11. IMPARARE AD ESSERE PRETE

11. IMPARARE AD ESSERE PRETE

 

Tre stipendi rifiutati 

Sul finire di quell'estate mi vennero offerti tre incarichi. Una famiglia signorile di Genova mi chiese come maestro privato. L'onorario sarebbe stato di mille lire all'anno. 

I miei compaesani di Morialdo, desiderando vivamente che mi fermassi tra loro, mi pregarono di accettare il posto di cappellano. Mi garantivano che avrebbero raddoppiato lo stipendio consueto. 

Mi venne pure offerto il posto di viceparroco a Castelnuovo. Prima di prendere una decisione mi recai a Torino a consultare don Cafasso, che da parecchi anni era diventato mio consigliere nelle decisioni materiali e spirituali. Quel santo prete ascoltò tutto: l'offerta di buoni stipendi, l'insistenza di parenti e amici, la mia grande volontà di lavorare. Alla fine, senza esitazione, mi disse: 

- Non accetti niente. Venga qui al Convitto Ecclesiastico. Lei ha bisogno di completare la sua formazione studiando morale (la scienza che insegna a vivere cristianamente) e predicazione. 

Accettai volentieri il consiglio, e il 3 novembre entrai nel Convitto. 

 

Don Guala, il grande professore 

Nel Convitto Ecclesiastico si imparava ad essere preti. Nei seminari, infatti, si dava molta importanza allo studio delle verità della fede e alle discussioni per approfondirle. La morale si limitava ad affrontare i problemi più difficili e incerti. Il Convitto completava gli studi del seminario. 

Il tempo era impiegato in meditazione, letture spirituali, due lezioni al giorno (di morale), lezioni di predicazione, momenti di raccoglimento e riflessione. C'era tempo e comodità di studiare e leggere buoni autori. 

A capo del Convitto Ecclesiastico erano due persone celebri per sapienza e santità: il teologo Luigi Guala e don Giuseppe Cafasso. 

Don Guala era il fondatore dell'opera. Durante l'occupazione francese del Piemonte (1797-1814) aveva dimostrato una carità inesauribile. Uomo disinteressato, ricco di scienza, prudenza, coraggio, aveva fondato il Convitto perché dopo gli studi del seminario i giovani sacerdoti potessero imparare a fare i preti. Da quest'opera venne un gran bene per la Chiesa: furono specialmente sradicate alcune radici giansenistiche che continuavano ad allignare nella Chiesa piemontese. 

Una delle questioni più agitate nella scienza morale era quella detta « del probabilismo e del probabiliorismo ». Alla testa dei « probabilioristi » erano alcuni autori rigidi, tra cui Alasia e Antoine. Il loro comportamento rigoroso poteva portare ad atteggiamenti giansenistici. I « probabilisti » seguivano gli insegnamenti morali di sant'Alfonso. Oggi la Chiesa ha proclamato questo santo « dottore della Chiesa », e il suo pensiero si può chiamare «il pensiero del Papa», perché il Papa ha dichiarato che le sue opere si possono insegnare, predicare, praticare, seguire senza alcun pericolo. 

Il teologo Guala si collocava in maniera ferma al di sopra di ogni discussione. Al centro di ogni problema metteva la carità del Signore, e riusciva così a non cedere né al rigorismo né al permissivismo. Grazie alla sua azione, sant'Alfonso divenne il maestro delle scuole teologiche piemontesi, con conseguenze ottime. 

 

Don Cafasso, la guida spirituale 

Braccio destro del teologo Guala era don Cafasso. Egli riuscì a sciogliere l'ultimo ghiaccio che rimaneva tra probabilioristi e probabilisti con una calma imperturbabile, una carità delicatissima, usando tanta prudenza e tanta finezza. 

Un altro uomo molto prezioso del Convitto era il teologo Felice Golzio. La sua vita modesta fece poco scalpore, ma fu un aiuto inestimabile per don Guala e don Cafasso, con un lavoro instancabile, una profonda umiltà e una mente limpidissima. 

Questi tre grandi preti di Torino lavorarono con vero zelo nelle carceri e negli ospedali, sui pulpiti e nelle case dei malati. I frutti della loro carità beneficarono città e paesi, entrarono nei palazzi dei ricchi e nelle case dei poveri. 

Furono questi i tre modelli che la divina Provvidenza mi pose davanti. Dipendeva solo da me copiarli nella mia vita. 

 

Ragazzi dietro le sbarre 

Don Cafasso da sei anni era ormai la mia guida spirituale. Se ho fatto qualcosa di bene nella vita lo devo a lui. Domandavo il suo consiglio in ogni scelta, ogni progetto, ogni orientamento del mio lavoro sacerdotale. 

Egli cominciò a condurmi a visitare i carcerati. Nelle prigioni imparai a conoscere quanto è grande la malignità e la miseria degli uomini. Vedere un numero grande di ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sani, robusti, intelligenti, vederli là oziosi, tormentati dalle cimici e dai pidocchi, senza pane e senza una parola buona, mi fece inorridire. 

Quei giovani infelici erano una macchia per la nostra patria, un disonore per le famiglie. Erano umiliati fino alla perdita della propria dignità. Quello che più mi impressionava era che molti, quando riacquistavano la libertà, erano decisi a vivere in maniera diversa, migliore. Ma dopo poco tempo finivano di nuovo dietro le sbarre. 

Cercai di capire la causa, e conclusi che molti erano di nuovo arrestati perché si trovavano abbandonati a se stessi. Pensavo: «Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro, li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi, o almeno sarebbero ben pochi a tornare in prigione ». Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo aiuto cercai il modo di tradurlo in realtà. Avevo molta confidenza nel Signore, perché sapevo che senza il suo aiuto ogni nostro sforzo è vano.

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