tra l'apostolato dei laici e l'apostolato dei sacerdoti. La mia generazione ha vissuto un periodo un po' speciale, qualche volta caotico e molte cose si debbono giustificare sia a motivo dell'infantile incompetenza e preparazione nostra, sia per l'eccezionale periodo della storia. In fondo quando una acsa brucia anche una donna può fare il pompiere ed un laico dar ordini a un Vescovo. Ma normalmente non dovrebbe essere così. È una stonatura vedere un laico che fa il viceparroco ed è una stonatura vedere un sacerdote preparare le liste elettorali. E perché è una stonatura? Qui davvero si potrebbero scrivere molti libri per rispondere a tale domanda e certamente si scriveranno perché l'esperienza ci ha insegnato molte cose. Quanto a me, preso alla sprovvista qui in mezzo alla sabbia che mi rende arido il cervello e alle termiti che mi divorano i libri nella cella, mi accontento di pensare a Nazaret e di trovare nella maniera di vivere di Gesù, Maria e Giuseppe l'ispirazione fondamentale della cosiddetta spiritualità dei laici. Questa - la spiritualità dei laici - non dev'essere una brutta o bella copia di quella dei sacerdoti, ma un'altra cosa, autentica e genuina in sé, vera dinanzi a Dio e agli uomini. Altra è l'attività di un sacerdote, altra quella di un politico; altra è l'attività di un parroco, altra è l'attività di un lavoratore o di un padre di famiglia. Se è vero che per spiritual;ità noi intendiamo il modo di pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti della nostra vita, se ne deduce che il pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti d'un sacerdote è cosa profondamente diversa da quella di pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti di un lavoratore, d'uno sposo, di un sindaco. È la materia che cambia. Sulla spiritualità del sacerdote, s'è fatta della strada: basta pensare ad un Curato d'Ars o a un Cafasso. Non atrettanto si può dire per la spiritualità dei laici, anche se molti sentono che la nostra è esattamente l'epoca che affronterà il problema. Il laico non deve fare il "quasi prete", ma deve in virtù del suo stato santificare il suo lavoro, il suo matrimonio, i suoi rapporti sociali così vari, complessi ed impegnativi. S. Pietro nella sua prima lettera al cap. II, al versetto 4, dice rivolgendosi ai laici: "Voi come pietre vive siete edificati sopra di Lui (il Cristo) per essere una casa spirituale, un sacerdozio santo per offrire vittime spirituali gradite a Dio per mezzo di Gesù Cristo". Tutti qui sono concordi nel dire che esiste per il battezzato un vero ed autentico sacerdozio, ben diverso naturalmente dal sacerdozio conferito dal Sacramento dell'Ordine, ma un sacerdozio reale che pone il laico in faccia alla creazione per interpretarla, vivificarla, liberarla, rappresentarla. Ciò è estremamente importante e il laico che non sente ciò ha tradito la sua vocazione. Il lavoratore è un sacerdote davanti al suo lavoro; il padre di famiglia è sacerdote davanti alla sua sposa e ai suoi figli; il capo di una comunità è sacerdote dinanzi ai suoi congregati; il contadino è sacerdote dinanzi al suo podere, il suoi animali, i suoi campi, i suoi fiori. Io penso che troppo poco è stato sviluppato in questi ultimi secoli il concetto di sacerdozio regale di cui parla S. Pietro nella sua lettera ai cristiani e di ciò che significhi questo "offrire vittime spirituali gradite a Dio da parte del battezzato", e ciò ha creato in fondo l'aridità che noi sentiamo nel trattare l'argomento dell'apostolato dei laici e - direi di più - della posizione dei laici nella Chiesa. Cosa volete parlare di spiritualità dei laici se omettete questa fondamentale prerogativa di sacerdote delle cose create, di voce della natura, di consacratore dei beni della terra, di santo della città terrena? Non sentendo parlare di queste cose, il giorno in cui il laico vuol diventare "buono" finirà per copiare il parroco che gli sta di fronte e che sente "spiritualmente più avanti di lui" e diventerà mezzo laico e mezzo prete ad edificazione dei buoni parrocchiani, ma non certo di coloro che ne hanno più bisogno, "i lontani". Questi - ed a ragione - non possono sopportare il profumo di questo ibridismo e continuano a pensare che il cristianesimo non sa risolvere i problemi del mondo. Rimane da fare molto cammino, ma siamo a buon punto, perché sacerdoti e laici hanno preso coscienza della loro posizione nella Chiesa. È ciò che mi auguro perché vorrei fosse evitata a coloro che entrano oggi nell'arengo dell'azione apostolica la stonatura del mio tempo in cui sacerdoti furono trascinati a fare da galoppini elettorali ed i laici a dar consigli ai Vescovi sul governo della Chiesa.
Carlo Carretto
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