10. LA POLITICA DI DON BOSCO

10. LA POLITICA DI DON BOSCO

 

«Nessuna politica. Fare del bene a tutti, del male a nessuno. Questa è la mia politica». Così diceva don Bosco.

Tattica e savoir faire (saper fare) furono sempre le armi che adoperava il Santo, da giovane coi compagni e compaesani, da seminarista coi condiscepoli e coi superiori, da sacerdote con tutti e persino coi protestanti, con i massoni e con le più alte autorità, come attestano gli episodi più piacevoli e più gustosi della sua vita.

Ne scelgo alcuni fra mille.

 

Prete più, prete meno

In quei tempi di trionfante liberalismo, uomini politici, temendo in don Bosco un oppositore, volevano coinvolgere anche lui nei moti rivoluzionari, e gli facevano insistenza perché prendesse parte coi suoi giovani ai pubblici festeggiamenti che si svolgevano in Torino.

Un giorno, incontrandolo il famoso Angelo Brofferio, gli disse:

- Domani, in Piazza Castello, è fissato un posto anche per lei: veda di non mancare.

- Scusi, Onorevole, - rispose don Bosco - sono tanto impegnato per procurare il pane ai miei orfanelli. Se anche non v'andassi io, altri meglio di me occuperebbero il posto. E poi, prete più, prete meno, che importa!

Un altro giorno, il marchese Roberto D'Azeglio lo invitò ad intervenire col suo Oratorio alla parata sulla piazza della Gran Madre di Dio, per festeggiare la festa dello Statuto.

- Signor marchese - osservò don Bosco - il mio istituto è una famiglia di giovani poveri, male in arnese: ci faremmo burlare se facessimo tale comparsa... ne scapiterebbe anche l'importanza e la grandiosità della festa! Mi abbia quindi per scusato.

Altra volta, in simili circostanze, invitato a pronunciare un discorso d'occasione, si scusò dicendo:

- Signori, mi mettano in mezzo a un esercito di ragazzi o dinanzi a un raduno di contadini, e dei discorsi ne farò a loro piacimento; ma dinanzi ad un pubblico colto e scelto, col mio dire inelegante e il mio fare bonario, temerei di mettere a riso l'assemblea e guastare ogni cosa.

Chiamato in Municipio a rendere conto dei suoi rifiuti e del suo atteggiamento si presentò con aria di bonomo, con la barba da radere, con le scarpe mal legate, dando risposte di un uomo distratto e poco intelligente, tanto che uno di quei signori, che non conosceva don Bosco se non di nome, rivolto ai compagni, mormorò:

- Oibò... lasciamo un po' stare. Questo povero matterello non sarà colui che spianterà le istituzioni dello Stato.

 

Caramelle amare

Il tratto di don Bosco con personaggi del mondo politico e con Ministri di stato fu sempre improntato a un sano realismo e a sollecitudine pastorale. Eccone un esempio.

Un giorno si recò al Ministero degli Interni. Titolare di quel Dicastero era Urbano Rattazzi. Don Bosco trovò l'anticamera già affollata, ma il Ministro, appena seppe che don Bosco attendeva, si fece premura di riceverlo subito.

Il Santo, attraversando la fila dei curiosi e meravigliati per quella preferenza, si presentò, e disse al Ministro, con quella semplicità tanto naturale in lui:

- Quanta gente, Eccellenza! questo suo ufficio mi dà l'aria di un confessionale in tempo di Pasqua.

- Eh, caro don Bosco - rispose il Ministro - con questa differenza: che chi va a confessarsi, se ne parte benedicendo il confèssore, mentre chi parte dalle nostre udienze, spesso ci maledice, perché non si è potuto soddisfare alle richieste.

La conversazione si protrasse assai, e quando don Bosco si alzò per licenziarsi, si alzò anche il Ministro che, prendendo per mano il Santo, gli disse:

- Don Bosco, mi dica qualche cosa...

Don Bosco lo guardò meravigliato; poi, con la massima confidenza, rispose.

- Eccellenza... pensi a salvarsi l'anima!

Il Ministro, stringendo forte la mano a don Bosco, abbassò la fronte e pianse come un ragazzo.

Quando poi gli si chiedeva perché il Ministro si fosse messo a piangere, egli rispondeva sorridendo:

- Eh, gli ho detto qualche cosa... Ma sono le caramelle amare quelle che fanno bene.

Questo stesso Ministro, un'altra volta, gli fece una domanda strana:

- Mi dica, don Bosco: io sono scomunicato?

Il Santo, preso così all'improvviso, stette alquanto pensoso, e poi rispose:

- Eccellenza, mi spiace, ma non potrei trovare argomenti che lo scusino.

- Bravo, don Bosco! - soggiunse il Ministro; - finora nessuno me l'aveva mai voluto dire. Preghi per me, e faccia pregare i suoi giovani, affinché non abbia ad andare all'inferno.

- Sì, pregherò e farò pregare, ma lei faccia così... e così...

Il Ministro moriva poco dopo. Aveva chiesto e desiderato il sacerdote, e il Signore gli aveva certamente usato misericordia, perché egli aveva usato misericordia agli orfanelli di don Bosco.

 

Grande funerale a Corte!

L'anno 1855 vide uno scontro durissimo fra lo Stato Piemontese e la Chiesa.

Verso la fine del 1854 fu presentato alla Camera un progetto-legge del ministro Urbano Rattazzi (agli Interni nel primo ministero del marchese Camillo Cavour) «tendente a ridurre l'influenza della Chiesa», come afferma lo storico Francesco Traniello. Esso proponeva di sciogliere tutti gli ordini religiosi contemplativi, che cioè non si dedicavano a qualche ministero attivo (istruzione, predicazione, assistenza ai malati) e l'incameramento dei loro beni da parte dello stato - che era ciò che soprattutto premeva al Cavour.

Le forze cattoliche, guidate dai vescovi, si organizzarono perché questa cosiddetta legge sui frati non passasse alle Camere, ma si dava per scontata l'approvazione alla Camera dei Deputati e, di stretta misura, anche quella al Senato. Solo il Re poteva bloccare la legge.

Stante questa atmosfera, in un rigido pomeriggio di dicembre, don Bosco (che portava i suoi guanti di lana vecchi e sdruciti per proteggere i grossi geloni alle dita), raccontò ai suoi più intimi di aver fatto un sogno strano. Era nel cortile quando aveva visto entrare dal cancello un valletto di corte, vestito di rosso, che gridò:

- Gran funerale a Corte! Gran funerale a Corte! Appena sveglio, don Bosco prese la penna e scrisse al Re, pregandolo di impedire, a qualunque costo, quella legge.

Cinque giorni dopo, sognò di nuovo. Gli pareva di essere nella sua camera, intento a scrivere, quando ode lo scalpiccio di un cavallo in cortile; vede aprirsi la porta, ed apparire lo stesso valletto in livrea rossa, che entra a metà e grida:

- Annunzia: non gran funerale a Corte, ma grandi funerali a Corte!

E ripetute due volte queste parole, se ne andò chiudendo la porta dietro di sé.

Don Bosco corse sul balcone, e visto il valletto già in sella, gli chiese il perché di tale annunzio; ma quegli, spronando il cavallo, gridò ancora:

- Grandi funerali a Corte!!! E si dileguò.

Appena giorno, il Santo indirizzò al Re un'altra lettera, nella quale raccontava la seconda minaccia, e pregava sua Maestà a fare in modo di impedire ad ogni costo quella legge.

Intanto la Regina Madre, Maria Teresa, colpita in quei giorni da grave malore, il 12 gennaio muore in età di 54 anni.

La mattina del 16, le si celebrano i funerali; e la sera dello stesso giorno, la Regina Maria Adelaide riceve il Santo Viatico, e muore il giorno 20, in età di soli 33 anni.

La stessa sera, riceve il Viatico il Principe Ferdinando, fratello del re, che spira la notte dal 10 all'11 febbraio, in età anche lui di 33 anni.

I chierici dell'oratorio - i soli a conoscenza di queste cose - «erano esterrefatti nel veder avverate in modo così fulmineo le profezie di don Bosco - scrive don Lemoyne. - Nemmeno in tempo di peste si erano aperte tre tombe reali nel giro di un mese».

Intanto alla Camera la legge sui frati viene discussa il 15 febbraio e approvata (94 voti contro 23) per passare poi al Senato.

Non erano finiti i lutti per Casa Savoia. D 17 maggio muore il figlioletto del Re, Vittorio Emanuele Leopoldo di appena quattro mesi. Si dice a Corte che il Re sia molto sconcertato per tanti funesti eventi. Ma il 22 maggio la legge passa anche al Senato con quindici voti di maggioranza. Il re la firmò il 29 maggio.

Questa volta don Bosco non rise. Santo e menagramo (a seconda da che parte si voglia vedere la cosa) aveva previsto giusto, purtroppo!

 

L'amicizia del Re

Re Vittorio Emanuele 2°, che passò alla storia con il nome di Padre della Patria con le virtù e i difetti che tutti gli riconoscono, era in fondo un galantuomo e, a modo suo, anche un credente.

Dopo le famose lettere dei «funerali a corte» che tanto l'avevano scombussolato, cercò più volte d'incontrare don Bosco, senza mai riuscirci.

- Cuntacc! - disse un giorno al Conte d'Angrogna suo aiutante di campo, - voglio proprio vedere questo prete in faccia.

Ed ecco che, un bel mattino, cavalcando col suo generale, venne a Valdocco e chiese di parlare con don Bosco. Per caso, pochi minuti prima, questi aveva detto al portinaio:

- Questa mattina ho molto da fare. Se venisse anche il Re, gli dirai che non posso riceverlo.

Il portinaio fu fedele alla consegna, e Vittorio Emanuele si allontanò aggrondato. L'aiutante, il giorno seguente si recò dal Santo e, con fare risentito, l'interrogò:

- È lei don Bosco?

- Sì, sono io.

- E lei ha osato scrivere certe lettere al Re, cercando d'imporgli il modo di governare?!

- Io ho scritto, ma non ho inteso imporre la mia volontà a nessuno.

Allora il generale cominciò ad inveire, a chiamarlo impostore, fanatico, ribelle, nemico del Re.

Don Bosco cercò di interrompere quel torrente d'ingiurie, ma il generale che smaniava sempre più, a un certo punto, disse:

- Senta, qui non ci vogliono parole, ma fatti! Lei deve dare soddisfazione degli insulti che ebbe l'ardire di indirizzate al Re.

- In che modo?

- In nome di Sua Maestà, segga, e scriva ciò che io le detterò.

- Eccomi pronto.

Il generale incominciò a dettare una formula di ritrattazione, che era la negazione della verità. Don Bosco depose la penna dicendo:

- Non è possibile! Io non scrivo simili ritrattazioni.

- Eppure, deve scriverla a qualunque costo!

- Ed io non la scrivo!

Il generale, furibondo, si toccò la sciabola, come per sfidarlo a duello, ma don Bosco, con l'abituale dolcezza, lo disarmò e soggiunse:

- Signor Conte, se avessi saputo che desiderava aggiustare quest'affare, io stesso mi sarei recato a casa sua, e le avrei risparmiato l'incomodo di questa gita.

Il generale, mezzo sbalordito da quella proposta, si sentì calmo e cambiato. Preso un tono più dolce, soggiunse:

- Dunque, lei verrebbe a casa mia?

- Sicuro!

- E ne avrebbe il coraggio?

- Certo!

- E se la prendessi in parola?

- Faccia pure.

Il giorno dopo, all'ora fissata, don Bosco fu veramente in casa del conte d'Angrogna. Là si combinò una lettera di convenienza al Re; e da quel giorno d'Angrogna divenne amico sincero di don Bosco e suo benefattore.

In seguito, anche Vittorio Emanuele concepì una stima grande per don Bosco, cercando d'incontrarlo a Torino ed a Firenze. Disse di lui un giorno all'Arcivescovo di Genova:

- Monsignore, sa? il nostro don Bosco è veramente un santo!

 

È cosa singolare

Siccome le sue profezie avevano suscitato in Torino una enorme impressione, nel settembre del 1855 piombò all'Oratorio il questore di palazzo, che gli proibì, a nome del Re, di fare ancora profezie circa le prossime morti.

- E perché? - osservò don Bosco.

- Perché son cose che impressionano, e potrebbero non avverarsi.

- Che impressionino e facciano del bene, sì; ma che non si siano avverate, non è mai capitato.

- Ebbene, dica a me il nome di chi, in quest'anno, sarà il primo a morire tra i suoi dipendenti.

- Mi dà formale promessa di conservare il segreto?

- La do, sul mio onore.

- Boggero Giovanni.

Il questore segnò quel nome sul suo taccuino, e se ne andò.

Questo Giovanni Boggero aveva allora 26 anni; era di bella presenza, di bell'ingegno, amato da tutti e in piena salute.

Tre mesi dopo, ossia il mattino del 14 dicembre, mentre stava per far colazione, stramazzò improvvisamente a terra e morì d'apoplessia fulminante.

Quando il questore venne a saperlo, ritornò all'Oratorio e disse a don Bosco:

- Dica pure quel che vuole ai suoi giovani; ne ha tutte le licenze immaginabili. - Quindi, baciandogli la mano commosso, si allontanò ripetendo: «È cosa singolare, è cosa troppo singolare!».

A chi poi lo richiedeva circa siffatte profezie, il Santo sorridendo rispondeva:

- È cosa singolare!.. l'ha detto il questore.

 

Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi

Un altro giorno, trovandosi a pranzo con esponenti del governo e personaggi di varie tendenze politiche, ascoltò i brindisi inneggianti alla libertà, a Vittorio Emanuele, a Cavour e a Garibaldi.

Invitato poi a parlare anche lui, alzò il bicchiere, e senza scomporsi, esclamò sorridendo:

- Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, sotto la bandiera del Papa, affinché possano salvarsi l'anima!

Tutti l'applaudirono, ammirando il tatto fine del Santo e la franca professione delle sue idee; ed uno di loro gridò:

- Evviva don Bosco! Egli non vuole proprio la morte di nessuno!

Desiderium peccatorum peribit.

Il 6 agosto 1876, inaugurandosi la ferrovia Torino-Ciriè-Lanzo, il Prefetto di Torino aveva chiesto di servire il rinfresco alle Autorità nel collegio che don Bosco aveva in quest'ultimo paese.

Vi partecipavano i Ministri Agostino Depretis, Giovanni Nicòtera, Giuseppe Zanardelli con molti deputati, e vi presenziò anche don Bosco.

Servito il rinfresco, andarono tutti a sedere in giardino, e si portò il discorso sui frequenti viaggi del Santo a Roma e sulle sue visite in Vaticano. Quindi passarono a qualche amichevole scherzo.

Ad un certo punto, il deputato Ercole esclamò:

- Don Bosco legge nei cuori. Sentiamo un po' da lui chi è più peccatore: Nicòtera o Zanardelli?

Tutti risero a questa uscita amena, e il Santo rispose:

- Veramente, per poter dare una risposta giusta, bisognerebbe che venissero qui a fare gli Esercizi Spirituali; e allora, dopo una confessione generale, potrei dare un giudizio sul loro interno.

Ma siccome Ercole insisteva, Nicòtera lo interruppe dicendo:

- Oh!... perché vuoi mettere me come termine di paragone? Domanda invece a don Bosco se tu sei più peccatore degli altri.

Ed egli:

- Non ho voglia di convertirmi io... C'è tempo!

- Oh, sì! - soggiunse Nicòtera. - Non sai che sta scritto nei salmi: «Desiderium peccatorum peribit»?

- Bene!... bravissimo! - ripeterono tutti; ed un altro continuò:

- Mi dica, don Bosco, ella crede che noi ci salveremo?

- Eh!... io lo spero - rispose il Santo. - La misericordia di Dio è tanto grande!

- Ma noi non abbiamo voglia di convertirci tanto presto!

- Il che vuol dire che desiderano continuare, e poi... se si sentiranno...

- Sì, così per l'appunto!

- E allora - concluse il Santo - si avvererà ciò che ha detto quel signore poco fa: Desiderium peccatorum peribit!

 

Segreti di famiglia

Don Bosco, per le sue frequenti visite al Papa, era sospettato dalla Polizia. Nel maggio del 1860 fu sottoposto ad una minutissima perquisizione, durante la quale gli agenti, nel visitare un armadio, trovarono un cassetto chiuso a chiave.

- Che c'è qui? - chiese con premura il Delegato.

- Cose confidenziali, cose segrete - rispose don Bosco. - Non voglio che alcuno lo apra.

- Che confidenze! Che segreti! Venga ad aprire.

- Non posso. Ci sono cose che possono tornare a mio disonore. Rispettate i segreti di famiglia!

- Con noi, non ci sono segreti! Venga ad aprire, o scassineremo lo sportello.

- Minacciato dalla forza, io cedo, ma... non vorrei. Aperto il cassetto, il Delegato abbranca le carte là contenute, e facendole vedere ai compagni, grida:

- Ora ci siamo!

Gongolante di gioia, si mette sollecitamente a farle passare, assistito dalla cupida curiosità degli altri sbirri.

Ne apre una, poi una seconda, indi una terza e legge:

Pane somministrato a don Bosco dal panettiere Magra, Lire 7800.

Cuoio somministrato ai calzolai di don Bosco, Lire 2150.

Stoffa somministrata alla sartoria dell'Oratorio, Lire 730.

- Ma che razza di carte sono queste?

- Adesso che avete cominciato, continuate e lo saprete.

Aprono altri fogli, e non trovano che note di riso, paste, olio e simili, tutte ancora da pagare. Allora il Delegato esclama:

- Ma perché ci corbella così?!

- Io non corbello nessuno! non avevo piacere che i miei debiti fossero conosciuti; ma giacché li avete tutti voluti conoscere, pazienza! Se vi compiaceste di pagarmi almeno qualcuna di queste note, fareste un'opera di carità.

Quei signori si posero a ridere, e vennero a più miti consigli.

Don Bosco, allora, fece portare una bottiglia, e bevvero tutti alla salute della perquisizione.

 

Gatti nell'armadio

Tra gli inquisitori e i perquisitori più arrabbiati contro i preti e gli Istituti Religiosi, e quindi contro don Bosco, vi era un certo Cav. Gatti, un alto impiegato governativo.

Costui era stato incaricato di una inquisizione alle scuole dell'Oratorio, e ne aveva fatto al governo una relazione spietata e menzognera.

Don Bosco, temendo la chiusura del suo istituto, si recò direttamente dal Ministro dell'Istruzione a parare la tempesta.

Il Ministro, chiamato il Gatti, lo mise a confronto con il Santo per sostenere le accuse fatte in detta relazione; ma costui fu talmente impappinato ed arrabbiato, che a un certo punto, non potendo più sostenere le sue menzogne, si alzò, e pieno di dispetto, tentò di andarsene.

Però, nella confusione e nel livore che lo divorava, sbagliò la porta, ed aperto un armadio, vi si cacciò dentro.

A quella vista, il Ministro gridò:

- Ehi, cavaliere, adagio! quello è un armadio! Ritorni indietro.

E alzatosi, andò egli stesso ad aprirgli la porta di uscita.

 

Le astuzie di una marchesa

Nel settembre del 1864 la capitale del regno fu trasferita da Torino a Firenze, e don Bosco, a richiesta d'alcuni insigni benefattori, decise di recarsi colà in cerca di aiuti.

Quel viaggio a Firenze fu un vero trionfo. Tutti i giornali di quei giorni parlarono di lui. Fu ospitato nell'arcivescovado; i canonici della cattedrale tennero un'accademia in suo onore; e le nobiltà tutte gareggiavano per averlo presso di loro.

La Marchesa Gerini, fra le altre, lo pregò di fermarsi qualche giorno a Firenze, e don Bosco rispose:

- Non posso, Marchesa; i miei figli mi aspettano.

- Che importa? Aspettino; quando giungerà lo rivedranno!

- Oh, sì. Essi aspettano il pane! Se io non vado, chi paga loro il pane?

- Quanti sono?

- Circa mille.

- Quale somma ci vorrà per provvedere il pane ai suoi giovani in questi giorni?

- Diecimila lire circa.

- E se si trovasse questa somma, si fermerebbe davvero?

- Perché no?

- Ebbene, io le darò le diecimila lire.

- Se è così, il Signore la benedica! - esclamò sorridendo.

 

Puf... puf... puf...

Durante la sua permanenza nella città di Firenze, don Bosco venne chiamato d'urgenza al Ministero degli Interni per affari d'importanza.

Trovandosi a colloquio con il Primo Ministro Bettino Ricasoli e con il ministro Lanza, questi gli chiese:

- Ma lei, don Bosco, come fa a mantenere tanti giovani e sostenere tante spese? Dove prende il denaro?

Don Bosco, ridendo, rispose:

- Signor Ministro, vado avanti a vapore.

- Che vuol dire?

- Vado avanti come fa il vapore, cioè il treno, puf... puf... puf...! (ossia debiti, debiti, debiti).

Tutti risero di cuore; ma poi Lanza soggiunse:

- Questo si intende; ma poi questi debiti bisognerà onorarli.

- Veda, Eccellenza, io le dirò che dietro la macchina ci vuole fuoco perché proceda; ed io ci metto questo fuoco.

- Di che fuoco intende parlare?!

- Del fuoco della fede in Dio e nella sua Provvidenza. Senza questo fuoco, l'opera dell'uomo è nulla. Cadono gli imperi e rovinano i regni.

Queste parole, pronunziate come sapeva pronunziarle il nostro Santo, lasciarono in tutti coloro una impressione solenne, e si persuasero che egli era veramente l'uomo di Dio.

 

Titolo di Cavaliere

Quando il conte Luigi Cibrario, ministro della Pubblica Istruzione, gli inviò il diploma con la nomina di Cavaliere dell'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, egli si affrettò a recarsi da lui e gli disse:

- Illustrissimo signor Conte, se mi chiamassero Cavaliere, chi oserebbe ancora farmi l'elemosina? E poi, di croci ne ho già troppe! L'onorificenza la dia piuttosto ai miei orfanelli.

- E in che modo?

- Ottenendo loro qualche sussidio per provvederli di pane.

Fu contentato e sulla Gazzetta ufficiale di quei giorni comparve il decreto che fissava la pensione di lire 500 annue all'Opera di don Bosco.

 

I bersaglieri a Porta Pia

Il Risorgimento Italiano si concluse con la presa di Roma nel 1870. La Francia, che manteneva un grosso presidio in Roma, a protezione dello Stato pontificio, fu costretta a ritirarlo, in seguito alla dichiarazione di guerra di Napoleone 3° alla Prussia (19 luglio). Il successivo disastro di Sedan (2 settembre), nel quale lo stesso imperatore fu fatto prigioniero, consentì al governo italiano di sentirsi «le mani libere» nei confronti di Roma. Un esercito di 60.000 uomini al comando del generale Raffaele Cadorna investì Roma, che era difesa da 14.600 volontari agli ordini del generale Kanzler.

Pio 9°, che considerava un errore la sua fuga a Gaeta nel 1848, era ben deciso a restare in Roma, nonostante che diverse nazioni fossero disposte a ospitarlo. Una nave inglese era pronta per trasferirlo a Malta.

Il Papa volle consultare persone di sua fiducia, primo fra tutti don Bosco.

La lettera di risposta del nostro Santo fu copiata in bella copia da don Giovanni Cagliero e ha lo stile solenne e ispirato di cui si serviva don Bosco quando parlava in qualità di «profeta».

- Che la sentinella, l'Angelo d'Israele, si fermi al suo posto e stia alla guardia della rocca di Dio e dell'Arca santa.

Alle 5,30 del 20 settembre i bersaglieri italiani aprirono il fuoco su Porta Pia, squarciando una breccia di trenta metri. Il Papa un'ora dopo faceva issare la bandiera bianca su Castel Sant'Angelo. Poche furono le vittime.

Il Papa si ritirò in Vaticano, considerandosi prigioniero. Si aprì in tal modo la famosa «Questione romana» che si protrasse, con alterne vicende, per quasi sessant'anni, e che fu composta solo nel 1929 (11 febbraio) con la «conciliazione» e la firma dei Patti Lateranensi i quali, secondo l'espressione di Pio 11°, «ridonarono Dio all'Italia e l'Italia a Dio».

Don Bosco apprese la notizia della conquista di Roma mentre era in visita al suo collegio di Lanzo Torinese. Con meraviglia di tutti i presenti - dice don Lemoyne, che fu teste oculare - egli non ne fu turbato, come se si trattasse di cosa risaputa da tempo.

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