12. IL SEMINARIO E I PUNTI NERI

12. IL SEMINARIO E I PUNTI NERI

 

La “vestizione chiericale”, in quegli anni, è un passo importante. Il giovane si toglie di dosso gli abiti che porta la gente comune, e indossa una sottana nera (la “talare”) che gli scende dalle spalle fino ai piedi. È un segno per dire a tutti: “Intendo diventare prete, e vivere come deve vivere un prete”. Ci sono anche altri accessori che completano la divisa del chierico: il collare bianco di tela dura, la berretta nera con tre spicchi e un fiocco, il cappello rotondo a cupola. Il colore unico, di rigore, è il nero.

“Io ho sempre avuto bisogno di tutti”, dirà un giorno don Bosco. Anche per la sua “vestizione” è così: la talare, il cappello, le scarpe, la berretta, persino le calze nere gli vengono regalati dalla gente del suo paese.

25 ottobre. È domenica. Nella chiesa di Castelnuovo c'è più gente del solito: è venuta dai Becchi, da Morialdo, dalle altre borgate intorno, perché il parroco, prima della Messa grande, “vestirà da prete” Giovanni Bosco, quel bravo giovanotto che tutti conoscono.

Giovanni si avvicina all'altare portando sul braccio la veste nera. Le parole del rito sono solenni.

“Quando il parroco don Cinzano mi comandò di levarmi gli abiti secolareschi con le parole: " Il Signore ti svesta dell'uomo vecchio con le sue abitudini e i suoi modi di agire ", dissi nel mio cuore: " Quanta roba vecchia c'è da togliere! Mio Dio, distruggete le mie cattive abitudini ". Quando, nel darmi il collare, aggiunse: " Il Signore ti vesta dell'uomo nuovo, creato secondo il cuore di Dio nella giustizia, nella verità e nella santità ", aggiunsi tra me: " Mio Dio, che io incominci davvero una vita nuova, secondo la vostra volontà. Maria, siate voi la mia salvezza».

 

Sette righe che rovesciano la vita

Dopo la Messa, una sorpresa. Don Cinzano lo invita ad accompagnarlo alla borgata Bardella, dov'è festa patronale.

“Andai per non fargli dispiacere, ma a malincuore. Non era cosa opportuna per me. Sembravo un burattino vestito di nuovo. Mi ero preparato per settimane a quel giorno, e mi trovai a un pranzo in mezzo a gente radunata per ridere, chiacchierare, mangiare, bere e divertirsi. Che cosa poteva avere in comune con uno che poche ore prima aveva vestito l'abito di santità per darsi tutto al Signore?

Nel ritorno a casa, il parroco mi domandò perché fossi così pensieroso. Con tutta franchezza risposi che la funzione del mattino faceva a pugni con ciò che era venuto dopo. Aver visto preti fare i buffoni tra i commensali, quasi ubriachi, mi aveva disgustato. " Se sapessi di diventare un prete come quelli - aggiunsi - preferirei deporre subito quest'abito ".

Il parroco capì che il suo giovane chierico aveva ragione. Se la cavò con due modesti luoghi comuni: “Il mondo è fatto così, bisogna prenderlo com'è”, e: “Bisogna vedere il male per poi evitarlo”.

Nei quattro giorni che lo separavano dall'entrata in seminario, Giovanni si concentrò nel silenzio e nella riflessione, e scrisse sette propositi che segnavano un “rovesciamento” nel suo stile di vita. Eccoli.

  1. Non andrò a vedere balli, teatri, spettacoli pubblici.

  2. Non farò più il prestigiatore, il saltimbanco, non andrò a caccia.

  3. Sarò temperante nel mangiare, nel bere, nel riposo.

  4. Leggerò cose di religione.

  5. Combatterò pensieri, discorsi, parole, letture contrarie alla castità.

  6. Farò ogni giorno un po' di meditazione e di lettura spirituale.

  7. Racconterò ogni giorno fatti e pensieri che facciano del bene. “Sono andato davanti a un'immagine della Beata Vergine, e ho fatto promessa formale di osservarli a costo di qualsiasi sacrificio”. Non ci riuscirà sempre, perché anche lui è fatto di carne e di nervi come noi. Ma il “colpo di timone” l'ha dato.

Il 30 ottobre, Giovanni doveva trovarsi in seminario. La sera prima, al Sussambrino, stava collocando dentro un piccolo baule il corredo che mamma Margherita gli aveva preparato. “Mia madre - scrive - mi teneva lo sguardo addosso come volesse dirmi qualcosa. Ad un tratto mi chiamò in disparte e mi disse:

"Giovanni, tu hai vestito l'abito del sacerdote. Io provo tutta la consolazione che una madre può provare. Ricordati però che non è l'abito che ti fa onore, ma la virtù. Se un giorno avrai dubbi sulla tua vocazione, per carità, non disonorare quest'abito. Posalo subito. Preferisco avere per figlio un povero contadino, piuttosto che un prete trascurato nei suoi doveri. Quando sei nato, ti ho consacrato alla Madonna. Quando hai cominciato gli studi ti ho raccomandato di voler bene a questa nostra Madre. Ora ti raccomando di essere tutto suo, Giovanni ".

Quando terminò queste parole, mia madre era commossa. Io piangevo.

"Madre - le risposi - vi ringrazio di tutto ciò che avete fatto per me. Queste vostre parole non le dimenticherò mai ".

Al mattino per tempo mi recai a Chieri, e alla sera dello stesso giorno entravo in seminario”.

Dall'alto di un muro candido, una meridiana gli diede il primo saluto: sotto il quadrante delle ore era scritto: “Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae”, cioè: “Per chi soffre, le ore tardano a passare, ma sono veloci per chi ha il cuore contento”. Era un buon consiglio per un giovanotto che fra quelle mura si preparava a trascorrere sei anni filati.

In cappella, i chierici perfettamente allineati nei banchi, l'organo attaccò le maestose note del Veni Creator. L'anno iniziava con i tre giorni di silenzio rigoroso degli Esercizi Spirituali.

 

Un orario di ferro

Alla pagina 90 delle sue Memorie, don Bosco scrive: “I giorni del seminario sono presso a poco sempre gli stessi”. Una maniera molto chiara per dire che la difficoltà più pesante dei primi mesi fu la monotonia.

L'orario delle giornate è preciso, spacca il minuto. È tutto segnato su un cartello appeso in qualche angolo, accanto a una campanella. Una filza di ore, mezz'ore, quarti d'ora. A ogni scadenza il “campanaro” s'avvicina alla campanella, la scuote. A quel tintinnio la comunità esce, entra, parla, si tuffa nel silenzio, studia, prega.

La prima cosa che insegnano quando si varca quella porta è che la campana è la voce di Dio.

Una giornata vissuta così è stimolante, può riuscire persino divertente. Ma bisogna provare a ripetere questa giornata per otto mesi di fila, per capire cos'è la monotonia.

Le fasce orarie che dividevano la giornata al seminario di Chieri erano state fissate rigidamente da Carlo Felice per tutte le scuole del Regno. Non risparmiavano nemmeno i principi.

Possiamo farcene un'idea scorrendo l'orario che doveva seguire, nel Palazzo Reale di Torino, il principe ereditario Vittorio Emanuele, che in quel 1835 aveva 15 anni:

“Sveglia alle 5, Messa alle 7, scuola dalle 9 alle 12, pranzo, dalle 14 alle 19 e mezzo impegni scolastici, cena, alle 21 orazioni e riposo. La mattina della domenica due Messe: quella " bassa " prima della colazione nella cappella di Palazzo, quella " grande " dopo colazione in Duomo”.

In seminario, a differenza di Palazzo Reale, la Messa quotidiana era accompagnata dalla meditazione e dalla terza parte del Rosario. A mensa non si parlava, si seguiva la lettura della “Storia Ecclesiastica” del Bercastel scandita a turno dall'alto di un ambone.

La cucina era semplicissima. “Si mangia per vivere, non si vive per mangiare” era una delle massime più ripetute.

Il momento in cui questi giovanotti rallentavano la tensione era la ricreazione. Don Bosco ricorda appassionate partitacce alle carte. “Non ero un valente giocatore, tuttavia guadagnavo quasi sempre. Alla fine delle partite avevo le mani piene di soldi, ma al vedere i miei compagni tristi perché li avevano perduti, diventavo più triste di loro. Inoltre, a forza di fissare la mente sulle carte, mentre studiavo o pregavo avevo sempre in mente il re di coppe e il fante di spade. Per questi motivi a metà del secondo anno di filosofia decisi di smettere”.

La faccenda che lo decise a troncare netto fu una vincita forte. Il chierico che testardamente aveva continuato a chiedergli la rivincita era povero anche lui, e alla fine, spennato come un pollo, quasi si metteva a piangere. Giovanni provò vergogna di se stesso, gli restituì tutto ciò che aveva guadagnato, e con le carte mise punto fermo.

Anche con i suoi Salesiani, quanto al gioco delle carte, fu rigido. “Fa perdere un sacco di tempo, e noi il tempo dobbiamo dedicarlo ai ragazzi - diceva -. Quando non avrò più niente da fare, allora giocherò alle carte”.

 

I punti neri del seminario

Man mano che i giorni passano, Giovanni scopre nella vita del seminario dei “punti neri”.

Il primo è lo stesso che lo disturbava a Castelnuovo: i superiori tengono le distanze. Per salvare il rispetto e la dignità si fanno vedere di raro. “Il rettore e gli altri superiori si andavano a visitare all'arrivo delle vacanze e quando si ripartiva. Nessuno andava a parlare con loro, se non per ricevere qualche sgridata. Se qualche superiore passava in mezzo ai seminaristi, era un fuggi-fuggi generale. Quante volte avrei voluto parlare con loro, chiedere consiglio”.

“Giovanni non chiedeva un'approvazione formale - commenta Pietro Stella -, chiedeva di più: la benevolenza, cioè la risposta all'affetto che egli nutriva verso di loro. Questo voler stabilire un' atmosfera di reciproco " piacere ", di sintonia e simpatia ben esprime il temperamento di don Bosco”. Per stabilire questa corrente di sintonia, don Bosco stima essenziale la “presenza fisica” degli educatori tra i giovani. Ne è talmente persuaso che ne farà un elemento essenziale del suo sistema educativo.

Il secondo “punto nero” lo vede in alcuni compagni. C'erano “molti chierici di specchiata virtù”, ma ce n'erano “anche dei pericolosi”, che facevano “cattivissimi discorsi”, e che introducevano in seminario “libri empi e osceni”.

Un'altra amarezza Giovanni la provava per la proibizione della Comunione frequente. “La santa Comunione poteva farsi solamente la domenica o in altra speciale solennità”. Per nutrirsi dell'Eucaristia durante la settimana “bisognava commettere una disobbedienza”.

Al mattino, mentre la lunga fila dei chierici silenziosi si dirigeva al refettorio per la colazione, qualcuno scantonava all'angolo, entrava nella chiesa di S. Filippo e chiedeva la Comunione, “pagando” con il digiuno fino a pranzo. “Con questo mezzo ho potuto frequentare assai più la santa Comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace nutrimento della mia vocazione”.

 

Boccata d'ossigeno al giovedì

C'era una giornata che rompeva per Giovanni la monotonia degli orari: il giovedì. Nel pomeriggio di quel giorno - ricordavano i suoi compagni - il portinaio suonava immancabilmente il campanello di chiamata e gridava:

- Bosch 'd Castelneuv!

Gli altri chierici, che cercavano ogni minimo appiglio per ridere un po', facevano eco gridando come tanti banditori:

- Bosch 'd Castelneuv! Bosco di Castelnuovo! Bois de Chàteau neuf!

Giovanni rideva per lo scherzo solito, e anche perché sapeva chi l'aspettava: i soci della “Società dell'Allegria” che volevano rivederlo e raccontargli le novità, gli amici con cui aveva fatto il ginnasio, i ragazzetti che aveva divertito con i suoi giochi e i suoi racconti e desideravano riascoltarlo. “Erano moltissimi giovanetti - ricordava un suo compagno di camerata - che lo attorniavano festosi. Li intratteneva allegramente, parlava con tutti”. Dopo il chiasso, gli scherzi, le allegre risate, una puntata in cappella ai piedi della Madonna.

Il giovedì era la sua boccata d'ossigeno, la continuazione quasi clandestina del suo “chiodo fisso”, l'oratorio.

Agli amici più intimi, Giovanni parlava spesso di questo “oratorio”: sarebbe nato alla periferia di una grande città, avrebbe avuto cortili, edifici, folle di ragazzi. “Io non invento niente - diceva tranquillo -. Lo sogno ogni tanto, di notte”.

“Don Bosio, parroco di Levone Canavese, compagno di don Bosco nel seminario di Chieri - racconta il biografo don Lemoyne - venuto per la prima volta all'Oratorio nel 1890, arrivato in mezzo al cortile, circondato dai membri del Capitolo Superiore dei Salesiani, girando lo sguardo intorno e osservando i vari edifici, esclamò: " Di tutto ciò che vedo qui, nulla mi riesce nuovo. Don Bosco, in seminario, mi aveva già descritto tutto, come se avesse visto con i propri occhi ciò che narrava, e come io vedo adesso con mirabile esattezza “.

Sogni e povertà, un binomio strano che accompagnerà ogni stagione di don Bosco. I sogni a spalancare la speranza su uno splendido futuro, la povertà a mettere i bastoni tra le ruote del presente.

All'esame semestrale (gli esami in quei “bei tempi” sono tre ogni anno: trimestrale, semestrale, finale) c'è un premio di sessanta lire per il chierico di ogni corso che ha i migliori voti nella condotta e nello studio. Giovanni punta i gomiti sui libri e ce la fa a strapparlo. Ripeterà l'impresa ogni anno: metà pensione, comunque vadano le cose, è assicurata.

E poi si dà da fare. “Chi aveva bisogno di farsi radere la barba, di aggiustare la berretta, di cucire o rattoppare un abito, mi trovava sempre pronto”.

 

Tra i giovani ricchi

Il colera si ripresenta ai bordi della stagione calda 1836. Torino ha di nuovo paura. I Gesuiti anticipano la partenza dei loro convittori dal collegio del Carmine per il castello di Montaldo, imponente villeggiatura. Cercano un fidato assistente di camerata che sia anche ripetitore di greco. Don Cafasso manda il chierico Bosco: “Potrai farti un po' di lire”.

Dal 1° luglio al 17 ottobre Giovanni vive per la prima volta fra giovani di famiglie distinte, a contatto con virtù e vizi dei “figli di papà”. Confessa di aver provato “quanto sia difficile acquistare tra loro quell'ascendente che un prete deve avere per far loro del bene”. Si persuade che Dio lo chiama solo tra i ragazzi poveri. Sarà una delle sue convinzioni assolute: come non è chiamato a educare le ragazze, in maniera identica non è chiamato a educare i figli dei ricchi. Quasi trent'anni dopo, il 5 aprile 1864, a don Ruffino che gli parlerà di un collegio per giovani nobili, risponderà quasi con asprezza:
- Questo no, non sarà mai. Ciò sarebbe la nostra rovina. Lo fu già per altri ordini religiosi: avevano per scopo primo l'educazione della gioventù povera, e l'abbandonarono per servire i nobili.

 

Il fascino di Luigi Comollo

Ottobre 1836. Mentre Giovanni Bosco lascia il castello di Montaldo per trascorrere alcuni giorni tra le vigne del Sussambrino, Luigi Comollo veste l'abito chiericale. Alla fine del mese entra lui pure, con l'amico Giovanni, nel seminario di Chieri. Si ricostituisce una coppia fissa, un'amicizia solidissima.

Luigi ha due anni meno di Giovanni, ma torna a essere immediatamente il suo pungolo spirituale. “La mia ricreazione era non di rado da lui interrotta. Mi prendeva per una falda dell'abito, e dicendomi di accompagnarlo mi conduceva in cappella”.

Lì Comollo si sentiva di casa, e le sue ingenue effusioni non erano mai finite: visita al Santissimo, preghiere per gli agonizzanti, recita del Rosario, ufficio della Madonna, coroncina per le anime del Purgatorio.

Giovanni, come molti cristiani che lavorano e faticano per il Regno di Dio, sentiva un fascino profondo, quasi una nostalgia per quella pietà di ardore puro, di semplice abbandono in Dio. Intuiva che nel modo di fare dell'amico c'era dell'esagerazione. Lo dice con molta delicatezza: “Non ho nemmeno provato a imitarlo nella mortificazione. Digiunava rigorosamente l'intera quaresima, digiunava il sabato, a volte pranzava a pane e acqua. Talvolta lasciava pietanza e vino, e si contentava del pane inzuppato nell'acqua, con il pretesto che gli faceva meglio alla salute”.

Noi possiamo dirlo chiaro, senza giri di parole: era una corsa volontaria all'esaurimento e alla morte. Un buon direttore spirituale non l'avrebbe lasciato correre così al massacro. Quando Domenico Savio (vent'anni dopo) tenterà dì avviarsi su una strada simile, don Bosco lo bloccherà con decisione. Ma Giovanni, in questo momento, non può essere ancora quel prudente direttore di coscienze che diventerà. E l'ascetica disincarnata di Comollo, quel suo rifugiarsi in Dio quasi disprezzando ogni valore terreno, lo riempiono di ammirazione.

In lui vivrà perenne il fascino per il santino Luigi Comollo, per questa santità che si brucia rapida puntando direttamente al Cielo. Ma la sua strada verso Dio continuerà a essere un'altra, quella di una santità più incarnata e solida, realizzata nel contatto vivo con la realtà, con l'affetto e le necessità urgenti dei giovani, con i problemi assillanti e concreti che chiarificano e semplificano ogni teoria ascetica.

 

Chierico sperduto

All'inizio di dicembre era entrato in seminario Giovanni Francesco Giacomelli, di Avigliana. Ha lasciato una testimonianza preziosa, in cui sembra fotografare il chierico Bosco del secondo anno di filosofia. La riportiamo condensandola.

“Entrato in seminario un mese dopo gli altri, non conoscevo nessuno, e nei primi giorni ero sperduto, smarrito nella solitudine. La prima volta che mi sedetti nella sala di studio, mi vidi davanti un chierico che mi pareva di età avanzata. Di bell'aspetto, con i capelli tutti ricciuti, era pallido e magro, sembrava sofferente. Era don Giovanni Bosco. Fu lui che si avvicinò a me la prima volta che mi vide solo dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto il tempo della ricreazione. Mi usò molte gentilezze. Tre le altre, ricordo che, avendo una berretta sproporzionatamente alta, vari compagni mi prendevano in giro. Giovanni in quattro e quattr'otto me l'aggiustò.

In quell'anno c'erano due chierici che si chiamavano Bosco. Quasi per distinguersi, il primo (che poi divenne direttore delle Rosine in Torino) disse: " Mi sun Bosch 'd pucciu " (legno di nespolo, durissimo, impossibile da piegare). Giovanni disse invece: " Mi sun Bosch 'd sales " (legno di salice, tenero e flessibile). Non era un bigotto, era invece molto inclinato alla collera, ed era evidente la grande e continua violenza che faceva per contenersi. Amava immensamente i giovani, il suo piacere era trovarsi in mezzo a loro”.

 

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