Garanzia per tre anni
La nuova chiesa era una costruzione poverissima. Tuttavia c'era un contratto regolare che ce la garantiva per tre anni, e questo ci liberava dal timore di venire sfrattati quando meno ce l'aspettavamo. Le emigrazioni, a Dio piacendo, erano finite. A me questa chiesina sembrava il luogo dove in sogno avevo visto la scritta: « Questa è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria». I disegni di Dio, invece, erano diversi.
La sede del nostro Oratorio, purtroppo, era vicina a una casa dove abitavano donne di vita equivoca, e dove era aperta fino a notte l'osteria della Giardiniera. Lì, specialmente nei giorni festivi, si davano convegno gli ubriachi della città. Nonostante questi vicini allarmanti, abbiamo cominciato regolarmente le nostre riunioni.
Quando i lavori di adattamento furono terminati, l'Arcivescovo ci permise di benedire e di usare come chiesa quel povero locale. Questo avvenne la domenica di Pasqua, 12 aprile 1846.
Per dimostrare la sua soddisfazione, l'Arcivescovo ci rinnovò tutti i permessi che già ci aveva dato quando l'Oratorio era al Rifugio. In questa cappellina potevamo cantare la Messa, celebrare tridui e novene, organizzare gli Esercizi Spirituali, ricevere la santa Comunione e anche la Cresima. L'Arcivescovo permise persino, a tutti i ragazzi che frequentavano l'Oratorio, di ricevere la Comunione pasquale nella cappella Pinardi. (In quel tempo la Comunione di Pasqua si doveva fare nella propria parrocchia).
La Storia Sacra raccontata a puntate
La stabilità della sede, i segni di affetto dell'Arcivescovo, le celebrazioni solenni, la musica, l'allegra baraonda dei giochi, attraevano ragazzi da tutte le parti. Molti dei preti che mi avevano lasciato solo, cominciarono a tornare. Mi davano una valida mano don Giuseppe Trivero, don Giacinto Carpano, don Giovanni Vola, don Roberto Murialdo, e sempre l'infaticabile don Borel.
Ecco come si svolgeva la nostra giornata festiva.
Di buon mattino aprivo la chiesa e cominciavo a confessare i ragazzi. Le confessioni duravano fino all'ora della Messa. Era fissata alle otto, ma per accontentare tutti quelli che desideravano confessarsi, sovente la tramandavo alle nove, e anche più tardi.
Se c'era con me qualche prete, assisteva i ragazzi e li aiutava a pregare, recitando le orazioni a voce alternata. Durante la Messa quelli che erano preparati facevano la santa Comunione. Subito dopo salivo su un piccolo pulpito e spiegavo il Vangelo (dopo qualche domenica cominciai il racconto della Storia Sacra a puntate). Questi racconti erano fatti in maniera semplice e popolare, e resi pittoreschi dalla descrizione dei luoghi e della maniera di vivere dei vari tempi. Piacevano ai piccoli, ai grandi e persino ai preti che li ascoltavano. Dopo la predica cominciava la scuola, che durava fino a mezzogiorno.
Il catechismo, il Rosario, i Vespri
All'una del pomeriggio cominciava la ricreazione: bocce, trampoli, fucili e spade di legno, attrezzi da ginnastica. Alle due e mezzo iniziava il catechismo. I ragazzi che frequentavano l'Oratorio in quel tempo erano molto lenti nell'apprendere. Mi capitò parecchie volte di cominciare il canto dell'A ve Maria: su 400 ragazzi presenti, nessuno era capace di continuare se cessava la mia voce. Dopo il catechismo recitavamo il Rosario. A poco a poco, però, insegnai a cantare i Vespri. Cominciammo a imparare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi uno per uno i salmi. Infine le antifone. Nello spazio di un anno riuscimmo a cantare tutto il vespro della Madonna.
Ai Vespri (o al Rosario) seguiva una breve predica, che consisteva quasi sempre in un fatto, con cui insegnavo una virtù o invitavo a combattere una cattiva abitudine. Tutto terminava con il canto delle Litanie della Madonna e la benedizione con il SS. Sacramento.
La parola all'orecchio
All'uscita dalla chiesa cominciava il tempo libero, che ognuno occupava come voleva. Qualcuno continuava la scuola di catechismo, prendeva lezioni di canto o di lettura. La maggior parte dei ragazzi giocava, correndo e saltando fino a sera. Sotto la mia assistenza entravano in azione tutti gli strumenti di gioco, persino gli arnesi dei saltimbanchi, che avevo imparato ad usare sul prato dei Becchi. Solo con tanti strumenti di questo genere si potevano impedire le risse e mantenere un'allegria ordinata in quell'esercito di ragazzi. Di molti di essi si poteva dire con la Sacra Scrittura: «Come i cavalli e i muletti scalpitano, ma non capiscono».
Devo però testimoniare che anche nei ragazzi senza nessuna istruzione ho sempre ammirato un grande rispetto per la Chiesa e i preti, e un grande desiderio di conoscere la Religione Cristiana.
Io mi servivo di quelle ricreazioni lunghissime per avvicinare ogni ragazzo. Con una parola all'orecchio, a uno raccomandavo maggior obbedienza, a un altro maggior puntualità al catechismo, a un terzo di venirsi a confessare, a un altro ancora suggerivo un pensiero di riflessione, e così via. Posso dire che la ricreazione era il tempo in cui agganciavo un bel numero di ragazzi, che al sabato sera o alla domenica mattina venivano con molta buona volontà a fare la loro confessione.
«Inginòcchiati e confèssati»
Quando vedevo che qualcuno trascurava per molto tempo questi importanti doveri, interrompevo i suoi giochi e lo conducevo a confessarsi. Racconto uno dei tanti fatti.
Un ragazzo, invitato più volte da me a fare la confessione e la Comunione di Pasqua, prometteva ma non manteneva. Un pomeriggio, dopo le sacre funzioni, si mise a giocare con grande foga. Mentre correva rosso in faccia e molle di sudore, lo chiamai deciso: «Vieni con me in sacrestia. Ho bisogno di te per un affare».
Voleva venire com'era, in maniche di camicia. «No, gli dissi, mettiti la giacchetta e vieni». Giunti in sacrestia gli dissi: - Inginocchiati a questo inginocchiatoio.
Capì che doveva trasportare l'inginocchiatoio e stava per farlo.
- No, lascialo dov'è.
- Ma allora, cosa vuole da me? - Confessarti.
- Non sono preparato. - Lo so.
- E allora?
- E allora prepàrati e poi ti confesserò.
- Bene. Ha fatto bene a prendermi così. Altrimenti, per vergogna dei miei compagni, non mi sarei mai deciso a venire. Mentre recitavo il Breviario, si preparò un poco. Poi fece bene la sua confessione e il ringraziamento. D'allora in poi fu tra i più costanti nel compiere i suoi doveri cristiani. Raccontava lui stesso il fatto ai compagni, dicendo:
- Don Bosco è stato molto furbo, per prendere un merlo come me.
Al calare della notte, il suono di un campanello invitava ancora tutti in chiesa. Recitavamo alcune preghiere oppure il Rosario. Terminavamo la giornata cantando: « Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria ».
L'ultimo canto al rondò'
La partenza dall'Oratorio era una scena indimenticabile. Usciti di chiesa, ognuno diceva mille volte « buona sera », ma non si decideva a staccarsi dagli altri compagni. Avevo un bel dire: « Andate a casa che si fa notte e i parenti vi aspettano ». Era inutile. Si stringevano intorno a me, sei dei più robusti intrecciavano con le braccia una specie di sedia, sopra la quale, come sopra un trono, dovevo mettermi a sedere. Come ad un segnale, i ragazzi si ordinavano in alcune file, e portando su quel palco di braccia don Bosco, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al rondò (= un piazzale con aiuola che si trova all'incrocio di corso Regina Margherita, allora chiamato corso San Massimo, con altre strade. Era chiamato «rondò della forca» perché in quel luogo avveniva l'esecuzione dei condannati a morte). Là si cantavano ancora alcuni canti sacri, che si concludevano sempre con il solenne Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria.
Poi si faceva un profondo silenzio, e io auguravo a tutti buona sera e buona settimana. Con tutta la voce che avevano, rispondevano: buona sera! Allora potevo finalmente scendere dal mio trono. Ognuno tornava alla sua famiglia. Alcuni più grandi, però, mi accompagnavano fino a casa,' mezzo morto di stanchezza.
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