La Famiglia Salesiana oggi ricorda "un angelo che si fece infermiere"...
del 27 dicembre 2006
 
   
 
 
 
 
 
Don Bosco è andato a Dio nel 1888. Un anno dopo, a Boretto di Reggio Emilia, un ragazzino di 9 anni inizia a lavorare. Non sa chi è Don Bosco, ma un giorno, in Argentina, lo chiameranno il «Don Bosco dei poveri». E adesso, senza saperlo, rinnova la dura esperienza di Giovannino Bosco alla cascina Moglia. In una vasta fattoria agricola fa il «garzone». Levata alle tre del mattino, una fetta di polenta per masticare e svegliarsi del tutto, e poi ai campi. «Ragazzo da lavoro» fino a 16 anni, con la giornata da sole a sole, la faccia lunga denutrita, la paura di finire come tanti braccianti uccisi sui vent’anni dalla pellagra o dalla malaria.
Si chiama Artemide Zatti, quel ragazzo, e quando torna in famiglia sente che papà e mamma parlano di partire per l’America. C’è uno zio trapiantato a Bahìa Bianca, in Argentina, che scrive dicendo che laggiù chi ha voglia di lavorare può vivere bene. In Italia invece, in quegli anni, un bracciante ha poche possibilità di vivere: c’è la crisi agricola, la disoccupazione, il latifondo, la miseria che falcia i contadini come le spighe del grano.
Nel 1897 (Artemide ha 17 anni) gli Zatti partono. Bahìa Blanca e tutta l’Argentina, in quegli anni, è piena di italiani emigrati, che lavorano sodo e in silenzio. Lo zio li aspetta, e aiuta il papà a mettere su una bancarella al mercato. Artemide lavora a fabbricare mattoni.
 
 
LA VITA DI DON BOSCO E UN'IDEA 
Ci sono molti anticlericali, a Bahìa Blanca, ma gli Zatti alla domenica sono tutti in chiesa. La chiesa è tenuta dai salesiani di Don Bosco, arrivati missionari in Argentina 22 anni prima. Il parroco si chiama Carlo Cavalli, e Artemide gli dà una mano a tenere in ordine la chiesa, ad accompagnarlo nella visita ai malati, quando non è impegnato con i mattoni. Don Carlo gli mette nelle mani la Vita di Don Bosco, e Artemide la legge di un fiato. E gli nasce in testa un’idea: «E se mi facessi salesiano anch’io?».
Artemide ha ormai 19 anni, e ne parla con suo padre. Il bravuomo si stringe nelle spalle: «Sei grande, puoi decidere della tua vita. Ma pensaci bene, perché se cominci una strada devi andare fino in fondo».
Le case salesiane in Argentina sono numerose e sparse un po’ dappertutto. Quella che raduna i giovani che intendono prepararsi alla vita salesiana, è a Bernal, vicino a Buenos Aires.
A Bernal arriva un giovane salesiano colpito dalla tubercolosi, e Artemide si presta per curarlo e assisterlo. Il salesiano, consunto dalla tubercolosi, muore. Artemide, 22 anni, è scosso da una tosse insistente e consumato da una febbre che l’assale tutti i giorni, verso sera. E visitato da un medico che rileva la tubercolosi anche nei polmoni di Zatti, e domanda ai superiori: «Non avete una casa sulle Ande, con aria fine e ossigenata? Ebbene, se volete salvarlo, mandatelo là».
La casa c’è. Ma per raggiungerla, Artemide deve compiere un viaggio di 600 chilometri per tornare a Bahìa Blanca, e di qui affrontare un secondo viaggio verso est di 700 chilometri. Un viaggio che lo potrebbe stroncare. I primi 600 chilometri, che Zatti compie su un duro sedile di terza classe, lo portano alla sua casa e alla parrocchia salesiana. È sfiancato. Don Carlo scrive immediatamente ai Superiori, e dopo pochissimi giorni annuncia alla famiglia: «Artemide non andrà sulle Ande, ma nella casa salesiana di Viedma. Lì c’è aria buona e un ottimo dottore. E guarirà. Appena te la senti­rai, Artemide, qui ci sono i soldi per il viaggio».
A Viedma sorge l’unica opera salesiana dotata di un ospedale e di una farmacia. I missionari li hanno dovuti costruire quattordici anni prima. La città era un ammasso di povere baracche dove si ammassavano avventurieri, indigeni, soldati. Qualunque malattia poteva essere mortale, perché mancavano anche le medicine più elementari. Un prete salesiano, don Evasio Garrone, era stato infermiere nell’esercito italiano, e mons. Cagliero l’aveva incaricato di mettere in piedi una farmacia. Don Garrone fu promosso su due piedi «medico», e nella farmacia cominciò una stra­na contabilità: i ricchi pagavano le medicine a un prezzo doppio, i poveri non pagavano niente. Accanto alla farmacia c’era una stalla. Venne pulita, disinfettata, fornita di un letto e di un materasso. Sorse così anche l’ospedale per i malati che era impossibile curare nelle loro case.
 
 
NON PRETE, MA MEDICO 
Marzo 1902. Artemide giunge a Viedma e scrive alla mamma: «Con grande gioia ho trovato i miei cari fratelli salesiani. Quanto a salute, mi ha visitato il medico padre Garrone, e mi ha assicurato che tra un mese sarò guarito». In realtà l’uscita dalla malattia non durò un mese, ma due anni.
Nel 1908, a 28 anni di età, Artemide pronuncia i suoi voti definitivi: è salesiano per sempre. Dopo essersi consultato con i superiori, ha deciso di lasciare gli studi per il sacerdozio e di dedicarsi all’aiuto di don Garrone.
L’8 gennaio 1911 don Garrone muore. Di colpo, Artemide Zatti si trova da solo a capo della «Farmacia di 5. Francesco» e dell’«Ospedale di S. Giuseppe». Per essere in regola davanti alla legge, il superiore salesiano assume un medico laureato, che diventa responsabile legale di fronte all’autorità. Ma di fatto il medico di tutti è lui, Artemide Zatti, con i suoi studi scarsi ma con tanto amore per tutti i malati.
Nel 1913 i desideri di Artemide cominciano a realizzarsi: si pone la prima pietra di un nuovo ospedale. Per ora si costruirà solo il pianterreno, ma appena i soldi arriveranno, sopra si farà il primo piano, poi il secondo. Per questo i muri sono solidi e sicuri.
La fatica più grande è sempre quella di mettere insieme i soldi necessari, perché ospedale e farmacia continuano con la solita gestione: chi ha paga, chi non ha non paga. Quando i conti sono in rosso, Zatti inforca la bicicletta, si calca in testa un cappello e va a domandare l’elemosina.
Bussa alle rare case dei ricchi: «Don Pedro, potrebbe imprestare cinquemila pesos al Signore?». «Al Signore?», domanda stupito l’uomo ricco. «Sì, don Pedro. Il Signore ha detto che ciò che facciamo ai malati, lo facciamo a lui. E un buon affare prestare al Signore».
La Banca Nazionale ha aperto un’agenzia a Viedma, e assegna a Zatti il contocorrente n. 226. Artemide spende ciò che ha sul libretto, e anche ciò che non ha. E un giorno la Banca lo manda a chiamare. C’è un grosso conto in rosso da saldare subito, altrimenti scatteranno le pratiche per ipotecare l’Ospedale. Zatti rimane li, davanti al direttore della Banca, inebetito. Piange, prega e non sa che cosa fare. Soldi non ne ha proprio. L’unica cosa che ha sono altri debiti.
Qualcuno della Banca telefona al vescovo mons. Esandi. Il Vescovo brontola, dice che in un modo o nell’altro provvederà. Chiama il suo vicario. «Mi telefonano che in banca c’è Zatti che piange perché non ha da pagare una grossa somma scoperta. Sempre il solito! Abbiamo qualcosa in cassa?». «Il denaro per stampare il prossimo numero del giornale diocesano». «Portali in fretta al direttore della Banca, e salva quel pover’uomo».
Con rincrescimento, Artemide Zatti deve ammettere che le banche non «imprestano niente al Signore». Fanno affari e basta. Ma da cristiano testardo conclude: «Sono loro che sbagliano, non io». E continua così.
È arrivato all’ospedale un poveraccio coperto di stracci, è stato curato e guarito, ma non può ripartire mettendosi addosso nuovamente quegli stracci. Zatti va da una famiglia: «Non avete un vestito da imprestare al Signore?». Tirano fuori un vestito molto usato. E lui: «Non ne avete uno più bello? Al Signore dobbiamo dare il meglio che abbiamo».
È arrivato un indio sporco e sciancato. Zatti grida all’infermiera: «Sorella, prepari un letto per il Signore». E quando arriva un ragazzino affamato e stracciato, domanda alla suora: «Ha una minestra calda e un vestito per un Gesù di dieci anni?».
Davanti all’Ospedale è sorta una farmacia vera, con un farmacista diplomato. Per legge, la farmacia dell’Ospedale dovrebbe chiudere. Ma Zatti sa che nella nuova farmacia tutti dovranno pagare tutto. I poveri così non avranno più medicine. Si intende con i superiori, passa giorni e notti sui testi di farmacia, e si reca a La Plata per dare gli esami necessari. Torna fornito pure lui di regolare diploma. E la farmacia dell’Ospedale può continuare tranquilla il suo servizio ai poveri. Gli hanno detto tante volte di tenere la partita doppia, e lui ha risposto: «Ma io ce l’ho già. Nella tasca destra metto il denaro che ricevo, in quella sinistra i conti da pagare. Più partita doppia di così».
 
 
LO SGUARDO IN ALTO 
19 luglio 1950. Il serbatoio dell’acqua ha un guasto. Sotto la pioggia, Artemide Zatti (70 anni) si arrampica su una lunga scala a pioli per andarlo a riparare. Un piede scivola, la scala sbanda. Una caduta pesante, la testa ferita, tutto il corpo ammaccato. Tenta di dire: «Non è niente», ma lui stesso sa che non è vero.
I vecchi mobili sembrano massicci ed eterni. Ma se cadono anche solo una volta, diventano tutto un cigolio. E Zatti sente all’improvviso che è diventato vecchio e malato. Sente un dolore insistente al fianco sinistro, disturbi continui. Sa abbastanza di medicina per dire: «E un tumore al pancreas. Non affannatevi, perché non c’è nessun rimedio».
Qualcuno lo sorprende a piangere in silenzio, e subito nasconde le lacrime come una colpa. «Soffre?» gli domandano. E lui: «Non è questo. È che sono un ferro vecchio, inutile ormai».
Chiede l’Unzione degli Infermi, rinnova i voti battesimali e i voti religiosi. A chi domanda «Come va?», risponde in una maniera strana: «All’insù». E guarda in alto.
Il Signore viene a prenderlo il 15 marzo 1951. Quel Signore al quale Artemide Zatti la vita non l’ha prestata, l’ha donata.
 
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