13. DI PROFESSIONE PRETE

13. DI PROFESSIONE PRETE

 

24 giugno, festa di San Giovanni Battista. Per Giovanni Bosco è il giorno onomastico e l'inizio delle lunghe vacanze estive, quattro mesi.

Infila la strada bianca che da Chieri conduce a Castelnuovo, poi il sentiero che sale al Sussambrino. Dodici chilometri, una bella camminata. La cascina del fratello gli dà il benvenuto con il “chicchirichì” dei galli e il sorriso timido di una splendida nipotina.

Giuseppe ha messo su famiglia ormai da anni. Ha sposato nel 1833 (appena ventenne) Maria Calosso, una ragazza di Castelnuovo.

La prima bimba che ha visto la luce, Margherita, è vissuta solo tre mesi. Nella primavera del 1835 è nata Filomena, una bimbetta tranquilla, che guarda incantata lo zio Giovanni che lavora con la pialla, il tornio, la forgia, che taglia e cucisce abiti, e le confeziona bellissime bamboline di pezza.

 

Con il falcetto a mietere il grano

Sulle viti stanno prendendo forma i teneri grappoli verdi, il grano già biondeggia sui campi. Giovanni, quando smette di lavorare nel suo rudimentale laboratorio, impugna il falcetto ed entra nella lunga fila dei mietitori. Il sudore gli gronda dalla fronte, sotto il largo cappello di paglia.

Prova una gioia intensa in questa attività all'aria aperta, dopo gli otto mesi di quasi prigionia tra i banchi della scuola.

Un giorno, tra i filari della vigna, vede sfrecciare una lepre. Istintivamente corre in casa, stacca dal chiodo il fucile di Giuseppe. Gli sembra questione di un minuto l'inseguimento, invece la lepre fugge veloce. Testardo, non la vuole mollare.

“Di campo in campo, di vigna in vigna, finii per attraversare valli e arrampicarmi su colline. Ci vollero ore. Finalmente l'animale fu a tiro, e lo centrai con una fucilata. La povera bestiola cadde, e provai una grande tristezza nel vederla morire. Alcuni amici mi avevano seguito, e si congratularono per il bel colpo. Ma io mi guardai: ero in maniche di camicia, senza sottana, con un cappello di paglia, dopo una corsa di cinque chilometri fatta con un fucile in mano. Ne fui mortificatissimo”.

Tornato a casa, andò a rileggersi sul taccuino i propositi fatti alla vestizione. Lesse al numero due: “Non farò il prestigiatore, il saltimbanco, non andrò a caccia”. Disse: “Signore, perdonatemi”.

Il suo divertimento tornò a essere lo stare con i ragazzi. “Molti toccavano i 16-17 anni, e non sapevano niente della fede. Provai molto piacere a fare loro catechismo. A ragazzetti di tutte le età insegnavo a leggere e a scrivere. La scuola era gratuita, ma le condizioni che mettevo erano assiduità, attenzione, e confessione mensile”.

 

Gli “schemi mentali”

3 novembre 1837. In seminario, Giovanni inizia la teologia. È la “scienza che studia Dio”, ed è lo studio fondamentale per gli aspiranti al sacerdozio. In quel tempo occupava cinque anni, e comprendeva come materie principali la dogmatica (lo studio delle verità cristiane), la morale (la legge che il cristiano deve osservare), la Sacra Scrittura (la parola di Dio), la storia ecclesiastica (storia della Chiesa dalle origini del cristianesimo all'età contemporanea).

Lo studio della teologia è di grande importanza nella vita di ogni prete. Durante questi anni di giovinezza e di grande disponibilità, si pone quell'ossatura di idee, di valutazioni, che formano la “mentalità”. Lungo la vita, il prete la affinerà, la modificherà anche, sotto l'urgenza di fatti nuovi, ma difficilmente la cambierà. La sua maniera di vedere, di giudicare le cose, avranno la radice in quella “piattaforma ideologica” che la teologia gli ha dato. È lì che è diventato “di professione prete”.

Anche per Giovanni Bosco gli anni di teologia furono estremamente importanti. Sebbene aiutato da doni straordinari, egli fu figlio del suo tempo, e specialmente della Chiesa del suo tempo.

È molto importante, per capire don Bosco, conoscere gli “schemi ideologici” che gli studi, i libri, e anche la direzione spirituale e la predicazione, posero alla base della sua mentalità. Pietro Stella, nel volume 1° di Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, dedica venti pagine (59-78) a questo argomento. Le dimensioni di questo nostro lavoro ci permettono soltanto di citare alcune affermazioni molto illuminanti:

“La teologia dogmatica di allora, poneva ogni cosa sotto la luce del conto da rendere al giudice divino, nell'attesa della vita o della morte eterna. Abituava a considerare ogni cosa nel valore che aveva per l'eternità, tutto come ragione di premio o di condanna”.

“La teologia morale incentrava ogni cosa nel rapporto tra legge divina e libertà, educava a considerare il proprio agire come responsabile adeguazione alla legge divina”.

“L'oratoria sacra per i seminaristi contribuiva ad alimentare lo stato di angoscia che poteva germinare in anime religiose sensibilissime. Argomentava delle grandi e difficili obbligazioni che il sacerdozio imponeva, dei pericoli grandissimi che provenivano dal sacro ministero (pericoli di mondo, di donne, di dissipazioni di ogni genere), del conto rigoroso che il divino sovrano avrebbe richiesto ai suoi ministri”.

Notiamo di passaggio che, spinto da questo genere di predicazione, Giovanni Bosco può avere esagerato in qualche momento nell'autocontrollo e in forme alienanti di ascesi. Sono esperienze passeggere che molti seminaristi dei tempi passati (seminari chiusi e asettici) hanno provato.

 

Valutare il proprio tempo

Crediamo pure assai importante, per comprendere don Bosco, delineare i tratti essenziali della “mentalità storica” che egli assorbì in quegli anni: come egli fu avviato a vedere, a valutare “il tempo” che stava vivendo, quell'epoca così importante che passerà ai libri di storia col nome di “Risorgimento”. Solo comprendendo questa “mentalità storica” è possibile capire come don Bosco pensava il futuro della Chiesa e del mondo.

Si partiva definendo “fallimentari” le esperienze della rivoluzione francese e dell'impero napoleonico. “La più terribile delle rivoluzioni”, “l'iniquità abbondò anche tra noi”, “la rete è stata spezzata, e noi siamo liberati!”. La restaurazione dei troni è “opera solo delle mani di Dio”. Sono frasi che abbondano nelle lettere pastorali e nei sermoni del tempo.

Il “fallimento” era visto nel passaggio dalla proclamazione dei grandi principi (libertà, uguaglianza) al “terrore” della rivoluzione e alla dittatura napoleonica. Questo significava che il principio illuminista (adottato dalla rivoluzione francese) della “ragione come unica via alla verità e al bene”, portava a disastrose conseguenze.

Veniva perciò rivalutata la “dimensione religiosa”, non riducibile entro i limiti della ragione umana. Veniva rivalutata l'autorità del re, moderata solo dall'osservanza delle leggi divine: con la sua illuminata saggezza doveva imbrigliare le forze rivoluzionarie sempre in agguato, che portavano al disordine e alla violenza.

Queste rivalutazioni erano ambigue. Potevano portare a un cristianesimo autoritario, a un'alleanza tra trono e altare incapace di capire che “libertà, uguaglianza e fraternità” sono valori cristiani. Sono le ambiguità del “conservatorismo cattolico”, che dominò quasi fino al 1848.

Sottobanco, anche negli ambienti ecclesiastici circolavano altre idee, quelle del “liberalismo cattolico”. Si riconosceva la validità dei grandi principi della rivoluzione. Si deprecavano la violenza giacobina e la dittatura di Napoleone. Si desiderava un sistema di poteri equilibrati: un re che tenesse a freno i rivoluzionari, ma anche una Costituzione che garantisse libertà e uguaglianza. Libertà e uguaglianza, tuttavia, venivano desiderate per tutti eccetto che per il “basso popolo”.

Tanto i liberali quanto i conservatori avevano un senso di paura per la “uguaglianza democratica”: come insegnava il “terrore”, essa si sarebbe inevitabilmente trasformata nella tirannia di un piccolo gruppo che avrebbe proclamato di governare “in nome del popolo”, producendo il caos.

Tra i più illustri cattolici liberali di questo tempo sono Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni.

Giovanni Bosco assorbì la mentalità storica del “conservatorismo cattolico”. Fu di idee conservatrici (anche se l'urgenza delle situazioni concrete lo porterà a superare, e addirittura a rovesciare molti atteggiamenti dei conservatori). Non poteva essere diversamente: nel 1832, con l'enciclica Mirari vos, il papa Gregorio XVI aveva dichiarato che le “libertà moderne” non erano accettabili dai cattolici. Riconoscendo, per esempio, la libertà di coscienza - affermava il Papa - si metteva sullo stesso piano la verità cattolica e l'errore. Il testo dell'enciclica era nelle mani dei seminaristi, che ne dovevano fare oggetto di studio e di riflessione.

 

Dov'erano Cavour, Mazzini, Garibaldi?

Mentre Giovanni Bosco, a Chieri, assimila queste idee, a Torino Carlo Alberto è il “campione” del conservatorismo cattolico. L'alleanza trono-altare è fiorente. Il clero ha una posizione dominante nell'Università: un rappresentante dell'Arcivescovo assiste a tutte le lauree. Nel 1834, nel cortile dell'Arsenale, il re ha inaugurato il monumento a Pietro Micca, il popolano che si è sacrificato per salvare la sua città. Nel discorso, però, non sono state esaltate le “virtù del popolo”, ma il suddito semplice, ignorante, obbediente, pronto al sacrificio per il suo re.

In quel 1837, i protagonisti del Risorgimento (il periodo che darà un grande scossone all'Italia e rimescolerà tutte le carte, comprese le idee “conservatrici” e quelle “liberali”), sono ancora dispersi.

Giovanni Mastai-Ferretti, che nel 1846 salirà alla cattedra papale con il nome di Pio IX, è vescovo di Imola. Ha solo 45 anni, ed è considerato un “vescovo spregiudicato” perché deplora gli eccessi della polizia papale, ed è amico del conte Pasolini, il liberale più in vista della sua città.

Camillo Cavour, 27 anni, dirige la tenuta agricola di Leri. Stivali e cappello di paglia, cammina instancabile dalla mattina alla sera per campi, pascoli, risaie. Era giovane sottotenente nella guarnigione di Genova nel 1831. Alla notizia dei moti rivoluzionari ha gridato: “Viva la repubblica!”. L'hanno scaraventato nella Valle d'Aosta, e lui ha lasciato l'esercito. Suo padre, vicario della città di Torino e quindi capo della polizia, l'ha esiliato in campagna. Tra una vendemmia e un raccolto di riso ha girato l'Europa, ha ammirato il Parlamento di Parigi e di Londra. Ha anche incontrato i fuoriusciti italiani, e ha detto di loro: “Sono un branco di pazzi imbecilli e fanatici, di cui farei volentieri concime per le mie barbabietole”.

Mazzini, 32 anni, è appena stato scacciato dalla Svizzera, da cui dirigeva le sue trame rivoluzionarie. Si è sistemato in una casa di periferia a Londra. Scrive sui giornali per guadagnarsi il pane. Si fa crescere la barba, e gira solo e vestito di nero per le strade nebbiose della città.

Garibaldi, fuggito in America dopo la fallita rivoluzione mazziniana in Savoia, è sbarcato in Brasile. Ha 30 anni e fa il corsaro nei mari del Sud, al servizio del “governo rivoluzionario” del Rio Grande. Fra poco vestirà la sua “legione italiana” della leggendaria camicia rossa, comprando sottocosto a Montevideo uno stock di grembiulotti destinati ai saladeros, cioè ai macellai argentini.

Vittorio Emanuele, 17 anni, vive nel Palazzo Reale di Torino come in una rigida caserma. Deve accompagnare il padre alle feste e ai balli dell'aristocrazia, e stare in piedi al suo fianco per delle ore. Gli unici momenti di gioia prorompente li vive nelle scuderie. Parla un dialetto schietto e grossolano con gli stallieri, cavalca coraggioso e fanfarone, è smanioso di azione e di aria libera.

Vicino e lontano, la storia degli uomini cammina. Avvenimenti piccoli e grandi si alternano, spingendo avanti la vicenda umana.

Nel 1836, Morse ha realizzato il telegrafo elettrico e il sistema di comunicazione con linee e punti. Fra pochi anni si diffonderà nel mondo un utile rettangolino di carta: il telegramma. Prima soltanto alla portata dei governanti e dei grandi giornali, poi a disposizione di tutti.

Nel 1837, durante un'epidemia di colera, è morto a Torre del Greco Giacomo Leopardi. Aveva solo 39 anni. In Inghilterra è salita al trono la regina Vittoria: inizia il suo lunghissimo regno che vedrà l'Inghilterra diventare la prima nazione coloniale del mondo.

Nel 1838 muore il marchese Tancredi di Barolo ex-sindaco di Torino. La vedova decide di consacrare le sue ricchezze all'assistenza delle donne infelici. Nasce così alla periferia di Torino, accanto al Cottolengo, l'opera di aiuto per le carcerate e le donne perdute.

Nel 1839 re Ferdinando II fa costruire la prima ferrovia italiana, Napoli-Granatello, e Jacques Deguerre costruisce la prima macchina fotografica. A questo umile inventore, anche don Bosco dovrà qualcosa: sarà uno dei primi santi di cui si potrà conservare l'immagine precisa, grazie a decine di fotografie.

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