Estate 1844. I tre anni di Convitto per don Bosco sono trascorsi.
Don Cafasso scende nella periferia di Valdocco e va a trovare il teologo Borel, direttore spirituale del Rifugio fondato dalla marchesa Barolo.
- Vorrei mandare qui da voi un bravo prete. Dovreste procurargli una stanza e uno stipendio.
- Ma qui non c'è nemmeno lavoro per me. Cosa posso fargli fare?
- Lasciatelo libero. Se vi preoccupa lo stipendio, lo pago io. Si chiama don Bosco, e al Convitto ha iniziato una specie di oratorio per ragazzi poveri. Se non gli troviamo un posto in città, l'Arcivescovo lo manderà viceparroco in qualche paese, e i ragazzi di quell'oratorio torneranno in mezzo alla strada. Sarebbe un vero peccato.
- Allora d'accordo. Ne parlo alla marchesa.
Don Cafasso torna al Convitto e dice a don Bosco:
- Fate fagotto e andate al Rifugio. Lavorerete accanto al teologo Borel, e avrete tempo per badare ai vostri ragazzi.
Il cilicio sotto le vesti raffinate
La marchesa Giulia Francesca di Colbert aveva in quel tempo un posto di primissimo piano nella società torinese. Fuggita dalla Francia durante la rivoluzione, aveva sposato il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, che nel 1825 era stato sindaco di Torino.
Il marchese era morto nel 1838 lasciandola senza figli e con un immenso patrimonio. La marchesa, 53 anni, indossò sotto le vesti raffinate il cilicio della penitenza, e si dedicò completamente ai poveri. «Devo scontare tutti i privilegi degli avi, devo saldare i debiti che hanno contratto con i miseri e con gli sfruttati», scrisse nelle sue Memorie.
Passò per molti mesi tre ore giornaliere nelle carceri delle donne. Sopportò insulti, umiliazioni, qualche volta fu picchiata, per aiutare e istruire quelle povere donne. Alla fine ottenne dalle autorità di separare le prigioni femminili da quelle maschili. Trasportò le prigioniere in un edificio più salubre, fatto preparare da lei.
Creò orfanotrofi e “famiglie” per ragazze operaie.
A Valdocco, accanto alla Piccola Casa del Cottolengo, costruì il Rifugio, per le donne di strada che volevano rifarsi una vita. Accanto, aprì la casa delle Maddalenine, per le ragazze pericolanti che avevano meno di quattordici anni.
In quel 1844 aveva fatto iniziare una terza costruzione, l'Ospedaletto di Santa Filomena, per le bambine ammalate o storpie.
Impegnata in prima persona tra queste opere di carità, non cessò di essere elegante, vivace. Nel suo salotto si davano convegno i più noti intellettuali del tempo. Silvio Pellico le faceva da segretario, e nel suo palazzo aveva scritto Le mie Prigioni. Camillo Cavour era suo amico e confidente. Gli scrittori Balzac e Lamartine le scrivevano tenendola informata sulle cose di Francia.
Il teologo Borel si incontrò con la marchesa:
- Ho trovato il direttore spirituale per il vostro Ospedaletto. Si chiama don Bosco e viene dal Convitto.
- D'accordo, ma l'Ospedaletto è ancora in costruzione. Ne riparliamo fra sei mesi.
- No, signora marchesa. Don Bosco o si prende subito o verrà mandato altrove. Don Cafasso me l'ha raccomandato vivamente. Mi ha parlato di un oratorio fondato da questo prete. Dice che sarebbe un peccato lasciarlo andare in malora.
La marchesa volle altre informazioni. Poi, convinta, assegnò a don Bosco 600 lire come stipendio annuo e una stanza accanto a quella del Borel, nelle vicinanze del Rifugio.
Anche don Bosco, nel primo incontro che ebbe con la marchesa, volle informazioni e garanzie. Accettava di prestare il suo ministero nel Rifugio, ma chiedeva di non essere obbligato ad abbandonare i suoi ragazzi. Chiedeva pure che i ragazzi che avessero voluto avvicinarlo durante la settimana, potessero recarsi da lui liberamente.
La marchesa, che toccava ormai i 60 anni ma conservava intatto il suo temperamento energico e schietto, fu contenta di quella franchezza. Concesse al giovane prete di radunare il suo oratorio nella fascia di terreno che costeggiava l'Ospedaletto in costruzione. Appena possibile gli avrebbe pure lasciato disporre, all'interno dell'edificio, di due camere: poteva attrezzarle come cappella.
La sistemazione c'era, ma era piuttosto approssimativa.
Gli agnelli si mutavano in pastori
12 ottobre 1844, sabato. Don Bosco è pensieroso. Il giorno dopo dovrà comunicare ai suoi ragazzi che l'oratorio si trasferisce nella periferia di Valdocco. “Ma l'incertezza del luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano col cuore inquieto - scrive -. In quella notte feci un nuovo sogno, che mi parve un'appendice di quello fatto ai Becchi, a nove anni”.
Vede ancora l'esercito di lupi. Vuole fuggire. Ma “una signora a foggia di pastorella mi fé' cenno di accompagnare quel gregge strano, mentre ella precedeva. Facemmo tre fermate. Ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli. Oppresso dalla stanchezza volevo sedermi, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Ed eccoci in un vasto cortile, con porticato intorno, e all'estremità una chiesa. Il numero degli agnelli divenne grandissimo. Sopraggiunsero parecchi pastori per custodirli. Ma si fermavano poco. Allora successe una meraviglia. Molti agnelli si mutavano in pastorelli, che si prendevano cura degli altri. La pastorella mi invitò a guardare a mezzodì. Guardando vidi un campo. " Guarda un'altra volta " mi disse. Vidi una stupenda ed alta chiesa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, su cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea (Qui è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria)”.
Dopo altre dieci righe, don Bosco conclude: “Ci credevo poco. Ma capii le cose man mano che si verificarono. Anzi, questo sogno, insieme a un altro, mi servì di programma nelle mie decisioni”.
L'altro sogno lo raccontò a don Barberis e a don Lemoyne, che lo misero subito per scritto (si può leggere nel secondo volume delle Memorie biografiche, a p. 298). È in gran parte una ripetizione variata del primo. Riferiamo quindi soltanto gli elementi caratteristici.
“Una Signora mi disse: " Guarda ". Vidi una chiesa piccola e bassa, un po' di cortile e giovani in gran numero. Essendo la chiesa divenuta angusta, ricorsi ancora a lei, ed essa mi fece vedere un'altra chiesa assai più grande, con una casa vicina. Mi vidi circondato da un numero immenso di giovani, e vidi una grandissima chiesa con molti edifici tutto intorno, e con un bel monumento nel mezzo”.
“Dov'è don Bosco? Dov'è l'oratorio?”
13 ottobre, domenica. Don Bosco annuncia ai suoi ragazzi il trasferimento dell'oratorio presso il Rifugio. C'è un certo turbamento. Allora don Bosco azzarda, dà per scontato ciò che ha visto solo in sogno, e annuncia allegro che “colà ci attendeva un vasto locale tutto per noi, per cantare, correre, saltare. Ne ebbero piacere. Ognuno attendeva impaziente di vedere le novità”.
20 ottobre, domenica. Gruppi di ragazzi passano la cinta daziaria, scendono verso la zona bassa di Valdocco. Fino alla riva destra della Dora è una distesa di prati e di campi, con casolari sparsi. La Piccola Casa del Cottolengo, il Rifugio della Barolo sono vicini a osterie e case rustiche, dove la gente vive tranquilla. I ragazzi non sanno dove andare, si mettono a bussare alle porte, a gridare:
- Don Bosco! Dov'è don Bosco? Dov'è l'oratorio?
La gente, che vede spesso da quelle parti bande di ragazzacci, pensa a un brutto scherzo, alza la voce:
- Macché oratorio, macché don Bosco! Via di qui! Alzate i tacchi o vi faremo correre con i forconi!
“Udendo gli schiamazzi, insieme al teologo Borel uscii di casa. Cessò ogni schiamazzo, ci corsero incontro”.
Posto per giocare e correre ce n'era da vendere. Ma un luogo raccolto per pregare, per confessare, per dire la Messa, non c'era proprio.
- Il vasto locale che vi ho promesso non è ancora ultimato. Ma chi vuole, può salire in camera mia e in quella del teologo Borel.
Il risultato, per quella e per le altre domeniche fino a dicembre, fu quello delle acciughe nel barile. “Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di ragazzi. A confessare eravamo in due, ma quelli che volevano confessarsi erano duecento”. E chi tiene fermi, mentre aspettano, duecento ragazzi?
“Uno voleva accendere il fuoco, un altro spegnerlo. Uno metteva a posto la legna, un altro rovesciava l'acqua. Secchia, molle, paletta, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri, tutto era sottosopra, perché tutti volevano mettere in ordine”.
C'è un po' di gioiosa esagerazione in queste righe di don Bosco, ma chi è vissuto a lungo tra i ragazzi sa che non c?è “molta” esagerazione.
Sei domeniche così, con duecento giovani che a metà mattina s'incolonnano dietro don Bosco, come un piccolo esercito, per andare a Messa al Monte dei Cappuccini, o alla Consolata, o a Sassi.
Sovente li accompagna il teologo Borel, prete semplice e popolare, che la gente chiama per la sua statura “il padre piccolo”. È un lavoratore instancabile. Ha preso sotto la sua ala il giovane don Bosco, e lo aiuta con un'amicizia affettuosa, spesso con il denaro della sua borsa.
Le prediche del “padre piccolo” sono graditissime ai ragazzi, perché sono snocciolate nel dialetto saporito di Porta Palazzo, condite di proverbi, frizzi, frasi argute. Qualcuno ha detto a don Borel che bisognerebbe predicare in maniera più decorosa, e lui ha risposto: “Il mondo è goffo, e quindi bisogna predicare goffamente”.
I fiocchi di neve crepitavano nel braciere
8 dicembre. Le due camere attrezzate a cappella sono finalmente pronte. È tempo, perché dalla notte sta nevicando in maniera impressionante.
Al mattino la neve è alta, e fa molto freddo. Viene portato in cappella un grosso braciere. Giuseppe Buzzetti ricordava che, passando all'aperto, i fiocchi di neve vi cadevano dentro crepitando.
I ragazzi vengono lo stesso. Trovano un piccolo altare, un piccolo tabernacolo, alcune panche. “Si celebrò la Messa - scrive con semplicità don Bosco -, parecchi giovani fecero la loro confessione e Comunione, e io piansi, perché l'oratorio mi sembrava ormai stabile”.
Si sbaglia. Dovrà piangere ancora una volta, non di gioia ma di tristezza, prima di trovare il luogo stabile e definitivo per l'oratorio.
Ma da questo 8 dicembre 1844, qualcosa di definitivo l'oratorio di don Bosco l'acquista: il nome. Si chiamerà “di san Francesco di Sales”. I motivi li ricorda don Bosco stesso: “Perché la marchesa aveva fatto eseguire il dipinto di questo Santo nell'entrata del locale. E perché quel nostro ministero esigeva grande calma e dolcezza: ci eravamo perciò messi sotto la protezione di san Francesco di Sales perché ci ottenesse la sua straordinaria mansuetudine”.
Per alimentare l'allegria dei suoi ragazzi, don Bosco compra bocce, piastrelle, stampelle (non era ancora stato inventato il pallone!). Continua ad aiutare i più poveri con cibo, abiti, scarpe.
Ora che ha una stanza, pensa di dare un po' di istruzione ai più intelligenti di quei ragazzi. La sera, rubando un paio di ore al sonno, vengono da lui a gruppetti, col viso nero di fuliggine o bianco di calce, con la mantellina sulle spalle per difendersi dal gran freddo, lieti di avere un po' di scuola.
Ma per libri, abiti, strumenti da gioco, ci vogliono soldi. Don Bosco si sente timido e impacciato. Gli ripugna presentarsi a una famiglia signorile per chiedere l'elemosina. È don Borel che lo spinge:
- Se vuoi bene sul serio ai tuoi ragazzi, devi fare anche questo sacrificio.
E don Bosco lo fa. La prima famiglia ricca alla quale si rivolge (è stata preparata da don Borei) è quella del cavalier Gonella. Don Bosco si sente avvampare le guance quando tende le mani per ricevere le prime trecento lire.
Quarantadue anni dopo, quando pregherà un direttore salesiano di andare a ritirare un'elemosina e si sentirà rispondere che “gli manca la franchezza di don Bosco”, si farà serio e dirà:
- To non sai quanto mi è costato chiedere la carità.
Non perderà mai questo impaccio, ma neppure rinuncerà mai alla sua dignità. Né timido né grossolano. Le famiglie signorili diranno di lui: - Sembrava che entrasse in casa un angelo.
Mentre pensava ai suoi ragazzi, don Bosco manteneva i suoi impegni. Era stato mandato lì, e riceveva ospitalità e stipendio, per esercitare il ministero sacerdotale tra le donne infelici e le ragazze del Rifugio. Diceva chiaro che quella non era la sua missione, ma adempiva il suo dovere con serietà.
Ci permettiamo, di passaggio, un'osservazione. Don Bosco affermò sempre che la sua missione era per i ragazzi e non per le ragazze. Ma questa “esclusività” non diventò mai “misoginia”. Accettò la collaborazione e la presenza delle donne con semplicità, sempre: dalla ragazzina che gli custodiva le mucche al Sussambrino mentre lui studiava, all'opera preziosa delle “mamme” in Valdocco (la mamma sua, quella di don Rua, quella del canonico Gastaldi, “magna” Marianna sorella di mamma Margherita). La “stanza delle donne”, come veniva chiamata, era accanto all'infermeria dei ragazzi. Domenico Savio, nell'inverno 1857, si alzerà con la febbre addosso e andrà a scaldarsi al focolare acceso da “magna” Marianna, pure lei malata. E la rimprovererà, con la sua intransigenza adolescenziale, di lamentarsi dei dolori “che le mandava Dio”. La misoginia, il fastidio che la presenza di qualunque donna avrebbe dato a don Bosco, è stata a nostro avviso creata artificiosamente da qualche biografo, influenzato da ascetiche discutibili.
Fallimento a S. Pietro in Vincoli
Nei primi mesi al Rifugio, probabilmente don Bosco pensò di far cambiare parere alla marchesa: indurla a destinare l'edificio in costruzione non alle fanciulle malate ma ai giovani abbandonati. La marchesa aveva una speranza diametralmente opposta: che don Bosco, con il passare del tempo, abbandonasse i ragazzi, e si dedicasse alle sue opere a tempo pieno.
Fu un'illusione reciproca. Man mano che il tempo passava, il numero e il chiasso dei ragazzi aumentavano, qualche rosaio fu devastato dall'impeto dei giochi, qualche suora manifestò la sua apprensione per la vicinanza di quei ragazzotti alle “maddalenine”. La marchesa divenne impaziente di veder partire l'oratorio.
Il problema era: dove andare? I sogni stimolavano la speranza di don Bosco, ma non erano carte topografiche precise.
Nella quaresima del 1845 si tentò un'uscita parziale. Per il catechismo quotidiano (allora prescritto per tutti i ragazzi in quaresima e in avvento), le classi più grandi degli oratoriani si radunarono in S. Pietro in Vincoli. Era così chiamata una chiesa dedicata al Crocifisso, con accanto un cimitero in cui da dieci anni non si seppelliva più nessuno. Il cimitero (visibile ancora oggi nella zona di Valdocco) aveva un atrio, un ampio cortile, ed era circondato da portici.
Poiché le riunioni per il catechismo si svolsero molto bene, e il cappellano del cimitero, don Tesio, era suo amico, in maggio don Bosco gli chiese di ripetere l'esperimento in grande: trapiantare tutto l'oratorio nella chiesa e nel cortile di S. Pietro in Vincoli.
Domenica 25 maggio don Tesio doveva assentarsi da Torino, e gli rispose:
- Vieni con i tuoi ragazzi per il 25. Così mi sostituisci per la Messa.
Il cappellano commise probabilmente due errori. Credeva che l'oratorio di don Bosco fosse formato solo da quei pochi ragazzi che aveva visto attenti e composti durante il catechismo quaresimale. Credeva inoltre che (come si stava verificando in altre opere per ragazzi) dopo la Messa e le funzioni di chiesa, i ragazzi se ne sarebbero tornati a casa loro, dopo aver magari consumato un panino nel cortile.
Le cose andarono ben diversamente. La donna di servizio del cappellano vide arrivare una truppa enorme di ragazzi, che affollarono tutta la chiesa. Dopo la Messa, tutti quei ragazzi afferrarono al volo la pagnotta della colazione e si scatenarono rumorosamente nel cortile e sotto i porticati. La donna (che sotto i portici allevava alcune galline) restò allibita, e subito dopo andò sulle furie. Si mise a gridare, a rincorrere, a menare il manico della scopa, mentre le sue galline, spaventatissime, fuggivano rincorse dai ragazzi.
Nel suo inseguire, giunse vicino a don Bosco, e coprì anche lui di ingiurie. “Profanatore di luoghi sacri” fu forse la cosa più gentile che quella donna riuscì a dire.
Don Bosco capì che la cosa migliore era andarsene. “Ho giudicato di far cessare la ricreazione. Ce ne partimmo con la speranza di ritrovarci con maggior quiete la domenica seguente”.
Un incidente banale, se non ci fosse una circostanza impressionante. Don Rua, al “processo informativo” su don Bosco, depose: “Mi raccontava tanti anni dopo un certo Melanotte di Lanzo, il quale si trovava presente a quella scena, che don Bosco senza scomporsi né adirarsi a quelle ingiurie, si volse ai ragazzi e disse: " Poveretta! Ci ordina di andarcene, e lei stessa un'altra festa sarà già in sepoltura "“.
Quando don Tesio tornò, la donna gli fece una relazione così catastrofica delle cose, che il cappellano (forse non osando ritirare di persona la parola data a don Bosco) scrisse al Municipio perché proibisse ogni ricreazione all'interno del cimitero.
“Rincresce dirlo - scrive rammaricato don Bosco - ma quella fu l'ultima lettera di don Tesio”. Nella settimana morirono improvvisamente sia lui sia la sua donna di servizio.
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