Dopo l'infelice esperimento di S. Pietro in Vincoli, l'oratorio tornò a riunirsi al Rifugio. La marchesa non disse nemmeno una parola in contrario. Ricordò tuttavia a don Bosco che il 10 agosto l'Ospedaletto sarebbe stato inaugurato. Da quel giorno, evidentemente, i suoi ragazzi avrebbero trovato le porte chiuse.
12 luglio 1845. Dal Municipio giunge a don Bosco una lettera. Per raccomandazione dell'Arcivescovo, gli viene concesso di “potersi servire della cappella dei Molinì di città per catechizzare i ragazzi, dal mezzogiorno fino alle ore tre del pomeriggio, con la proibizione ai medesimi d'introdursi nel secondo cortile del fabbricato”.
Una chiesa per tre ore pomeridiane di ogni domenica. Non era il Palazzo Reale, ma era sempre qualcosa per sopravvivere. “Prendemmo panche, inginocchiatoi, candelieri, alcune sedie, quadri e quadretti - ricordava don Bosco -, e ciascuno portando quell’oggetto di cui era capace, a guisa di popolare emigrazione, siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale nel luogo sopra indicato”.
I Molini di città, chiamati dalla gente “Molassi”, erano situati nella grande piazza Emanuele Filiberto (Porta Palazzo), sulla destra per chi scende verso la Dora. Ancora oggi questa vasta piazza è la sede del mercato variopinto e quotidiano della città, con file pigiate di bancherelle.
“I cavoli, o amati giovani”
Don Bosco non era contento di questa nuova sistemazione, e non lo erano nemmeno i ragazzi. Scrive: “Non si poteva celebrar Messa, né dare la benedizione alla sera. Quindi non poteva aver luogo la Comunione, che è l'elemento essenziale della nostra istituzione. La stessa ricreazione era molto disturbata: i ragazzi dovevano giocare sulla strada o sulla piazzetta davanti alla chiesa, per dove passavano carri e cavalli”. Conclude: “Non potendo avere di meglio, aspettavamo località migliore”.
Aveva affittato una stanza al piano terreno dell'edificio, e dentro s'ingegnava a far catechismo e scuola.
Don Borel cercò di rialzare il morale di tutti con una predica che divenne famosa. I ragazzi la chiamarono “la predica dei cavoli”.
“I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati non fanno bella e grossa testa - cominciò il " padre piccolo " facendo ridere tutti -. Così è del nostro oratorio. È stato trasferito di luogo in luogo, ed ebbe sempre un notevole incremento”. Dopo aver tracciato la storia dell'oratorio concluse: “Rimarremo qui per molto tempo? Non preoccupiamoci. Fidiamoci del Signore. È certo che egli ci benedice, ci aiuta e pensa a noi”.
Ma alcune domeniche dopo cominciarono le grane serie.
Dalla segreteria dei Molini partì per il Municipio una lettera con un elenco di accuse gravi: i ragazzi arrecavano guasti alla chiesa, agli edifici, erano una “radunanza che poteva essere usata per una rivoluzione” (accusa assai pericolosa per quel tempo), e costituivano “un semenzaio di immoralità”.
Per ordine del sindaco, giunse una commissione a vedere cosa succedeva. Trovò cose normali: i ragazzi facevano chiasso, un muro era stato rigato dalla punta di un chiodo. Nessuna rivoluzione e nessuna immoralità. Unico elemento di rilievo (era questa la causa vera della lettera): l'irritazione degli inquilini delle case intorno. I canti, gli schiamazzi, le partite rumorose rovinavano la tranquillità domenicale.
Don Bosco fu assai addolorato delle calunnie (che lasciano sempre il segno), molto meno delle decisioni che gli vennero comunicate. Il Municipio non ritirava il permesso dato, ma con il primo gennaio non avrebbe rinnovato la concessione. La lettera ufficiale di disdetta gli sarebbe stata inviata in novembre. Frattanto, cercasse di “essere ragionevole”.
Don Bosco cercò di esserlo. Da quel momento la chiesa dei Molini gli servì soltanto come punto di raduno. Conduceva i suoi ragazzi a giocare nei prati incolti lungo la Dora. Per pregare andavano alla Madonna del Pilone, a Sassi, alla Madonna di Campagna. “In queste chiese - scrive - celebravo la Messa, spiegavo il Vangelo. Alla sera facevo un po' di catechismo, qualche racconto, cantavamo alcune lodi. Quindi giri e passeggiate fino all'ora di fare ritorno alle famiglie. Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni idea di oratorio, e invece aumentò in modo straordinario i ragazzi”.
“Prendi, Michelino, prendi”
Presso i Molini di città, in settembre, don Bosco fece uno degli incontri fondamentali della sua vita. I ragazzi si spingevano davanti a lui per ricevere una medaglia. In disparte c'era un ragazzetto pallido, 8 anni e una larga fascia nera al braccio sinistro. Da due mesi gli era morto il papà. Non gli andava di ficcarsi nel mucchio, di spingere per farsi largo. Le medaglie finirono, e lui rimase senza.
Allora don Bosco si avvicinò, e sorridendo gli disse:
- Prendi, Michelino, prendi.
Prendere che cosa? Quel prete strano, che vedeva quel giorno per la prima volta, non gli dava niente. Soltanto gli tendeva la mano sinistra, e con la destra faceva finta di tagliarla in due. Il ragazzetto alzò gli occhi interrogativi. E il prete gli disse:
- Noi due faremo tutto a metà.
Che cosa vide don Bosco in quel momento? Non lo disse mai, ma quel ragazzo diventerà il suo braccio destro, il suo primo successore a capo della Congregazione Salesiana. Si chiamava Michele Rua, e non capì quella frase, né allora né per molti anni in seguito.
Ma si affezionò a don Bosco, quel prete accanto al quale ci si sentiva allegri e come pieni di calore.
Abitava alla Regia Fabbrica d'Armi, Michelino, dove suo papà era stato impiegato. Quattro dei suoi fratelli erano morti giovanissimi, e lui era molto gracile. Per questo sua madre non lo lasciava andare molte volte all'oratorio. Ma incontrò ugualmente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove andò a frequentare la terza elementare. Racconterà:
“Quando don Bosco veniva a dirci la Messa e a predicare, appena entrava in cappella pareva che una corrente elettrica passasse per tutti quei numerosi fanciulli. Saltavamo in piedi, uscivamo dai nostri posti, ci stringevamo attorno a lui. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse arrivare in sacrestia. I buoni Fratelli non potevano impedire quell'apparente disordine. Quando venivano altri preti non capitava niente di simile”.
Libri strappati al sonno
In ottobre c'è un avvenimento importante. Viene pubblicata la Storia Ecclesiastica ad
uso delle scuole. È il primo dei libri scolastici che don Bosco scriverà per i suoi ragazzi, strappandoli al sonno, alla luce della lampada a petrolio, appuntandoli in fretta con una scrittura impossibile. La Storia Ecclesiastica non è un'opera “scientifica”: nessuno dei libri di don Bosco lo sarà. È invece popolare, adatta alla mente semplice e alla cultura modesta dei suoi ragazzi. Parla dei Papi, dei fatti più luminosi della Chiesa, traccia il profilo dei Santi, descrive le opere di carità che nel popolo di Dio fiorirono in ogni tempo.
Ad essa seguiranno la Storia Sacra (1847), il Sistema metrico decimale (1849), la Storia d'Italia (1855).
Accanto ai libri scolastici, don Bosco troverà il tempo di scrivere moltissimi altri libri e fascicoli: vite di santi, libri di lettura divertente, manuali di preghiere e di istruzione religiosa. Ognuno sarà non un capolavoro, ma un atto di amore per i suoi ragazzi, per la gente semplice, per la Chiesa. E parecchi saranno per lui fonte di guai: arriveranno a prenderlo a bastonate per fargli smettere di scrivere.
Tre stanze in casa Moretta
In novembre arrivò la lettera municipale, e arrivò anche la brutta stagione. “Il clima - scrive - non era più adatto alle passeggiate e alle camminate fuori città. D'accordo col teologo Borel abbiamo preso in affitto tre stanze nella casa di don Moretta”.
Ora questa casa non c'è più. L'ultimo suo muro è stato inglobato nella chiesa succursale della parrocchia di Maria Ausiliatrice, sulla destra di chi scende verso la grande basilica.
Nelle tre stanze di casa Moretta “passammo quattro mesi, allo stretto ma contenti di poter almeno raccogliere i ragazzi, istruirli, dar la comodità di confessarsi”.
Don Bosco ricordava sorridendo che in quelle stanze fu costretto a trasgredire il secondo dei suoi lontani propositi di seminario: per divertire i ragazzi in un luogo così stretto, riprese a fare i giochi di prestigio. Non smise più, perché i risultati furono favolosi.
Cominciò pure, con l'aiuto del teologo Carpano, un corso regolare di scuole serali, ben diverso dalle ripetizioni volanti che aveva dato fino a quel momento.
L'istruzione popolare, le scuole serali, appartengono a quelle situazioni concrete in cui don Bosco scavalca le posizioni dei con servatori, e si trova allineato con i liberali. All'Arcivescovo che se ne preoccupa, don Bosco dice “non essere il caso di guardare di dove la nuova iniziativa ricevesse ispirazione. Occorreva studiarne la natura, e se fosse buona, darle cristiana direzione, impedendo che venisse guastata dallo spirito antireligioso”.
Un grosso punto interrogativo sull'oratorio
Dicembre. La salute di don Bosco ha un abbassamento preoccupante. È cappellano dell'Ospedaletto, dove sono ricoverate ragazze malate dai 3 ai 12 anni. È impegnato nelle carceri, nel Cottolengo, negli istituti educativi della città. Lavora nel suo oratorio, fa scuola serale, va a trovare i ragazzi sul posto di lavoro. E l'inverno 1845-46 si annuncia freddissimo.
L'inverno a Torino arriva tardi, magari, ma getta nelle vie strette spessi e grigi nevai, che forniscono alla città mesi di freddo continuo e deprimente.
I polmoni di don Bosco, in quei mesi, dimostrano una preoccupante fragilità. Il teologo Borel se ne accorge e ne avverte la marchesa Barolo. Essa dà a don Bosco cento lire per l'oratorio, e l'ordine di “cessare da ogni occupazione sino al perfetto ristabilimento”.
Don Bosco obbedisce troncando ogni impegno, eccetto quello dei suoi ragazzi. Il vantaggio che ne ricava non è consistente, e presto dovrà rendersene conto.
Ma la preoccupazione della salute è poca cosa, per ora, di fronte alle nubi nere che cominciano ad addensarsi sull'oratorio. Scrive con amarezza: “Fu in questo tempo che si diffusero alcune voci assai strane. Alcuni chiamavano don Bosco rivoluzionario, altri lo volevano pazzo, oppure eretico”.
I primi a mettere un grosso punto interrogativo sulla sua opera sono i parroci della zona. Nella “conferenza” che tengono all'inizio del 1846, uno degli argomenti all'ordine del giorno è il catechismo dei ragazzi. Il curato del Carmine ne approfitta per manifestare la sua perplessità sull'oratorio di don Bosco: i ragazzi si staccano dalle parrocchie, finiscono per non conoscere nemmeno il loro curato. Questo, si domanda, è un bene o un male? Altri parroci sono come lui preoccupati.
“Non era una miserabile ambizione o gelosia - si affretta a dire don Bosco -. Desideravano sinceramente la salvezza delle anime”. Per chiarire la situazione, mandano due loro rappresentanti.
Don Bosco, nelle sue Memorie, ricostruisce quel dialogo (deve averlo ripetuto tante volte in quegli anni: era un argomento vitale per la sua opera). Ne riportiamo le parti essenziali:
- Questo suo oratorio allontana i giovani dalle parrocchie. Perché, don Bosco, non li manda là?
- Perché la maggior parte di essi non conoscono né parroco né parrocchia: sono quasi tutti forestieri, venuti per trovare lavoro: valdostani, savoiardi, biellesi, novaresi, lombardi.
- Perché non aiutarli a inserirsi nelle rispettive parrocchie?
- Non è possibile. La diversità di linguaggio, l'incertezza del domicilio sono gravi ostacoli. Si potrebbe provare, a patto che ogni parroco venisse a raccogliersi i suoi, e li guidasse alla sua parrocchia. Ma anche così, la cosa rimarrebbe difficile: non pochi sono dissipati, discoli. Solo se presi con le ricreazioni, le passeggiate, accettano anche il catechismo e le preghiere. Ogni parrocchia dovrebbe avere un luogo determinato dove radunarli in piacevole ricreazione.
- Questo è impossibile. Non abbiamo locali, e i sacerdoti sono impegnati in altre cose alla domenica.
La conclusione l'abbiamo già riferita. A don Bosco venne comunicata alcuni giorni dopo: “Non potendo provvedere ciascuno a un oratorio nella rispettiva parrocchia, i parroci incoraggiano il sacerdote Giovanni Bosco a continuare”.
Il primo punto interrogativo aveva avuto risposta. In primavera sarebbero arrivati gli altri, molto più minacciosi.
Un oratorio diverso
Si erano così delineate le principali caratteristiche dell'oratorio di san Francesco di Sales. Don Bosco aveva attinto alle esperienze degli oratori milanesi, bresciani, a quelli romani di san Filippo Neri. Aveva camminato sulla linea tracciata a Torino da don Cocchi. Ma aveva marchiato l'opera specialmente con la sua personalità. L'oratorio era diventato nelle sue mani un'opera originale, diversa da ogni altra.
Possiamo tentare un elenco (anche se incompleto e inadeguato) delle caratteristiche “boschiane”.
Gli oratori tradizionali erano “parrocchiali”. Don Bosco aveva creato un oratorio che superava l'istituzione della parrocchia, che diventava “la parrocchia dei giovani senza parrocchia”, come la chiamerà l'Arcivescovo Fransoni.
La presenza del prete era ispirata a una “amorevolezza seria”, che moderava l'allegria e diffidava del chiasso. Don Bosco inaugurò l'“amorevolezza allegra”, in cui era il prete stesso che alimentava i giochi chiassosi e lo scatenamento della gioia.
Gli oratori tradizionali erano esclusivamente “festivi”, e spesso riducevano l'incontro con i giovani a due-tre ore del pomeriggio domenicale. Don Bosco allarga l'incontro con i ragazzi a tutto il giorno di festa, innanzitutto. Poi vi ingloba tutta la settimana con le scuole serali e gli incontri sul posto di lavoro.
I ragazzi che si recano a un oratorio normale, vanno a una parrocchia, si ritrovano in una chiesa ben determinata. Favoriti paradossalmente dalle migrazioni continue, i ragazzi dell'oratorio di san Francesco di Sales, vanno a cercare don Bosco, a passare la giornata con lui. Il centro dell'oratorio non è l'istituzione parrocchia-chiesa, ma la persona di don Bosco, la sua presenza continua, stimolante. Il rapporto (diremmo con una frase di oggi) non è istituzionale ma personale.
Gli altri oratori selezionano i ragazzi migliori. Sono i genitori che li presentano, che garantiscono della loro buona condotta. Don Bosco, siamo tentati di dire, seleziona a rovescio. Comincia dai giovani ex-carcerati che non sanno dove trovare un amico. Continua con i piccoli muratori che hanno la famiglia lontana. I ragazzi “abbandonati e pericolanti” rimangono il nucleo di questo oratorio con le porte sempre aperte a tutti. Evidentemente don Bosco dovette esigere dai suoi ragazzi un minimo di disponibilità, di collaborazione. Non potè assorbire i teppisti delle “cocche”, né gli sbandati che non vollero mai entrare in una chiesa. Eppure don Bosco continuò a guardare anche a loro, a guadagnarseli a uno a uno, o almeno a tentare, con successi e fallimenti.
Impiccagione ad Alessandria
In quel 1846, un giovane di 22 anni che don Bosco si era fatto amico nelle carceri, fu condannato a morte insieme con suo padre. L'esecuzione sarebbe avvenuta ad Alessandria. Quando don Bosco, angosciato, andò a trovarlo, il giovane si mise a piangere, e lo pregò di accompagnarlo nell'ultimo viaggio. Don Bosco si sentì mancare il coraggio, non ebbe la forza di promettere.
I condannati furono fatti partire.
Don Cafasso doveva raggiungerli con la carrozza postale per assisterli nelle ultime ore. Appena seppe che don Bosco aveva rifiutato, lo fece chiamare e lo sgridò:
- Ma non capite che è una crudeltà? Preparatevi, partiamo insieme per Alessandria.
- Non ce la farò mai a sopportare quello spettacolo. - Sbrigatevi, che il postale non ci aspetta.
Arrivarono ad Alessandria la vigilia dell'esecuzione. Il giovane, visto don Bosco entrare nella sua cella, gli gettò le braccia al collo scoppiando a piangere. Don Bosco pianse anche lui. Passarono insieme l'ultima notte pregando e parlando di Dio.
Alle due del mattino gli diede l'assoluzione, celebrò per lui la Messa nella cella, gli diede la Comunione e fecero insieme il ringraziamento. La campana del duomo suonò l'agonia. La porta della cella si aprì, entrarono i gendarmi e il carnefice, che (come sempre avveniva) si inginocchiò a domandargli perdono. Poi gli legò le mani e gli passò il laccio al collo. Pochi minuti dopo, dal portone del carcere uscì il carro con il condannato. Accanto a lui don Bosco. Subito dietro veniva il carro con il padre, assistito da don Cafasso. Molta gente affollava silenziosa le strade. Quando in fondo apparve il palco con le forche preparate don Bosco impallidì e svenne. Don Cafasso, che lo teneva d'occhio, fu lesto a far fermare i carri e a farlo scendere.
Il tragico corteo arrivò al palco, e l'esecuzione fu compiuta. Quando don Bosco rinvenne tutto era finito. Rimase profondamente mortificato. Mormorò a don Cafasso:
- Mi dispiace per quel giovane. Aveva tanta fiducia in me.
- Avete fatto ciò che avete potuto. Il resto lasciatelo fare a Dio.
Marzo 1846. Don Moretta, un bravo prete, si reca da don Bosco.
Ha in mano un fascio di lettere. “Gli inquilini - scrive don Bosco - sbalorditi dagli schiamazzi, dal continuo rumore dell'andare e venire dei miei ragazzi, dichiaravano che se ne sarebbero andati tutti se non cessavamo immediatamente la nostre riunioni”.
Ebbe un impulso di ribellione. Possibile che nessuno potesse sopportare i giovani? Quegli adulti non erano stati ragazzi anche loro? Non sapeva dove andare; ma fortunatamente stava arrivando la primavera, e non era più urgente stare al coperto.
I dialoghi di don Bosco – nota.
Da parte di qualche lettore della prima edizione di questo libro, mi è stato fatto gentilmente osservare che “i dialoghi frequenti sono una drammatizzazione che dà vivacità al testo ma nuoce alla storicità, perché sono una ricostruzione arbitraria”.
Rispondo che i frequenti dialoghi non li ho inventati, né mi sembrano “ricostruzioni arbitrarie”. Ecco il perché:
1. Le «Memorie» autografe di don Bosco, pubblicate nel 1946, occupano 238 pagine stampate. Di esse ben 106 contengono dialoghi, molti dei quali lunghi e particolareggiati. Era la maniera propria di raccontare di don Bosco.
2. La “Vita di Mamma Margherita” scritta da don Lemoyne vivente don Bosco, è per metà composta di dialoghi. L'autore scrive: “Per ciò che riguarda mamma Margherita, lo scrivente seppe quanto qui descrive dalla bocca stessa di don Bosco, avendo goduta la fortuna di avere con lui per sei e più anni giornalmente tutte le sere familiari colloqui; interrogandolo talora di ciò che aveva detto anni precedenti e che fedelmente avevo messo in carta, stupivo nell'udirmi ripetere le stesse cose e le medesime parole di sua madre e con tale esattezza da sembrare che leggesse in un libro. Lo stesso posso assicurare di tanti altri fatti, che ebbe la bontà di confidarmi e dei quali io feci tesoro per i miei confratelli”. Don Bosco corresse lui stesso quel volumetto: “piangendo di commozione”, dicono i testimoni.
3. Don Lemoyne pubblicò i primi 9 volumi (7700 pagine complessive) delle Memorie Biografiche, che narrano la storia di don Bosco fino al 1870. Nella prefazione al I volume afferma: “Le narrazioni, i dialoghi, ogni cosa che ho creduto degna di memoria, non sono che la fedele esposizione letterale di quanto i testimoni ci esposero». E nella prefazione al volume Vili: “Teniamo a ripetere che quanto abbiamo espresso ed esprimiamo è la narratone fedele di quanto accadde. Centinaia sono i testimoni della vita... moltissimi dei quali lasciarono scritto ciò che videro di lui (don Bosco) e udirono dalla sua bocca. Persino i dialoghi conservati e trasmessici sono quali si svolsero alla loro presenza”. La pubblicazione dei 9 volumi avvenne mentre erano vivi i principali protagonisti di quei dialoghi (da don Rua a don Cagliero). Le bozze furono riviste da don Paolo Albera (il “Paolino” che dal 1858 visse accanto a don Bosco). Presentando ai Salesiani il IX volume (don Lemoyne era morto mentre si procedeva alla stampa) don Albera scriveva: “Se tutti potessero conoscere quale diligenza don Lemoyne poneva nel raccogliere tali Memorie e con quanto affetto egli spendeva le sue giornate a tale lavoro, le apprezzerebbero sempre meglio” (“Atti del Capitolo Superiore”, 24.4.1917).
4. Don Bonetti, vivente don Bosco, raccontò sul Bollettino Salesiano la “Storia dell'Oratorio”, ricchissima di dialoghi. Ogni puntata era rivista da don Bosco. Ci teneva tanto don Bosco a questa revisione, che anche durante il viaggio in Spagna (1886) si faceva spedire le bozze, e le rimandava con le sue osservazioni. Don Ceria, compilatore degli ultimi 9 volumi delle Memorie Biografiche, nella prefazione al volume XII conferma la maniera tipica di raccontare di don Bosco: “Il beato don Bosco, narrando cose occorsegli, soleva ridire botte e risposte, secondoché la memoria glie ne somministrava il ricordo. Don Lemoyne poi e altri, che udivano e ne prendevano nota, le riproducevano tali e quali”.
Questi “dialoghi di don Bosco” li ho trovati nelle fonti sopra ricordate, e mi pare di averli riportati con rispetto. Solo ho ritoccato l'italiano ottocentesco dove mi sembrava opportuno, e spesso li ho condensati.
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