17. L'ORATORIO DEI PICCOLI MURATORI

17. L'ORATORIO DEI PICCOLI MURATORI

 

Sul pulpito di S. Francesco un giovane prete predica con impegno. Presso un altare laterale, seduti sui gradini della balaustra, alcuni garzoni muratori dormono, uno appoggiato alla spalla dell’altro.

Don Bosco passa per la chiesa, tocca il primo sulla spalla. Tutti si svegliano imbarazzati. Lui sorride. Sottovoce domanda:

- Perché dormite?
- Non capiamo niente - borbotta il più grande.
- Tanto quel prete lì non parla mica per noi - aggiunge il suo vicino. - Venite con me.

In punta di piedi li conduce in sacrestia. “Erano Carlo Buzzetti, Gioanni Gariboldi, Germano” ricordava con commozione don Bosco ai suoi primi Salesiani. Piccoli muratori lombardi che per trenta-quarant'anni gli sarebbero stati accanto, che tutti a Valdocco conoscevano. “Allora erano semplici garzoni, ora sono capimastri” (Memorie, p. 129).

In sacrestia arriva anche Bartolomeo e i suoi amici. Il numero s'ingrossa. Don Bosco li aiuta a pregare, fa una predichina tutta per loro, vivace, dialogata, effervescente di fatti e di notizie curiose. Poi prendono posto nei banchi della chiesa per ascoltare la Messa di don Bosco.

Ma la mattinata è lunga, e dopo la Messa e la pagnotta della colazione i ragazzi hanno voglia di giocare. Le prime corse le fanno nel cortile del Convitto, un po' di sfroso. Quando passa un prete smettono subito.

Ma don Guala e don Cafasso capiscono. Danno un formale permesso che i ragazzi di don Bosco giochino “nel cortile annesso” ogni domenica. Quel permesso non lo ritirarono mai, per tre anni, anche se quando lo diedero i ragazzi erano una quindicina, dopo tre mesi venticinque, nell'estate ottanta.

Significava rinunciare tutte le domeniche alla calma, al sonnellino pomeridiano. Ottanta ragazzi sotto le finestre sono un concerto, la prima volta, ma la decima volta fanno saltare i nervi a chiunque.

 

Immaginette ma anche pagnotte

Don Bosco capisce che non deve tirare troppo la corda, e quando il tempo lo permette, nel pomeriggio porta i ragazzi a passeggio sulla collina, lungo i fiumi, ai santuari della Madonna.

Si propone, in quel primo inverno, di raccogliere soltanto i giovani “più pericolanti, e di preferenza quelli usciti dal carcere”. Ma nella sua vita, don Bosco non sarà mai capace di mandar via un ragazzo che chiede di stare con lui. E in brevissimo tempo la sua “truppa” ha la maggioranza formata da “scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori che venivano da paesi lontani”, e per varie ragioni nella stagione morta (dicembre-marzo) non hanno potuto tornare a casa.

Don Guala e don Cafasso, che spingono i loro giovani preti a fare esperienze simili a quelle di don Bosco (don Carpano e don Ponte, di sei anni più giovani di don Bosco, inizieranno presto a radunare i giovani spazzacamini della Valle d'Aosta), si prestano a confessare i ragazzi, vengono a chiacchierare con loro, li aiutano anche.

Don Bosco scrive un po' impacciato: “Mi davano volentieri immagini, foglietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare”. Ma i suoi muratorini e i suoi ex-carcerati hanno bisogni più urgenti dei foglietti e delle medaglie. Lo fa presente, e “mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in maggior bisogno, diedero pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé”.

Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere condizioni migliori per chi è già occupato, diventa un'occupazione fissa di don Bosco lungo la settimana. “Andavo a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nei cantieri. Tal cosa produceva grande gioia ai miei giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere anche ai loro padroni, che prendevano volentieri alle loro dipendenze giovani assistiti lungo la settimana e nei giorni festivi”.

Gli ex-carcerati erano il problema più delicato. Cercava di “collocarli a lavorare presso qualche onesto padrone uno per uno”, li andava “a visitare lungo la settimana”. I risultati erano buoni: “Si davano a una vita onorata, dimenticavano il passato, diventavano buoni cristiani e onesti cittadini”.

Ogni sabato, don Bosco tornava nelle prigioni, a continuare il suo apostolato più difficile: “Mi recavo nelle carceri con le saccocce piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle. Sempre con lo scopo di far del bene ai giovani che per disgrazia erano finiti là dentro, rendermeli amici, e invogliarli a venire all'Oratorio quando fossero usciti dal luogo di punizione”.

 

Dodici battute musicali

2 febbraio 1842. È la festa della Purificazione di Maria (allora festa di precetto). Ai suoi venticinque ragazzi, don Bosco ha insegnato a cantare. “Senza musica - scrive - i nostri incontri festivi sarebbero stati un corpo senz'anima”. Cantano a squarciagola sui sentieri delle colline, ma hanno imparato anche a cantare con delicatezza una semplice lode alla Madonna, Lodate Maria.

Nella festa della Purificazione, durante la Messa, la gente guarda meravigliata quei 25 “barabbotti” che cantano bene, che fanno simpatia.

Quella brevissima lode mariana (dodici modeste battute musicali) scivolerà di oratorio in oratorio, di scuola salesiana in scuola salesiana, e ancora oggi (1979) può essere ascoltata tra i ragazzi Khasi nel nord-India, tra le baracche delle squallide periferie di Brasilia e di Corumbà.

Fa sorridere il pensiero che quel primo, modestissimo successo musicale di don Bosco, è quasi contemporaneo (appena 35 giorni di differenza) a un altro ben più consistente esito musicale: il 9 marzo, alla Scala di Milano, il giovane maestro Verdi mette in scena Nabucco, con il coro Va' pensiero che dilagherà per tutta l'Europa.

 

Il ragazzino di Caronno

Primavera. I muratorini che sono tornati ai loro paesi durante la stagione morta, arrivano nuovamente in città. La truppa di don Bosco aumenta di domenica in domenica. Da Caronno Ghiringhello (oggi Caronno Varesino) è arrivato anche Giuseppe Buzzetti, il fratellino più piccolo di Carlo. Ha solo 10 anni. Si affeziona a don Bosco come un cucciolo. Non si staccherà mai più da lui.

Dalla primavera del 1842 all'alba del 31 gennaio 1888, quando don Bosco morirà, Giuseppe Buzzetti gli sarà sempre accanto, testimone calmo e tranquillo di tutta la vicenda umana e divina del prete “che gli vuole bene”. Molti avvenimenti della vita di don Bosco sarebbero ormai classificati “leggende”, nel nostro tempo diffidente e smitizzatore, se non fossero stati visti dagli occhi semplici del muratorino di Caronno, che era sempre lì, a due passi dal “suo” don Bosco.

 

“Se avessi soltanto un pezzo di pane”

Ciò che lega i ragazzi a don Bosco è la sua bontà cordiale, profonda. I ragazzi “sentono” questa bontà, e la vedono in atti concreti, in gesti toccanti. Ogni momento della giornata di don Bosco è a loro disposizione.

Se hanno bisogno di imparare a leggere, a fare le quattro operazioni, don Bosco trova le ore o le persone adatte per far loro scuola.

Se hanno un cattivo padrone o sono disoccupati, si dà da fare, mette in moto gli amici per trovare un posto, un padrone onesto e cristiano.
Anche se hanno bisogno urgente di denaro, sanno che don Bosco è pronto a rovesciare il suo borsellino nelle loro mani.
Se la loro giornata è grigia, dura, gli dicono: “Venga a trovarmi”, e lui va. Entra nell'officina, nei cantieri. Vederlo, parlargli, è un momento di sollievo.
Una delle frasi che molti si sentono dire (e che custodiranno nella memoria come un tesoro) è: “Ti voglio così bene, che se un giorno avessi soltanto più un pezzo di pane, lo farei a metà con te”.

Quando ha da rimproverare qualcuno, lo fa, ma non in presenza di altri, per non mortificarlo. Se fa una promessa, è pronto a buttarsi nel fuoco per mantenerla.

In questi anni, molti preti si stanno impegnando nel fare del bene ai ragazzi poveri. Il loro atteggiamento ha una caratteristica comune, che possiamo chiamare “amorevolezza seria”. Basta leggere il regolamento del santo Ludovico Pavoni, i manuali educativi dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Si deve essere amorevoli con i ragazzi, ma non permettere che alzino troppo la voce, che abbiano un'allegria rumorosa. Occorre imporre silenzio, raccoglimento, altrimenti nel ragazzo si scatena la “bestiolina”.

L'amorevolezza di don Bosco ha una caratteristica diversa, è “allegra”. Già fondatore della “Società dell'allegria”, don Bosco conosce il valore della gioia rumorosa, dello scatenamento allegro delle energie compresse in quella cartuccia esplosiva che chiamiamo giovinezza. Li invita lui stesso: “Giocate, saltate, fate chiasso. A me interessa che non facciate peccati”.

L'aria libera, il cortile dove si può correre a perdifiato, sono l'ambiente ideale per don Bosco. Assiste i suoi giovani, certo, perché non facciano e non si facciano del male. Non è però un'assistenza mortificante, ma stimolante. Egli intuisce che l'educatore non deve rimanere estraneo all'allegria dei ragazzi, deve parteciparvi, deve organizzarla quando non nasce spontanea, e impedire tutto ciò che può rovinarla.

E i ragazzi gli vogliono bene, gli si affezionano in maniera totale. Incontrarsi con lui è un momento di festa.

In via Milano, presso Palazzo di Città, incontra un ragazzo che torna da fare la spesa. Ha le mani ingombre da una bottiglia d'olio e da un bicchiere d'aceto, ma appena vede don Bosco gli corre incontro gridando: “Buongiorno, don Bosco!”. L'olio e l'aceto sbandano pericolosamente nei recipienti.

Don Bosco ride nel vederlo felice, e scherza con lui: “Scommetto che non sei capace a fare come faccio io”. E si mette a battere le mani una contro l'altra. Il ragazzino, nella festa dell’incontro, non capisce lo scherzo. Mette la bottiglia scivolosa sotto il braccio e batte le mani come può gridando: “Viva don Bosco!”.

Bicchiere e bottiglia schizzano via e vanno in pezzi. Rimane mortificato:
- Povero me, a casa la mamma mi picchia.
- Stai tranquillo, è un male a cui rimediamo subito - gli dice don Bosco. Entrano in una drogheria, e don Bosco compra olio e aceto.

 

“La presidenza al Papa, la spada a Carlo Alberto”

Aprile 1842. Torino è in festa. Vittorio Emanuele, il principe ereditario, sposa Adelaide figlia dell'arciduca austriaco Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto. Durante le feste, due avvenimenti eccezionali: sulla loggia di Palazzo Madama viene esposta la sacra Sindone; ai rivoluzionari del 1821 che sono ancora in esilio viene concessa l'amnistia.

È un altro passo cauto di Carlo Alberto verso i liberali moderati. L'anno successivo (1843) a Bruxelles l'esule piemontese, V. Gioberti, pubblicherà un libro che farà molto rumore, Del Primato morale e civile degli italiani. In quelle pagine sono contenute le principali idee di quel riformismo moderato liberale che verrà chiamato “neoguelfismo”. La grandezza d'Italia - afferma Gioberti - è congiunta inseparabilmente con la grandezza del Papato. L'indipendenza dell'Italia, quindi, si dovrà realizzare mediante la federazione degli Stati italiani sotto la presidenza del Papa. “La presidenza al Papa, la spada a Carlo Albero” diventerà la parola d'ordine dei neo-guelfi.

Carlo Alberto se ne compiace, ma tiene l'occhio sospettoso verso l'Austria. A Torino un altro liberale moderato, Cesare Balbo, sta ultimando un altro libro che farà a sua volta rumore, Le speranze d'Italia. Il re, in modo discreto, gli fa arrivare il suo compiacimento, ma anche il consiglio di farlo stampare a Parigi. Contemporaneamente invia una protesta ufficiale al governo francese di Luigi Filippo, perché il generale Perrone “che qui da noi è stato condannato all'impiccagione” ha ricevuto un alto comando a Lione. Perrone, liberale, rientrerà in Piemonte con tutti gli onori nel 1848. Dall'ottobre al novembre di quell'anno diventerà addirittura Primo Ministro di Carlo Alberto. Don Bosco osserva tutto, e la sua diffidenza verso la politica si rafforza.

 

“Avete una veste troppo leggera”

30 aprile 1842. A Chieri muore il canonico Cottolengo. Nella sua “Piccola Casa”, i malati incurabili sono parecchie centinaia. Qualche anno prima, il ministro delle Finanze l'aveva mandato a chiamare.

- Lei è il direttore della Piccola Casa della Divina Provvidenza?
- No. Io sono un semplice manovale della Provvidenza.
- Sarà. Ma dove prende i mezzi per mantenere tutti quei malati? - Gliel'ho già detto, dalla Provvidenza.

Quell'uomo, abituato a tenere i piedi saldamente per terra, ad esaminare entrate, uscite e bilanci, perse la pazienza:

- Ma il denaro, reverendo, i quattrini. Di dove li fa saltare fuori?

- E dagliela! Ma se gliel'ho già detto due volte. La Divina Provvidenza ci fornisce di tutto, non ci ha mai lasciato mancare niente. Io morirò, morirà anche lei, signor ministro, ma la Provvidenza continuerà a pensare ai poveri della Piccola Casa.

Quando la salute del Cottolengo aveva cominciato a vacillare, lo stesso Carlo Alberto lo aveva fatto chiamare a Palazzo Reale.

- Signor canonico - gli disse con il suo fare piuttosto brusco -, vogliate considerare che anche voi siete soggetto alla legge inesorabile della morte. Che avverrà quel giorno delle centinaia di orfani, invalidi, incurabili che avete riunito nella vostra Casa?

Mentre il re parlava, il Cottolengo sbirciava dall'ampia finestra da cui si vedeva la piazza. Si sentiva il passo secco e cadenzato di alcuni soldati. Un plotone, appena arrivato, si stava schierando di fronte ad un altro.

- Maestà, cosa sta succedendo?

- È il cambio della guardia. Il plotone che adesso è arrivato prende il posto di quello che se ne va.

Il Cottolengo sorrise:

- Eccola lì la risposta alla vostra domanda. Anche nella Piccola Casa avverrà un semplice cambio di guardia. Il canonico Cottolengo se ne andrà, e la Provvidenza manderà un altro a prenderne il posto.

Fu realmente così. Alla sua morte gli successe il canonico Anglesio, e la Piccola Casa continuò tranquillamente la sua vita, tra il mercato generale della città e gli edifici della marchesa Barolo.

Don Bosco, in quei giorni, ricordò il suo primo incontro con il Cottolengo. Era arrivato da poco a Torino, ed era andato a visitare la Piccola Casa. Il canonico gli aveva chiesto il nome, la provenienza, poi gli aveva detto con quel suo fare svagato e scherzoso:

- Avete la faccia da galantuomo. Venite a lavorare nella Piccola Casa. Il lavoro non vi mancherà.

Don Bosco vi si era recato molte volte, a confessare i malati, a passare qualche ora con i ragazzi invalidi. Un giorno il Cottolengo l'aveva ancora incontrato (era presente il giovane

Domenico Bosso), gli aveva preso tra le dita un lembo della veste nera, e palpandola aveva detto:

- È troppo leggera. Procuratevene una molto più resistente, perché molti ragazzi si appenderanno a questa veste.

 

Parlava tranquillamente di Dio

Si appendevano sul serio. Man mano che i mesi passavano, i ragazzi dell'oratorio aumentavano. Avevano passato il numero di cento. Non avevano bisogno soltanto di pane e di lavoro, ma di fede, che nutre anche quando il pane è scarso. E don Bosco, che non era un filantropo ma un prete, si preoccupava di farli incontrare con Dio.
“Era per me una cosa singolare - scrive - lungo la settimana e specialmente nei giorni festivi, vedere il mio confessionale attorniato da quaranta o cinquanta giovani, che attendevano anche lungo tempo per potersi confessare”.
Confessarsi non è una cosa facile per i ragazzi. Don Bosco li aiutava suggerendo delle norme semplicissime: “Se non sai come esprimerti, di' soltanto al confessore che ti aiuti. Il confessore ne ha abbastanza, ti farà alcune domande e tutto sarà aggiustato”.

Al confessionale - scrive Pietro Stella - don Bosco si accostava con un vivissimo senso del peccato e della vita di grazia. Non soltanto come giudice, ma specialmente come padre, desideroso di accrescere nei ragazzi la vita della grazia. Negli anni del Convitto si consolidò nella persuasione che non col rigore, ma con la bontà avrebbe portato le anime a Dio.

Il coronamento naturale della confessione era la Comunione, alla quale molti dei suoi ragazzi si accostavano tutte le settimane.

Anche nella conversazione ordinaria, tra i giochi e le passeggiate, don Bosco parlava tranquillamente di Dio. Non faceva il minimo sforzo, con i suoi ragazzi, a scambiare battute allegre, raccontare barzellette, e parlare del Cielo. In un momento di grande gioia, guardava i suoi ragazzi e diceva:

- Che piacere quando saremo tutti in Paradiso!

Qualche volta si discuteva, e l'argomento magari scivolava sul bene, sul male, sulla vita, sull'aldilà. Qualcuno gli domandava:

- E io mi salverò? E lui:

- Vorrei vedere che andassi all'inferno! Credi che il Signore abbia creato il Paradiso per lasciarlo vuoto? Certo, arrampicarsi lassù costa sacrificio, ma io voglio che lassù ci ritroviamo tutti. Che festa faremo!

 

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