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1° capitolo. Il castello di Thorens e quello di Sales.

A non molti chilometri verso nord di Annecy troviamo un castello sorto in un villaggio chiamato Thorens nel tredicesimo secolo, appartenente ai baroni di Compey, notevole stirpe feudale dal gesto largo e audace.


1° capitolo. Il castello di Thorens e quello di Sales.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

A non molti chilometri verso nord di Annecy troviamo un castello sorto in un villaggio chiamato Thorens nel tredicesimo secolo, appartenente ai baroni di Compey, notevole stirpe feudale dal gesto largo e audace. Nel 1238, in data 11 Aprile, Alberto di Compey, «dominus» di Thorens e di Vulpillières, costituisce la dote di sua figlia per il matrimonio con Tommaso di Menthon. Tra i testimoni si trova un Petrus di Sales, «cappellano» di Thorens.

La famiglia dei di Sales, nobili «valvassori» o vice-domini dei di Compey, vive per secoli accanto ai suoi feudatari. Qualcuno esercita le armi e prende parte alle Crociate.

Giordano di Sales, nato nel 1365, da stirpe ormai già secolare, è ancora un nobile «intendente» del barone Giovanni di Compey, ma ha già considerevoli signorie in proprio.

Il di Compey è signore dispendioso, avido di tornei e di avventure politiche, e ha bisogno di danaro. Giordano, più avveduto, è in grado di prestargli mille fiorini d'oro, nel 1389.

Quando li restituirà? Anziché di restituzione, si parla, a tre anni di distanza, di un nuovo prestito. Il barone non interrompe il suo consumismo nobiliare.

La partita si fa più serrata. Anziché pagare con denaro, il sire feudale soddisfarà il nobile valvassore con uffici lucrativi, «curialeries», «métraleries», «messèleries».

Giordano di Sales, da parte sua, è un uomo sorprendente: non è grifagno, tende anzi alla generosità, è intelligente, e i fiorini gli germogliano tra le mani.

Bisogna aggiungere che i Sales hanno ottenuto dai Compey, in una data non precisabile, il diritto di costruirsi una dimora signorile, non un «castrum», cioè non un castello forte feudale, bensì una «sala», a duecento metri dal turrito maniero di Thorens. Sorge così una bella casa in un sito grandioso, solida ma, in un primo periodo, senza contrassegni di fortificazioni.

Poi viene un giorno nel quale Giovanni di Compey nomina Giordano di Sales vice-signore di Thorens, associandolo così alla amministrazione-governo del feudo. Tuttavia, questi incarichi e le varie concessioni potrebbero essere provvisori. Se Giovanni restituisse il danaro avuto in prestito, tutti i diritti rientrerebbero in seno alla «baronia»; ma egli non restituisce. Anzi, le attività dei due uomini divergono sempre più: Giovanni fa il grande, Giordano custodisce i risparmi.

Poiché il feudatario non può revocare la parte dei diritti che ha concessi, questi passano legalmente al vice-domino Giordano.

Il quale muore nel 1427 lasciando la posizione della famiglia ormai assodata. I de Sales esercitano – probabilmente -il diritto di bassa e media giustizia, tuttavia per quanto concerne l'alta giustizia e le pene capitali, bisogna ricorrere ai Compey.

Gli eventi delle due casate continuano a srotolarsi su binari divergenti. Per mezzo secolo il castello di Thorens ha bisogno di restauri, mentre la dimora dei Sales fiorisce: il corpo centrale si dilata e spuntano, una dopo l'altra, alcune torri disuguali e quattro torrette d'angolo.

Nel 1479 ha luogo un grosso dramma. L'estroso e violento Filiberto di Compey viene destituito e spossessato dal duca di Savoia Carlo I, il quale fa omaggio della baronia di Thorens a sua zia Elena di Lussemburgo sposata Savoia.

Elena ha una sola figlia, Luisa di Savoia, e questa sposa un cugino di grado principesco, Francesco di Lussemburgo, visconte di Martigues, signore di Duingt e, per diritto coniugale, barone di Thorens.

A quel momento il capofamiglia dei Sales è Cristoforo (1400-1548) (pronipote di Giordano), il quale possiede di suo un capitale valutato 56.268 fiorini: è padrone di «cinque belle terre» e conta, in proprio, ottocento paesani. Si pone in ottimi rapporti di omaggio con la casata principesca dei Lussemburgo Martigues, e, nel 1538, la duchessa di Nemours gli concede, con lettere patenti, il primo titolo nobiliare di grado indipendente della famiglia: «Signore di Sales». Morendo, nel 1548, Cristoforo lascia un figlio, Giovanni, il quale sposa la nobile Claudia di Charansonnay ed è uomo di grande pietà.

Una domenica si trova ospite di parenti al castello di Arenthon ove, proprio quel giorno, viene a mancare la celebrazione della Messa: Giovanni decide di recarsi all'abbazia benedettina di Contamine per soddisfare il precetto. Per far ciò, è necessario attraversare il fiume Arve che è in piena e ribolle a ondate: egli spinge il cavallo, si addentra nella corrente, acqua ghiaccia, cavallo nervoso che s'impenna, disarciona il cavaliere e con un colpo di zoccolo lo ferisce a morte alla fronte.

Giovanni prende la sua Messa in Paradiso nello stesso giorno. Ciò accade nel 1558.

Luigi e Francesco di Sales

Lascia due figli: Luigi e Francesco, due anime in un nocciolo. Luigi è nato nel 1520, Francesco nel 1522. Questi due Signori di Sales hanno giovinezze movimentate, soprattutto Francesco: studia belle lettere «tanto quanto possa bastare a fare un uomo di spada», diviene, a sedici anni, paggio e poi scudiero di Francesco di Lussemburgo, governatore della Savoia.

A ventidue anni, ufficiale di cavalleria, combatte, sotto gli stendardi di Francia, nella quarta guerra tra Carlo quinto e Francesco primo.

Nota: Alla guerra prende parte, contro Francesco primo, Enrico vili, re d'Inghilterra. Fine Nota.

Battaglie dure: il 10 giugno 1544 gl'imperiali passano la Mosa, assalgono la fortezza di Saint-Dizier-sur-Marne, ma Francesco si difende, a capo della sua compagnia, per 40 giorni.

Un che di simile gli accade all'assedio di Landresnes.

Più tardi, gli affidano incarichi di corte, presso Enrico secondo re di Francia, ma, a trentasei anni, non vuol più sapere di armi né d'intrighi aulici, ritorna al suo castello di Sales ove ora sono spuntate ben sei torri, il silenzio è alto e l'aria è pura.

Il fratello Luigi sposa il 12 maggio 1559, una bella e intelligente fanciulla Janine dei nobili di Gasquis e si stabilisce a Sales ove dà esempio di felicità familiare, mentre gli nascono tre figli: Amé nel 1561, Luigi nel 1564, Gaspard nel 1566.

Francesco conosce, nella circostanza del matrimonio di Luigi, nel maniero dei Gasquis, una biscugina di otto anni, Francesca di Sionnaz: fanciulla di lignaggio cospicuo, piena di gentilezza, dalla espressione singolarmente fine e dolce. Parla un poco con lei, poi va dal Signor di Sionnaz e gli chiede, per il tempo in cui ciò sarà possibile, la mano di sua figlia.

Nota: In una lettera al senatore Antonio Favre dei primi di dicembre 1593 il Santo scrive che la sua carissima madre «essendo nel suo 42 anno di età, dovrà presto dare alla luce il suo tredicesimo figlio», da cui si deduce che nel 1559 non poteva avere più di otto anni. Anche J.F. Roussy de Sales, nel suo libro Historique du Chàteau de Thorens, parla di otto anni come età della futura madre del Santo. Fine Nota.

Il contratto di nozze viene stipulato legalmente nel 1560: tra gli sposi intercorre una differenza di età di circa ventotto anni.

Nel 1566 viene celebrato il matrimonio tra Francesco di Sales e Francesca di Sionnaz. Contemporaneamente Francesco assume in modo definitivo il nome di Boisy, che gli viene da un castello e feudo dati in dote a sua moglie.

Ecco i particolari di questa dotazione: Francesca è figlia di Melchiorre di Sionnaz, nobile savoiardo, e di «damoiselle» Bonaventura di Chevron-Vilette, la quale segue un destino non comune: quando sposa Melchiorre di Sionnaz è già vedova ed erede universale del «nobile e potente» Filippo di Derée. Nel 1560 muore anche Melchiorre di Sionnaz, e la vedova Bonaventura, due anni dopo, il 31 marzo 1562, sposa in terze nozze Pietro, signore di Monthoux e Vilaroget. Rimane vedova per la terza volta nel 1567 e contrae un quarto matrimonio con suo cugino de la Fléchère.

Il signore e la signora di Boisy

Questa signora, quando sua figlia Francesca sposa Francesco di Sales, le assegna in dote il maniero di Boisy con il feudo circostante, una rude e poderosa costruzione che spicca per semplicità, fatta di muraglie ben più che di mura e che può, in caso di aggressione, tener testa a un colpo di mano. La donazione viene condizionata all'impegno che lo sposo assuma il nome di Boisy, ciò che egli, nella sua qualità di cadetto, può agevolmente accettare. Gli sposi, dunque, lasciano i propri nomi illustri e divengono il Signore e la Signora di Boisy.

Nel 1566, l'anno del matrimonio, Francesca non ha compiuto quindici anni.

Anziché stabilirsi a Boisy, gli sposi si installano nella dimora dei Sales, insieme col primogenito Luigi e la simpatica Janine di Gasquis moglie di lui. Le due cognate si vogliono bene, e Francesca di Boisy è felice di poter condividere, in un primo tempo, con la cognata, il non facile compito di castellana.

Quando una signora di castello faceva sul serio, il daffare non le mancava. Fantesche e domestici da guidare, dispense e depositi da organizzare, «menus» di vario carattere da decidere, cucine che erano piazze d'armi - e che, perché no, potevano mutarsi in polveriere- da sorvegliare altamente; venti, forse più, persone sulle quali esercitare una regia che aveva qualcosa della sovrana, della massaia e del capo-ufficio: in fondo, se faceva sul serio, ella doveva ben servire, proprio «servire» a tutti, a cominciare dal marito, dagli ospiti, fino al minimo dei dipendenti.

Ugge, delusioni, dispiaceri: una cosa era certa, e cioè che mancava la monotonia, semplicemente perché mancava il tempo di far tutto ciò che bisognava fare.

Per la nostra quindicenne dovett'essere dunque una bella fortuna condividere il «regno» all'inizio, con la cognata, meno giovane di lei e più sbozzolata: le due andarono d'accordo perfettamente.

Nell'anno seguente, 1567, un grosso avvenimento aulico e pittoresco mise sottosopra il bel mondo feudale del Genevois; il duca Giacomo condusse ufficialmente a prender possesso della sede di Annecy, la moglie, Anna d'Este, della quale abbiamo parlato.

La notizia e i preparativi fecero da terremoto: nulla rimase impensato per far festa a due vice-sovrani (i sovrani veri, come sappiamo, erano Emanuele Filiberto e sua moglie Margherita di Francia), con i quali sarebbe stato necessario aver contatti ininterrotti e diretti.

La duchessa piaceva: il suo duplice grande passato metteva in soggezione signore e gentiluomini, ma, in compenso, il suo sorriso presente li riconfortava. L'entusiasmo fu generale, e l'aristocrazia savoiarda prese parte, uno sciorinio di nomi sonori, storici, pieni di suggestione.

Per la circostanza, Emanuele Filiberto permise che la Sacra Sindone da Torino venisse trasportata ad Annecy ed esposta nella chiesa di San Domenico, e i cardinali di Lorena e di Guisa, i quali partecipavano, come abbiamo detto, al corteo, la esposero appendendola nel coro, di lato all'altar maggiore.

Dinanzi alla Sacra Sindone

La domenica successiva, passato il tumulto ufficiale e mondano per la installazione della coppia ducale, venne dedicata dalla gran folla rimasta a tale scopo, alla venerazione della reliquia.

Nel fitto della chiesa, marito e moglie di Boisy trovarono posto. La loro condizione psicologica, a quel momento, era particolare, perché Francesca aveva ormai il sicuro annuncio della maternità, e, quando i due si trovarono dinanzi al sudario, la fede. profonda di lei si tradusse in commozione intensa, e in quel moj mento la quindicenne supplicò Cristo che il figlio già vivo in lei fosse sacerdote.

Quando gli sposi rientrarono nella dimora di Sales, ella custodiva questo segreto, ma non osava parlarne col marito del quale conosceva la fede, ma anche tutta la esultanza, avvolta da fumi di gioiosa ambizione, che sorgeva intorno all'annuncio di un figlio, come sempre accade, specie se questo figlio è il primo.

Francesco di Boisy era, sotto certi aspetti, il degno figlio di quel suo padre il quale era morto affogato per non perdere una Messa.

Egli stesso non sarebbe mancato, per ragione alcuna, al Sacrificio festivo, e faceva la Comunione, se non tutte le domeniche, almeno in tutte le grandi feste celebrate dalla Chiesa. Non era dir poco, a quei tempi.

Accanto a questa fede schietta rimaneva, in lui, la risonanza della sua vita di armi e di corte; aveva conosciuto il gran mondo e glien'era rimasto il gusto, almeno estetico. A un certo momento, come abbiamo visto, non aveva voluto più saperne e si era ritirato a Sales facendosi una famiglia: ciò era accaduto, forse, per una spinta morale che dalla più riposta intimità della coscienza lo aveva indotto ad abbandonare pericoli e raggiri della vita ufficiale.

Ma, certo, il gusto delle belle maniere e del tratto raffinato gli era rimasto, ed anche il bisogno di non essere ridotto a un «nessuno», cioè a un feudatario qualsiasi, intento ad amministrare, nei limiti della proprietà, persone, bestiame e raccolti.

Se per se stesso accettava questo compito, per quel figlio che si annunciava a lui quarantacinquenne, sognava cose maggiori, di armi, di toga, non importava, per il momento, specificare rigidamente.

Francesca, intelligente e fine di sentimenti, aveva capito e non volle rischiare parlando a lui dell'offerta fatta al Signore. Era convinta che suo marito, lei, suo figlio, camminavano sotto la grazia di Dio, e Dio avrebbe deciso, a suo tempo.

Nota: Francesco, da grande, da prete, da Vescovo, conoscerà e terrà presente quel momento così particolare nella vita di sua madre, dinanzi alla Sindone: e terrà presso di sé l'immagine del sacro lenzuolo in molti ricordi e immagini diversi. Fine Nota.

La vita prese il suo andazzo nel castello di Sales. Le cacciate all'orso e al lupo, tra i boschi dei grandi monti, si susseguivano d'inverno: erano circostanze per ritrovarsi con i vicini e con gli amici - in gran parte parenti, o cugini «à la mode de Bretagne», - i quali si chiamavano d'Oger de la Roche, de Lestelley, de Charansonnay, de Chenex, de la Fléchère, de Monthoux, de Gasquis, de Métral.

Nelle riunioni patriarcali ed eleganti, c'era già quello scambio particolare che formò poi la gloria di cento salotti parigini dal Seicento in poi: la conversazione. «Abbiamo scoperto un piacere nuovo; la conversazione» diranno le preziose dell’Hotel de Rambouillet, con la consapevolezza di forgiare un'arte nuova, difficile, pericolosa perché rischiava di essere fatua, impegnativa perché poteva riuscire scambio d'intelletti e di cultura... Tutto ciò in embrione c'era già, presso le fiammate gloriose e giganti dei camini nei castelli savoiardi.

I signori della regione non erano tutti proprietari nudi e crudi di feudi, i cui orecchi fossero limitati alle notizie di Annecy o di Chambéry: più d'uno conosceva le corti di Torino, fors'anche quelle di Francia e di Spagna. Notizie, figure, ricordi che circolavano nei discorsi non erano, perciò, soltanto provinciali.

Un vicinato preoccupante

C'era, del resto, un argomento di base e ricorrente, in quelle compagnie piacevoli: ed era, invece, un argomento spiacevole: Ginevra, l'eresia.

Troppo vicina, quella roccaforte di Calvino che dal 1534-1536 si era ribellata, serrata in sé sdegnosamente, uscita dalla Chiesa, ostile al Papa, irta di sarcasmi e imprecazioni contro tutto ciò che il gruppo savoiardo venerava. Il vicinato era preoccupante: quindici miglia: una galoppata.

Come ignorare quella presenza divenuta ormai interregionale, collegata con Berna, con tanta parte di Svizzera, con la terribile forza degli ugonotti francesi e, di rimbalzo, con le eresie della Germania e dell'Inghilterra? Le ombre lontane di Elisabetta e dei principi tedeschi erano presenti e minacciose.

Gli argomenti seri non mancavano, nelle liete riunioni conviviali dei manieri di Savoia. Se le imbandigioni scintillavano sulle tavole grandiose, se colazioni e pranzi erano gustosi, ben serviti, ecco, non di rado, una raffica di notizie o di ricordi che attraversava l'allegria, la rompeva: le incursioni dei ginevrini erano recenti, avevano fatto man bassa di chiese, bruciato immagini venerate, profanato e disperso arredi sacri: come abbiamo detto, cinquantadue parrocchie nel solo Chiablese erano soppresse e semi-distrutte negli edifici destinati al culto.

Si viveva, in Savoia, con la preoccupazione di un vicino che era, purtroppo, un avversario d'anima.

Le torri di Sales

Dopo secoli di pazienti migliorie, il castello di Sales presentava aspetti piacevoli. Si accedeva ad esso, è vero, per una mulattiera che imponeva un esercizio sportivo, i cavalli scivolavano o s'impennavano, e i sobbalzi somigliavano, talvolta, ad attacchi epilettici: poi si arrivava ad un ponte di legno attraverso il fiume - o torrente - «Filière»: il ponte era solido, ma sonoro: gli zoccoli rimbombavano sulle tavole che parevano, a momenti, squassarsi sotto il peso delle comitive. Poi, finalmente, il castello, con la facciata rotta in due o tre pezzi, sei torri disuguali per volume ed altezza e quattro torrette agli angoli che davano eleganza. Il complesso dei tetti era vario: alti e bassi di tegoli, di lavagna e di ferro.

Al cortile d'onore si accedeva attraversando un androne chiamato dei «forti» perché sulle mura campeggiavano, in affreschi all'italiana, le figure nientemeno che di Atlante e di Ercole.

Dai «forti» si entrava nel cortile interno, ornato da un giardino di rose allineate lungo vialini e rampicanti sulle mura.

Il salone centrale era rivestito di sete bergamasche, ornato di arazzi: in alto si aprivano, sul ballatoio, delle porticine che davano modo, dal piano superiore, di sbirciare ciò che accadeva nella sala, ed erano, in pratica, la grande risorsa dei ragazzi non ammessi all'olimpo dei grandi.

Due gallerie davano sfogo alle stanze di soggiorno, una più piccola, a sud, serviva per trovare ombra e frescura d'estate, l'altra, più grande, con pilastri a porticato, era adatta per l'inverno, perché si riempiva di sole concentrato: ma lo sfogo vero, in primavera, in autunno, nelle sere d'estate, era la terrazza che dalla galleria si librava sovra un paesaggio incantevole: le alzate immani dei monti, verdi o rocciosi, alternavano colori e riflessi inverosimili nel gran giuoco delle luci, e le vallate se ne arricchivano.

Luigi e Janine avevano già tre figli, come sappiamo: si attendeva, ora, il «debutto» della quindicenne. La quale si manteneva serena, e pregava, pregava.

Nasce Francesco di Sales junior

Il 21 agosto 1567, nel tardo pomeriggio, si annunciò con sicurezza la nascita. La camera nuziale era stata riattata in vista del matrimonio ed era ampia e luminosa. Tre finestre, due delle quali verso il cortile, con le vetrate i cui quadrati erano dipinti con gli stemmi dei di Sales e dei di Sionnaz, qualche arazzo di Fiandra, un camino a cappa sporgente che era il centro della stanza anche perché sulla cappa stessa era appeso un quadro antico di San Francesco circondato da uccelli e da animali selvatici. Per rispetto alla figura del Santo di Assisi, la stanza veniva chiamata «di San Francesco».

Il parto fu laborioso e le sofferenze appena sopportabili per il giovanissimo organismo: si temette, a un certo momento, il peggio. Nacque, invece, un piccino tutto roseo e delicatissimo, di sette mesi, e fu necessario avvolgerlo subito nella ovatta. Tuttavia, per immenso conforto dei genitori, egli si annunciava vitale.

L'eccitazione dominò quelle ore, e il signore di Boisy fu previdente: chiamò uno degli operai più fedeli, Puthod, e gli disse: «Fammi una grazia, corri, portami qui tua moglie la quale darà il latte alla creatura vostra e alla nostra».

Pétremande Puthod, nata Lombard, arrivò solenne e raggiante nel suo vestito thorense a colori vivi: abbracciò il piccino e lo mise subito «a suo agio»: il latte era abbondante, la vita era assicurata. Tra i tormenti della giovanissima mamma c'era stato quello - pienamente giustificato - di non farcela a nutrire la creatura. Ora il problema era risolto e la ottima Pétremande compiva tranquilla e sicura la sua missione, ben lungi dal supporre che, facendo la balia, sarebbe entrata nella Storia.

Giorgio Papasogli

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