« Come se passasse una bestia nera »
Le giornate del seminario sono più o meno sempre le stesse. Presenterò prima le persone e la vita di ogni giorno, poi racconterò alcuni avvenimenti.
Prima di tutto, una parola sui superiori. Volevo loro molto bene. Mi hanno sempre trattato con gentilezza. Ma non ero completamente soddisfatto. Il Rettore e gli altri superiori si andavano a visitare all'arrivo dalle vacanze e quando si ripartiva. Nessuno andava a parlare con loro, se non per ricevere qualche sgridata. Uno di loro, a turno, ci assisteva durante i pasti e a passeggio. I nostri « contatti » finivano li. Quante volte avrei voluto parlare con loro, chiedere consiglio. Avevo dei dubbi, e non sapevo mai a chi domandare una spiegazione. Se qualche superiore passava in mezzo ai seminaristi, era un fuggifuggi generale, come se passasse una bestia nera.
Tutto questo mi spingeva a bruciare i tempi. Volevo essere presto prete per cominciare uno stile diverso: stare in mezzo ai ragazzi, assisterli, far loro sentire la mia amicizia.
Una strana manovra per ricevere la Comunione
E ora, una parola sui compagni. Ho mantenuto la parola data a mia madre: sono diventato amico di quelli che volevano bene alla Madonna, si impegnavano nello studio ed erano esemplari in chiesa.
Devo riconoscere che nel seminario, accanto a chierici che conducevano una vita splendida, c'erano anche dei tipi pericolosi. Giovani che entrano in seminario senza troppi pensieri sulla vocazione, senza buono spirito e senza buona volontà, ce ne sono. Proprio in seminario ho ascoltato discorsi molto cattivi. Circolavano libri immorali e contro la religione: furono bloccati durante una revisione.
I tipi pericolosi, appena conosciuti, venivano allontanati. Oppure erano loro stessi che a un certo punto se ne andavano. Ma durante i mesi passati in seminario erano stati una peste, e la peste contagia buoni e cattivi.
Ho evitato questo pericolo scegliendo come amici ragazzi ottimi: Guglielmo Garigliano, Giovanni Giacomelli di Avigliana, e poi Luigi Comollo. Tre amici, un tesoro.
La vita religiosa era molto accurata. Ogni mattina la Messa era accompagnata dalla meditazione e dal rosario. A mensa stavamo in silenzio: si ascoltava la lettura della « Storia Ecclesiastica » del Bercastel. Confessione ogni quindici giorni. Chi voleva, poteva accostarsi alla confessione ogni sabato.
La santa Comunione si poteva ricevere solo alla domenica e nelle altre feste. Se qualcuno voleva nutrirsi dell'Eucaristia durante la settimana, doveva compiere una disubbidienza. Mentre gli altri scendevano per la colazione, entrava furtivamente nella chiesa di San Filippo. Ricevuta la Comunione, poteva raggiungere gli altri mentre entravano a scuola o nella sala di studio. Questa manovra era proibita dal regolamento. Ma i superiori, che vedevano benissimo ciò che capitava, non dicevano niente. Tacitamente approvavano.
Usando questo strano sistema, ho potuto fare la Comunione moltissime volte. E posso dire che essa fu il più efficace nutrimento della mia vocazione.
Questo particolare della vita seminaristica, che considero negativo, è stato ora cancellato dall'arcivescovo Gastaldi. I chierici, se si sentono preparati, possono ricevere l'Eucaristia tutti i giorni.
Re di coppe e fante di spade
Durante il tempo libero, il gioco comune era « barra rotta ». All'inizio ci presi un gusto matto. Ma poi pensai che era molto simile ai giochi dei saltimbanchi, a cui avevo deciso di rinunciare. Lo lasciai.
In certi giorni era permesso giocare ai tarocchi. Per un certo tempo fu il mio divertimento preferito. Ma anche qui c'era il dolce e l'amaro. Non ero un giocatore straordinario, tuttavia vincevo quasi sempre. Alla fine delle partite avevo le mani piene di soldi. Ma al vedere i miei compagni tristi perché li avevano perduti, diventavo più triste di loro. Inoltre, a forza di fissare l'attenzione sulle carte, mentre studiavo o pregavo avevo sempre in mente il re di coppe e il fante di spade. Per questi motivi, a metà del secondo anno di filosofia, decisi di smettere. Quando il tempo libero aveva una certa durata, organizzavamo allegre passeggiate nelle verdi località che circondano Chieri. Quelle passeggiate erano anche utili allo studio. S'improvvisavano vivaci gare di quiz, con domande-risposte sulle materie scolastiche.
Anche all'interno del seminario, quando pioveva o il tempo era rigido, ci davamo convegno nel salone da pranzo. Nascevano vivaci dispute sugli argomenti più svariati, di scuola e non di scuola. Quel « circolo scolastico », di cui ero presidente e giudice inappellabile, era per me un vero divertimento, ed era utile per lo studio, la bontà e la salute. Le domande più interessanti le poneva sempre Luigi Comollo, che era entrato in seminario un anno dopo di me. Domenico Peretti, che sarebbe diventato parroco di Buttigliera, parlava come un giovane oratore, e aveva sempre una risposta pronta ad ogni problema. Garigliano parlava poco, ma ascoltava con molta attenzione, e aggiungeva commenti e riflessioni illuminanti. Nelle nostre chiacchierate venivano a galla un sacco di argomenti e di notizie scientifiche, che nessuno era in grado di approfondire o rettificare. Allora ci dividevamo il lavoro. A ognuno veniva affidata una nozione, un argomento. Doveva approfondirlo, e riferire al « circolo » i risultati della sua ricerca.
La manica tirata da Luigi
Sovente la mia ricreazione era interrotta da Luigi. Mi tirava per una manica, mi invitava a seguirlo e mi conduceva in chiesa. Lì mi faceva pregare: visita al SS. Sacramento, preghiera per gli agonizzanti, recita del rosario, ufficio della Madonna per le anime del purgatorio.
Quel ragazzo meraviglioso fu una grande fortuna per me. Sapeva scegliere il momento più adatto per avvisarmi, farmi una correzione, dirmi una parola di incoraggiamento. Faceva tutto con tanta gentilezza e carità che provavo piacere ad essere richiamato da lui.
Eravamo molto amici. Tentavo di imitarlo, ma ero cento chilometri indietro. Tuttavia, se non sono stato rovinato dai compagni più dissipati, se ho perseverato seriamente nella mia vocazione, lo debbo a lui.
In una sola cosa non ho nemmeno tentato di imitarlo: nella mortificazione. Aveva solo 19 anni e digiunava rigorosamente per tutta la quaresima, digiunava ogni sabato in onore della Madonna. Sovente saltava la colazione, a volte pranzava a pane e acqua. Sopportava con dolce pazienza le parole sgarbate, gli atteggiamenti di freddo disprezzo. In chiesa e a scuola era esatto in tutto.
Mi sembrava impossibile che riuscisse a tanto. Più che un amico, era un ideale per me, un modello altissimo di virtù, uno stimolo continuo a scuotere la pigrizia per essere un poco come lui.
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