Il 17 febbraio e il 29 marzo 1848, Carlo Alberto aveva concesso “parità di diritti civili” ai protestanti e agli ebrei, che fino allora erano stati soltanto “tollerati”.
I cattolici pensavano che, ottenuta la parità di diritti, i protestanti se ne sarebbero stati tranquilli e quieti. Si accorsero invece, con apprensione, che la setta dei Valdesi era pronta a scatenare una vera campagna di proselitismo.
Fece uscire tre giornali: La buona Novella, La Luce Evangelica, Il rogantino piemontese. Editò e diffuse a prezzi popolari libri di propaganda. Organizzò cicli di conferenze.
Era il primo impatto secco con il “pluralismo”. I cattolici piemontesi s'indignarono, ma non seppero fare molto di più. “Fidandosi delle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi - scrive don Bosco - possedevano soltanto qualche giornale, qualche opera di cultura. Nessun periodico, nessun libro da mettere nelle mani della gente semplice”.
I vescovi piemontesi si riunirono nel 1849 a Villanovetta (Cuneo). “Indignarsi non serve a nulla - conclusero -. Bisogna reagire, impegnarsi nella stampa e nella predicazione”.
Frutti concreti delle riunioni furono la pubblicazione della Collezione dei buoni libri (settembre 1849), del giornale La Campana (marzo 1850) e delle Letture Cattoliche (marzo 1853).
Queste ultime (una serie di libretti agili) furono ideate da don Bosco, e furono appoggiate specialmente dal vescovo di Ivrea. Il Programma spiegava l'intenzione degli editori:
“1. I libri saranno di stile semplice, dicitura popolare, e conterranno materia che riguarda esclusivamente la cattolica Religione.
2. Ogni mese si pubblicherà un fascicolo da 100 a 108 pagine. Abbonamento annuo lire 1,80”.
Non dialogo ma muro contro muro.
I primi sei libretti furono scritti da don Bosco. Uscirono dal marzo all'agosto del 1853, ed ebbero come titolo generale: Il Cattolico Istruito nella sua Religione.
Don Bosco ricordava sorridendo che per quei primi sei fascicoli stentò a trovare un vescovo che desse l'“approvazione ecclesiastica”. Il Vicario generale di Torino gli disse: “Io non mi sento di mettere la mia firma lì sotto. Lei sfida e prende di fronte i nemici”. Don Bosco li aveva scritti con la stessa decisione con cui si va alla battaglia. Non sapeva nemmeno cosa fosse il “dialogo”. Il suo stile era “muro contro muro”. Bisognava salvare i giovani e la gente per la Chiesa, per Dio, per la vita eterna, e quindi bisognava lottare, battersi. Opporsi con tutti i mezzi “al torrente che tenta di travolgere nelle sue onde corrotte la Società e la Religione”.
Ricordando il fallimento dell'Amico della Gioventù, don Bosco aveva una certa apprensione. Invece le Letture Cattoliche furono accolte con consensi vastissimi, il numero di lettori fu straordinario. “Ma di qui appunto cominciarono le are dei protestanti”.
A Valdocco scesero i pastori valdesi Bert e Meille, l'evangelico Pugno. Cercavano di persuadere don Bosco a interrompere le Letture, o almeno a moderare i toni. Ma non ottennero nulla.
“Una domenica sera del mese di gennaio mi furono annunciati due signori. Entrarono e si complimentarono:
- Voi, signor Teologo, avete un gran dono: quello di farvi capire e leggere dal popolo. Dovreste dedicarvi a esporre la storia, la geografia, la fisica. Dovreste invece mettere da parte le Letture Cattoliche: sono argomenti fritti e rifritti.
- In opere di cultura, questi argomenti sono stati già trattati, è vero. Ma nessuno li ha svolti per il popolo.
- Noi siamo pronti a finanziarvi se iniziate un'opera di storia (mi porsero quattro biglietti da mille) e interrompete questo lavoro inutile.
- Se è un lavoro inutile, perché spendere denaro per farmi smettere? Vedete, facendomi prete mi sono consacrato al bene della Chiesa e della povera gente, e intendo continuare, anche scrivendo e stampando le Letture Cattoliche.
Il tono cambiò. Le voci si fecero minacciose:
- Voi fate male. Se uscite di casa, sarete sicuro di rientrare? Mi alzai. Aprii l'uscio della camera:
- Buzzetti, dissi, conduci questi signori fino al cancello”.
Vino e castagne.
Uscendo, quei “signori” avevano borbottato: “Ci rivedremo”. Don Bosco, nell'ultimo capitolo delle sue Memorie, racconta come “si fecero rivedere”, e annota: “Sembrava ci fosse una trama personale contro di me”. Riportiamo il suo racconto, condensandolo dove ci sembra necessario.
“Una sera, mentre facevo scuola, due uomini vennero a chiamarmi in fretta: all'osteria del Cuor d'Oro (via Cottolengo 34) c'era un moribondo. Ci andai, ma volli essere accompagnato da alcuni dei giovani più grandi, nonostante cercassero di dissuadermi.
Giunti al Cuor d'Oro mi condussero in una stanza a pian terreno, dove parecchi buontemponi stavano mangiando castagne. Vollero che mi servissi e mangiassi con loro. Rifiutai.
- Almeno berrà un bicchiere del nostro vino. Un sorso non le farà certamente male.
Versarono vino per tutti, ma giunti a me, uno si recò maldestramente a prendere una bottiglia diversa. Presi il bicchiere, dissi " Salute ", e lo riposi sulla tavola.
- Non faccia questo, è un dispiacere.
- È un insulto.
- Ma io non ho voglia di bere -. Allora si fecero minacciosi:
- Bisogna che beva a qualunque costo! -. Uno mi bloccò la spalla sinistra, un altro, la spalla destra -. Deve bere per amore o per forza.
- Se volete assolutamente che beva, lasciatemi almeno libere le braccia - dissi scrollandomeli di dosso -. E siccome io non posso bere, lo darò a uno dei miei ragazzi, che berrà al mio posto -. Pronunciando queste parole, feci un lungo passo verso l'uscio, lo spalancai e invitai i giovani a entrare”.
Davanti a quei giovanottoni cambiarono tono. Si scusarono, dissero che il malato si sarebbe confessato il giorno dopo. “Una persona amica fece indagini, e mi riferì che un tale aveva pagato loro una cena a patto che mi avessero costretto a bere del vino che aveva preparato per me”.
“Dovevano farmi la festa”.
“Sembrano favole gli attentati che racconto, ma purtroppo sono veri, ed ebbero moltissimi testimoni.
Una domenica sera di settembre fui chiamato in fretta in casa Sardi, vicino al Rifugio, per confessare una malata in fin di vita. Invitai parecchi dei più grandi ad accompagnarmi: ormai sospettavo di tutto. Lasciai alcuni giovani ai piedi della scala; Giuseppe Buzzetti e Giacinto Arnaud mi accompagnarono fino al pianerottolo, a poca distanza dall'uscio dell'ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante, come se stesse per mandare l'ultimo respiro. Invitai quattro persone lì presenti ad allontanarsi per confessarla.
- Prima di confessarmi - strillò la vecchia - voglio che quel briccone mi domandi scusa. - Io non ti ho fatto niente!
- Silenzio! - gridò un altro alzandosi in piedi. Successe una litigata furibonda, e prima che riuscissi a capire di che cosa si trattava, qualcuno spense i lumi, e una pioggia di bastonate si abbatté nella mia direzione. Feci appena in tempo ad afferrare una sedia, ad alzarla a protezione della testa e a precipitarmi verso la porta. Le bastonate, che dovevano farmi la festa, fracassarono la sedia. Solo una mi colpì il pollice della mano sinistra, portandomi via l'unghia con mezza falange. In mezzo ai miei giovani tornai a casa”.
“Sembra - annota don Bosco - che ogni cosa fosse ordita per farmi desistere dal calunniare i protestanti”.
Il “Grigio”.
“I frequenti brutti scherzi a cui ero fatto segno mi consigliarono a non camminare da solo nell'andare e venire dalla città di Torino (allora tra l'oratorio e la città c'era un lungo tratto di campagna ingombro di cespugli e acacie).
Una sera oscura venivo a casa soletto, non senza un po' di panico, quando mi vedo accanto un grosso cane che a primo aspetto mi spaventò; ma facendo moine come se fossi il suo padrone, ci siamo tosto messi in buona relazione, e mi accompagnò fino all'oratorio. Ciò succedette molte altre volte. Posso dire che il “Grigio” ('l Gris, lo chiamò don Bosco in piemontese) mi ha reso importanti servigi. Verrò esponendo quanto è pura verità.
Sul finire del novembre 1854, una sera nebbiosa e piovosa, venivo solo dalla città. Ad un tratto mi accorgo che due uomini camminavano a poca distanza davanti a me. Acceleravano o rallentavano a seconda che io acceleravo o rallentavo. Tentai di tornare indietro, ma era troppo tardi: con due balzi, in silenzio, mi gettarono un mantello sulla testa. Tentai di non lasciarmi avviluppare, volevo gridare, ma non ci riuscii. In quel momento apparve il Grigio. Urlando si lanciò con le zampe contro la faccia di uno, poi azzannò l'altro.
- Chiami questo cane! - si misero a gridare.
- Lo chiamo se mi lasciate in pace.
- Lo chiami subito! - implorarono.
Il Grigio continuava a urlare come un lupo arrabbiato. Andarono via lesti, e il Grigio, standomi al fianco, mi accompagnò fino a casa.
Tutte le sere che non ero accompagnato, entrato tra gli alberi, vedevo spuntare il Grigio. I giovani dell'oratorio lo videro molte volte entrare in cortile. Una volta, spaventati, due ragazzi lo vollero prendere a sassate, ma Giuseppe Buzzetti intervenne:
- Lasciatelo stare, è il cane di don Bosco.
Allora si misero ad accarezzarlo, e lo accompagnarono in refettorio, dove stavo facendo cena con alcuni chierici e mia madre. Lo guardarono sbigottiti:
- Non temete, io dissi, è il mio Grigio, lasciatelo venire. Difatti, compiendo un largo giro intorno alla tavola, mi venne vicino tutto festoso. Gli offrii minestra, pane e pietanza, ma rifiutò tutto. Appoggiò la testa sulla mia tovaglia, come volesse darmi la buona sera, quindi si lasciò accompagnare dai giovani sulla porta. Mi ricordo che quella sera ero venuto a casa tardi, e un amico mi aveva portato nella sua carrozza”.
Carlo Tomatis, che in quegli anni frequentava da studente l'oratorio, testimoniò: “Era un cane di aspetto veramente formidabile. Molte volte mamma Margherita vedendolo esclamava: " Oh la brutta bestiaccia ". Aveva una figura quasi di lupo, muso allungato, orecchie dritte, pelo grigio, altezza un metro”.
Una sera - testimoniò Michele Rua che vide il Grigio due volte - don Bosco doveva uscire per degli affari urgenti, ma trovò il Grigio sdraiato sulla soglia. Cercò di allontanarlo, di scavalcarlo. Ma sempre il cane ringhiava e lo respingeva indietro. Mamma Margherita, che ormai lo conosceva, disse a suo figlio:
- Se t' veuli nen scouteme mi, scouta almen ‘l can; seurt nen (Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane; non uscire).
Il giorno dopo, don Bosco seppe che un mal intenzionato armato di pistola lo stava attendendo a una svolta.
Il pensiero di scoprire la provenienza di quel cane venne più volte a don Bosco. Ma non riuscì a trovare niente. Ancora nel 1872 la baronessa Azelia Fassati gli domandò cosa pensasse di quel cane, e don Bosco sorridendo rispose:
- Dire che sia un angelo farebbe ridere. Ma neppure si può dire che sia un cane ordinario.
Dormire dal calzolaio.
Di giorno, don Bosco lavorava per i suoi ragazzi, girava a cercare offerte, confessava e predicava in molti istituti della città. Alla notte strappava molte ore per aggiustare abiti e scarpe, per scrivere i suoi libri. Il sonno si ammucchiava, a volte lo assaliva a tradimento.
Dopo pranzo, ricordava Giovanni Cagliero, qualche volta si addormentava di colpo, seduto sulla sedia, la testa reclinata sul petto. Allora i presenti, zitti zitti, se ne andavano in punta di piedi per non destarlo.
Per lui, quella era l'ora più pesante della giornata, e allora usciva, andava a fare le commissioni in città, visitava i benefattori per chiedere aiuti. “Camminando mi tengo sveglio”, diceva sorridendo. Ma non sempre ci riusciva.
Un pomeriggio si trovò sulla piazzetta davanti alla Consolata, con un sonno tale che non ricordava più dov'era né dove andava. C'era una bottega da calzolaio, lì vicino. Don Bosco entrò, e chiese al proprietario di lasciarlo dormire su una sedia per qualche minuto.
- Venga, venga, reverendo. Mi dispiace che la disturberò con il martello.
- No, non mi disturberà.
Si sedette accanto a un deschetto, e dormì dalle quattordici e trenta alle diciassette.
Quando si destò, si guardò in giro, vide l'ora:
- Oh povero me! Perché non mi ha svegliato?
- Caro lei - rispose il brav'uomo -, dormiva così bene che svegliarlo sarebbe stata una brutta azione. Vorrei dormire io così!
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