1. Una testimonianza salesiana, il coadiutore Giacomo Comino, da Darfur.2. Il padovano monsignor Antonio Menegazzo, comboniano, è amministratore apostolico di El Obeid (Sudan) dal dicembre 1995. Il Darfur, la regione dove è in atto un tremendo genocidio, è situata nella sua diocesi.
del 01 settembre 2004
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        “Più di 250mila persone dipendono dagli aiuti esterni” lo ha affermato il coadiutore salesiano Giacomo Comino durante una recente visita alle Opere Pontificie di Vienna (Austria). Da diversi anni, il signor Giacomo è economo presso l’istituto San Giuseppe di Khartoum, una città dove risiedono da dieci anni, in condizioni inumane, più di un milione di evacuati dalle regioni del sud del Sudan. Il signor Giacomo ha potuto visitare i campi di rifugiati nella regione del Darfur, prima dell’arrivo delle organizzazioni umanitarie, grazie alle sue conoscenze locali. “In questi campi regna una disperazione incredibile e molto miseria”, dice il salesiano.
“Gli evacuati tentano di costruire capanne provvisorie con rami e teli di plastica, che saranno distrutte con la prossima pioggia”. Ma sono soprattutto necessari medicine e viveri. Per il signor Giacomo non si vede ancora la fine della catastrofe umanitaria: “Solo quando le persone avranno la sicurezza per la loro vita torneranno a casa. Però quando ricominceranno una nuova vita avranno bisogno di aiuti esterni. È troppo grande la distruzione che le milizie hanno provocato nella regione occidentale del Sudan: più di 50mila persone sono morte e più di un milione hanno lasciato il proprio villaggio”. Con gli aiuti di “Missio Austria” sono stati distribuiti medicinali, grano, olio, latte e tende di plastica tra i poveri della regione del Darfur.
 
 
 
2.
Secondo il prelato, nonostante siano in corso colloqui di pace per porre fino al genocidio, la situazione non sta affatto migliorando. «Gli sfollati non fanno che aumentare. Oggi si calcola che siano almeno un milione e mezzo. In crescita anche il numero dei rifugiati in Ciad: non meno di 200mila. Nessuno sa di preciso quante sono già state le vittime: forse oltre 60.000».
 
Spiega: «La gente è obbligata a scappare dai propri villaggi perché i janjaweed attaccano le loro case, bruciano, violentano donne, uccidono… I molti di coloro che hanno trovato scampo nei campi presso Nyala non hanno potuto portare nulla con sé. Il Programma alimentare mondiale (Pam) manda aiuti, ma le operazioni risultano difficili, perché sono iniziate le piogge. Le distanze da percorrere sono enormi e molte strade sono impercorribili. Il cibo, pertanto, viene gettato direttamente dagli aerei che sorvolano i campi a bassa quota».
 
Sul campo operano anche altri organismi umanitari internazionali. «Potrebbero essere di più» commenta monsignor Menegazzo: «molti hanno chiesto di poter aiutare, ma non hanno ancora ottenuto dal governo centrale di Khartoum il permesso di farlo».
 
Per descrivere la situazione in Darfur, il vescovo fa spesso ricorso alla parola 'genocidio'. Glielo faccio notare. E lui: «È il termine giusto. È la parola usata da alcune agenzie Onu e dalle varie commissioni che sono venute ad esaminare la situazione.
 
Lo sorso luglio, lo stesso Congresso americano non ha esitato a definire questa tragedia 'un vero e proprio genocidio' e ha inviato l’Amministrazione Bush a prendere in esame la possibilità di un intervento multilaterale o anche unilaterale, se le Nazioni Unite non dovessero riuscire a risolvere la situazione. La settimana scorsa, il Segretario di stato americano Colin Powell ha detto: 'In Darfur è stato perpetrato un genocidio'.
 
Il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, invece, esita a nominare l’innominabile. E ha spiegato: 'perché pronunciare questo nome, quando la comunità internazionale non è pronta a intervenire, come esigerebbe la Convenzione sulla prevenzione e repressione di crimini di genocidio, firmata nel 1948?'. Sono in ballo troppi interessi e la comunità internazionale continua a temporeggiare, trincerandosi dietro a definizioni giuridiche, dicendo che si tratta di massacri e di eccidi, ma non di genocidio. E così la gente continua a essere uccisa».
 
Monsignor Menegazzo, comunque, non è del parere che si intervenga militarmente. O meglio: «in tutto il Nord del Sudan c’è una forte opposizione ad ogni tipo di intervento esterno. Quando si è cominciato a parlare di un possibile invio di truppe dell’Onu o di soldati americani o europei, sono state inscenati gigantesche manifestazioni in quasi tutte le città. E la gente urlava: 'se arrivano le truppe dell’Onu, siamo pronti a combattere'».
 
Aggiunge: «al presente ci sono soltanto circa 300 soldati dell’Unione africana. La Nigeria, a suo tempo, aveva promesso di inviare altre truppe. Si è parlato di 2.000 unità… L’Unione africana, però, non ha né mezzi né fondi per finanziare una simile operazione».
 
Quando lo invito a parlare del comportamento del governo centrale di Khartoum, il vescovo scuote la testa: «promettono, promettono… e poi tornano a promette, ma non mantengono mai. Si è arrivati a minacciare sanzioni economiche, ma anche questo non è servito a nulla. I janjaweed continuano a mietere terrore e uccidere».
 
Ma chi sono questi janjaweed? «Sono nomadi pastori di origine araba, quindi musulmani. Possiedono immense mandrie di bestiame e hanno sempre bisogno di ampi spazi per il pascolo. Sono sempre stati 'contro' le popolazioni di origine nera, che sono per lo più dedite all’agricoltura. Anche le popolazioni nere, non di origine araba quindi, sono musulmane. Si tratta, quindi, di uno scontro tra correligionari. Ma il sangue sembra pesare di più della fede!».
 
Prosegue: «da alcuni anni, però, i janjaweed non si limitano più soltanto a sospingere le loro bestie nei campi degli agricoltori: ora usano le armi. Armi fornite loro dal governo centrale. Questi banditi arabi sono stati armati fino all’altro ieri da Khartoum. Come si può pretendere che ora il governo dica loro: 'Restituiteci le armi'?».
 
Nel febbraio 2003, due gruppi di combattenti neri si sono sollevati in armi contro il governo sudanese: l’Esercito/Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem) e L’Esercito/Movimento per la liberazione del Sudan (Sla/M), il più antico e numericamente più forte. «Accusano Khartoum di non essersi mai occupato della regione. Oggi vogliono una certa autonomia. Non sono a conoscenza di armi vendute dall’estero a questi due movimenti: quelle che oggi possiedono, le hanno rubate dalle postazioni locali dell’esercito regolare».
 
Il 23 agosto scorso, il governo centrale e i due movimenti di liberazione del Darfur hanno iniziato una serie di negoziati ad Abuja, in Nigeria, sotto l’egida del presidente dell’Unione africana, Olusegun Obasanjo, capo di stato nigeriano. «Ma i negoziati sono stati sospesi l’altro ieri. Le due parti non sembrano riuscire ad accordarsi. Per fortuna, hanno convenuto di riprendere i colloqui il prossimo 10 ottobre».
 
E nel frattempo, che cosa può fare la comunità internazionale? «Oggi tutti sanno che in Darfur è in atto quella che l’Onu ha definito 'la più grave crisi umanitaria del pianeta' – dice monsignor Menegazzo –. È urgente muoversi, fare pressione sui governi di tutto il mondo, perché trovino il modo di costringere Khartoum non solo a non armare più i janjaweed, ma anche a fermarli da questa loro follia».
 
Precisa: «la situazione in Darfur sta mettendo in serio pericolo anche la pace da poco firmata nel Sud Sudan, tra il governo centrale e l’Esercito di Liberazione del popolo sudanese (Spla). È risaputo che quella pace, firmata in Kenya lo scorso gennaio, è stata soltanto un accordarsi su come spartirsi i proventi del greggio che giace nel sottosuolo. Fu una pace 'poco sentita', imposta dall’esterno, soprattutto dagli Stati Uniti, che stanno cercando alternative al greggio del Medio Oriente. Ma non fu difficile avvertire che le due parti in causa non erano del tutto soddisfatte.
 
Oggi, il conflitto in Darfur offre ottimi motivi, sia all’una che all’altra parte, per non proseguire nel lavoro di definizione e attuazione della pace. Tanto è vero che, collassati i negoziati ad Abuja, anche a Naivasha, in Kenya, i negoziatori hanno deciso di attendere… Appare oggi del tutto evidente che la pace firmata in Sud Sudan era fondata sulla sabbia. Sia il governo centrale che i ribelli del Sud finsero di ignorare la conflittualità diffusa in altre parti del paese, come in Darfur, sui Monti Nuba, nella regione del Nilo Blu…».
 
Il Darfur è parte della diocesi di El Obeid. Che fa la chiesa per alleviare la tragica situazione in cui versano centinaia di migliaia di persone? «Stiamo aiutando gli sfollati. Numerosi campi sono stati allestiti nelle vicinanze delle nostre parrocchie, soprattutto nella zona di Nyala. In seguito a una campagna internazionale, mirata a far conoscere la situazione e a cercare aiuti, molti organismi si sono mossi. Alcuni sono venuti, altri invece ancora attendono il permesso dal governo. Questi ultimi si stanno servendo di noi, delle nostre strutture e del nostro personale. Riceviamo molto denaro, ma non basta mai.
 
Sono appena stato in Germania, dove ho partecipato a un Forum ecumenico delle chiese cristiane di quella nazione. C’erano rappresentanti ecclesiali anche dal Nord e Sud Sudan. Abbiamo parlato soprattutto della situazione in Darfur. Ci siamo chiesti cosa possiamo fare perché essa migliori. E la decisione è stata quella di contattare il governo centrale di Khartoum e chiedere ai suoi leader di adoperarsi seriamente per la pace in quella regione. Nel contempo, è urgente fare pressione sui governi europei e americani, sull’Onu e sull’Unione europea perché trovino il modo di costringere Khartoum a mantenere le promesse fatte».
 
 
 
Franco Moretti
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